CAPITOLO 19

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Come al solito la mattina arrivai tardi in classe. La professoressa non disse niente:ormai si era abituata.
Fortunatamente Nathan non c'era. Non sarei riuscita a reggere il suo sguardo fisso su di me per tutta l'ora.
"Okay ragazzi, ho corretto i temi che avete fatto settimana scorsa"
In classe si sentì un coro di sbuffi, bestemmie e urli di tragedia. Effettivamente anche io non ero entusiasta della notizia, ma mi trattenni.
La professoressa passò tra i banchi e consegnò i compiti. Ero in ansia. Me la cavavo a scrivere, insomma, scrivevo canzoni... ma avevo un vuoto allo stomaco nauseante.
"Andrea" la professoressa mi guardò in modo preoccupante.
"Okay prof ,ho capito, ho preso un quattro. Non fa niente, le giuro che recupererò al prossimo com..." non mi fece finire di parlare:
"No,affatto! Sono estremamente contenta del tuo tema. Insomma, è stupendo"
"Sta scherzando? Cioè volevo dire: grazie"
Finalmente mi consegnò il foglio:
"A+?!?"
"Sì,non ti va bene?"
"No, cioè sì, è fantastico"
Mi sorrise e tornò alla cattedra. Probabilmente metà della classe mi stava odiando in quel momento.. ma avevo preso A+ ragazzi, cose del genere capitavano una volta nella vita!
Il resto dell'ora spiegò la vita di Dante... quanto amavo quell'uomo.
Quando suonò la campanella uscii dalla classe, e, quando infondo al corridoio vidi Nathan, cercai di coprirmi con i pochi libri che avevo in mano;ma evidentemente non funzionò. Si incamminò verso di me:
"Perché mi stai evitando?"
"Io? Guarda che ti sbagli" dissi cercando di essere più naturale possibile.
"Si, proprio tu Andrea"
"Senti, non so cosa ti prenda, ma devo andare a lezione"
"No, o parliamo con le buone o con le cattive"
"E cosa vorresti fare scusa? Trascinarmi di peso da qualche parte?"
"Se dovesse essere necessario sì"
"Nathan, per favore, ho lezione."
"Okay, lo hai voluto tu".
Prima che me ne rendessi conto, non avevo più il pavimento sotto i piedi.
Mi concentrai e davanti ai miei occhi vidi del tessuto nero. La schiena di Nathan.
"Che cavolo stai facendo?!? Mettimi subito giù! Nathan, mi stanno cadendo gli occhiali!" urlai con una voce stridula.
Calcia l'aria più volte e mi immaginai la scena vista dall'esterno: un ragazzo possente che aveva in braccio, come un sacco di patate ,una ragazza con un paio di occhiali giganti rossa in faccia.
"Rimettimi subito giù, ho il sangue alla testa!!"
"Non mi importa, noi due dobbiamo parlare."
"Che galantuomo, potrei svenire sulla tua spalla e non te ne importerebbe niente?!?"
"Certo che mi importa" lo sentii sussurrare.
Probabilmente avevo capito male.
Nessun ragazzo si era mai preoccupato di me tranne Jace.
Poi mi invase il panico.
Voleva parlare dei tagli " del gatto", e io non ne avevo intenzione.
Mi scossi ancora più violentemente, ma rimase irremovibile.
Quando mi rimise giù mi accorsi, dopo un giramento di testa, che probabilmente aveva camminato per meno di quindici secondi, ma a me erano sembrati minuti interi.
Mi accorsi anche che eravamo nel giardino della scuola, sotto a un albero di foglie rosse, rosse come le mie guance in quel momento.
"MA IO DICO, SEI PAZZO?!"
"Ti avevo avvisata"
"Si, ma..." stavo per scoppiare dalla rabbia, quando
lui abbassò lo sguardo, avvicinò la sua mano alla mia e la attirò a sé. Poi spostò leggermente il mio maglione. Mi guardò negli occhi, i suoi mi provocarono un brivido intenso lungo la schiena. Abbassai subito lo sguardo.
"Sai già di cosa si tratta" sussurrai.
"Probabilmente sì."
Ad un tratto mi vennero in mente tutti i ricordi, le foto, e le canzoni di Jace. Senza che me ne accorgessi mi scese una lacrima.
Lui, senza chiedere, tirò il mio braccio dietro la sua schiena, e mi abbracciò. Mi strinse fortissimo. In quel momento, in quel preciso momento mi sentii come non mi ero mai sentita se non con Jace.Protetta come tra le sue braccia.

No.
Nessuno poteva sostituire Jace.
Mi staccai subito, e lui sembrò confuso:"perché l'hai fatto?"
"Io.....odio il contatto fisico".
Scappai via in lacrime, ricordando il viso del mio migliore amico.
I suoi capelli biondi, i suoi occhi azzurri.
Più ci pensavo più le lacrime scorrevano.
Uscii dal cortile della scuola:di sicuro non avrei continuato le lezioni.
Guardai l'ora, e in una frazione di secondo decisi cosa avrei fatto.
Corsi fino a casa mia, senza smettere di piangere.
Aprii convulsamente la porta con le chiavi, e saltai a due a due i gradini.
Entrai in camera mia e mi diressi verso quello per cui ero tornata a casa.
Una volta preso, uscii di casa senza neanche chiudere la porta,e ripresi la corsa.
Arrivai a destinazione cinque minuti dopo: Los Angeles Central Hospital.
Mi meravigliai di me stessa, non avevo mai corso così tanto in vita mia.
Ripresi fiato, ed entrai cercando di essere il più normale possibile.
Non dovevo essere lì, e se mi avessero scoperta, mi avrebbero mandata ancora dallo psicologo della struttura, e non avevo voglia di subirmi un'altra stupida e inutile seduta.

Sii disinvolta, nessuno di deve notare.

Per fortuna non fecero caso a me, anche perché era orario di visite ed era pieno di persone.
Andai a sinistra, poi dritto.
Presi le scale, e poi proseguii fino alla stanza numero 394.
Quella stanza.
La stanza di Jace.
Quando entrai non c'era nessuno se non lui, steso immobile sul letto.
Mi avvicinai lentamente al suo corpo.
Aveva i capelli biondi leggermente più lunghi, ma per me era rimasto lo stesso.
Cadde qualche lacrima sul mio regalo per lui.
La lettera.
Distolsi lo sguardo per non scoppiare in lacrime, e lo posai sulla foto che aveva appogiata sul comodino vicino al letto.
"Ti metto questa dietro alla nostra foto, ok? Proprio come quando alle medie nascondevamo i fogli con i brutti voti tra le cornici e le foto." gli sussurai ridendo e piangendo contemporaneamente.
"Mi manchi tanto. Se ti sveglierai saprai tutto dalla lettera.Questo non è un addio, quindi arrivederci Jace".
Sistemai la lettera e uscii.
Per fortuna riuscii ancora a passare inosservata.
Mi diressi a casa con i Beatles nelle orecchie, piangendo.
Fortunatamente non mi truccavo più tanto, altrimenti sarei stata imbarazzante.
Ma d'altronde, non mi era mai importato tanto dell'opinione altrui.
Una volta a casa chiamai la scuola e dissi alla solita signora gentile che ero stata male. Mi assicurò che ci avrebbe pensato lei e mi augurò di rimettermi presto.
Chissá perché le stavo così simpatica. Forse le ricordavo lei da giovane.
Sperai per lei che non avesse vissuto la sua adolescenza come lo stavo facendo io.

I Hate Your Smile But I Love ItWhere stories live. Discover now