CAPITOLO 33

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Narratore esterno

Andrea era lì, stesa sul letto.
Pensava. Pensava a ogni cosa.
I suoi pensieri era incostanti, come bambini che si ricorrono nella neve: non stavano un attimo fermi.
Urlavano nella sua testa, e non c'era niente che potesse sovrastarli. Il silenzio che colmava la sua stanza era per lei insostenibile. Più assordante del passaggio di un treno, di un concerto scatenato. Più assordante della felicità che tanto bramava, ma che non aveva mai veramente assaporato.
I ricordi strazianti le scorrevano davanti agli occhi, come se li stesse vivendo in quel momento.
Era certa che in lei ci fosse qualcosa di sbagliato: tutti l'abbandonavano.
Teneva gli occhi fissi sul soffitto, ma stava guardando altrove. Stava guardando nel suo cuore.
Spesso, chi viene abbandonato, si sente come una caramella cattiva buttata via. Colpevole di qualcosa di indefinito.
Esattamente così, si sentiva quella ragazza spenta.
Si era resa conto, che neanche i suoi più cari amici potevano salvarla. Lei però ci aveva provato. Aveva provato a fare amicizia, e aveva anche provato l'ebbrezza del tocco di un ragazzo che aveva occupato i suoi pensieri.
Ma ormai era persa, arida.
Senza speranza.
In quel momento le venne in mente uno dei tanti pomeriggi dallo psicologo dell'ospedale, quello che più l'avrebbe rovinata.

"Allora Andrea, immagino tu sappia perché sei qui. Il nostro appuntamento doveva essere lunedì prossimo, e oggi è giovedì. I tuoi genitori mi hanno chiesto qualche visita in più. Mi vuoi parlare di qualcosa?" Mi chiede il dottore, addolcendosi per la domanda.
"No." rispondo secca, senza emozioni. Continuo a fissare il bicchiere d'acqua, ancora pieno. Ho paura di vomitarlo, com'è già successo, ma non lo dico mai a nessuno.
"Ne sei sicura?"
"Sì."
"Ok....come va con....Abby? La tua amica?"
"Non la vedo da due settimane."
"Oh....senti Andrea, lo so che questo è il mio lavoro.
Lo so che devo aiutarti: il tuo è stato un trauma.
Ma i tuoi genitori sono sempre più preoccupati per te, e anche io. So che, probabilmente, le tue cicatrici sono aumentate.
So che non mangi da giorni, perché non vuoi vomitare tutto. E perdonami per quello che sto per fare" si ferma e prende un profondo respiro" ti proibisco di vedere Jace. Sei bandita dalla sua stanza. Non potrai avvicinarti."
Mi alzo di scatto, furente, facendo cadere la sedia. L'odio, la rabbia, e la tristezza sono le uniche emozioni che sento dall'incidente del mio migliore amico.
"Come può fare questo?!" urlo.
"Andrea, hai solo 16 anni, e dalla mia diagnosi, sei un' autolesionista grave, bulimica, e depressa. Io non ho intenzione di seguire chi non ha interesse per la vita."
Mi calmo improvvisamente. Una calma glaciale.
"Ha ragione, sa? A me non importa tanto. Vivere o morire. Tanto sono morta da viva. E allora le faccio questa domanda. Che senso ha? Che senso ha, tutto questo? Perché sono ancora qui, se a lei non interessano le persone che vogliono buttare via la vita?"
"Perché c'è sempre speranza. Per questo ti vieto di..."
"No, signore. Mi dispiace, ma non c'è speranza. Non per me, almeno. E lei sa che, qualunque sia la sua parola, io vedrò Jace in un modo o nell'altro. Addio, a mai più."
Mi volto, afferro la maniglia, e un secondo prima di chiudere la porta, lo faccio.
"Ah, e vaffanculo."

Anche in seguito a quell'episodio la ragazza, distrutta, si rintanò in camera a piangere. Poi si promise che non lo avrebbe più fatto. Ma non mantenne quella promessa fatta a se stessa.

Non molto lontano da lì, c'era un ragazzo che si struggeva per i suoi errori. Fissava il televisore spento, pensando al perché del suo comportamento.
Anche a lui venne in mente un momento preciso, e anche lui pensò che quel momento l'avesse distrutto:

"P-Posso entrare?" chiedo con i pensieri offuscati dal dolore incessante.
"Sì, ma ti avverto, ragazzo. La perdita della memoria a breve termine causa smarrimento. Cerca solo di fare attenzione, non la scovolgere troppo, è ancora instabile."
"Ok" sussurro prima di aprire quella porta bianca, come tutto il resto in quell'ospedale.
Odore di disinfettante è la prima cosa che percepisco. Poi i bip dell'elettrocardiogramma.
E poi la vedo, sul letto. Mi guarda confusa.
"Ciao" la saluto cauto.
"C-ci conosciamo? Scusa, ma non mi ricordo di averti mai visto" risponde incerta.
Guardo la ragazza che amo, stesa sul letto di questo maledetto ospedale.
I medici hanno detto che non ricorda nulla, e che mai lo fará.
"Sono Nathan, eravamo....amici." dico con voce tremante. Potrei esplodere. È solo colpa mia. Solo colpa mia.
"Oh, scusa. Ciao Nathan. Tu sai che ci faccio qui?" Mi chiede innocente. È sempre stata così, un piccolo angelo innocente.
"Hai avuto un incidente."
Mi dispiace amore.
"Capisco...."
"Chi sei, che ci faccio qui?" urla terrorizzata, dopo qualche secondo.
I medici entrano subito, e le danno un sedativo.
"N-niente, scusa, ho sbagliato camera."
Sono queste le parole che dico, davanti ai medici.
Esco correndo fuori dall'ospedale.
È solo colpa mia.

I Hate Your Smile But I Love ItWhere stories live. Discover now