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Agosto, 1982.

Non si lasciò sconfiggere dallo sconforto, nemmeno quando il bambino non era ancora girato, malgrado le contrazioni che minacciavano di squarciarla in due.
Vinse l'orgoglio di urlare all'infermiera il nome del padre del bambino, malgrado l'impicciona facesse di tutto per cavarle di bocca quel nome.
Un nome.
Cosa può essere un nome?
Solo un piccolo marchio che ti porti a vita, ma a cosa sarebbe servito dire che stava per partorire un Caruso, quando di lì a breve avrebbe rinunciato a lui?
L'ennesima contrazione spazzò via ogni suo pensiero coerente e alle 02:37 di notte, un bimbo senza nome urlò al mondo che era arrivato.

Ottobre, 1986.

"Coraggio Tara, sei forte."
Matteo la incitava a non mollare, non sapendo quanto forte fosse sua moglie, in realtà.
Tornare in una sala parto era come tornare nel buco nero dei ricordi.
Stavolta nessuna infermiera chiedeva nomi, tutti sapevano chi era il nuovo nascituro.
Tara buttò la testa all'indietro, aveva i capelli sudati e incollati alla fronte, sentiva puzza, vedeva tutto annebbiato.
Matteo le accarezzava una guancia mentre lei cercava di ritrovare un minimo di lucidità, provando a tornare da lui e lasciando che i brutti ricordi scorressero via dal suo corpo, come quella piccola vita che desiderava respirare.
"Un'ultima spinta!"
Gridò qualcuno tra le sue cosce e Tara ubbidì, vinta dal dolore.
Nessun pianto, nemmeno un mugolio.
Matteo era ammutolito, così come medici e paramedici.
Tara chiese di suo figlio ma nessuno rispondeva, poi tutti andarono da qualche parte, improvvisamente indaffarati.
-Non respira.-
Sentì sussurrare da un assistente a suo marito e il corpo parve abbandonarla.
Si affacciò oltre sé stessa per vedere cosa accadeva tra le sue gambe.

Qualcuno aveva infilato un tubo nella gola del suo piccolo bambino muto.
-Respira-. Pregò Tara.
Il silenzio in quella stanza era rotto solo dai macchinari della sala parto; nessuno osava fiatare.
Poi qualcuno pianse, urlò.
Era il piccolo Stefano Manetti che aveva deciso di combattere con la morte e che aveva vinto.

Aprile, 1998.

Stefano aveva un segreto.
Qualcosa di inconfessabile perfino alle sue stesse orecchie.
Un ragazzino solitario e schivo, dai modi quasi aggraziati, così lo descriveva chiunque venisse in contatto con lui.
A undici anni era il più alto della sua classe e viveva praticamente di studio.
Gli era sempre piaciuto vedere le cose al proprio posto, mettere insieme tutti i pezzi del puzzle per creare qualcosa di unico.
Sua madre Tara appoggiava quella sua scelta, mentre suo padre era più reticente, quasi contrario.
Diceva che era troppo piccolo per sapere già cosa voleva diventare, ma Stefano non era mai stato sicuro di qualcosa come di voler diventare architetto.
Non si aspettava che suo padre capisse, gran parte della sua vita l'aveva passata contestandolo.
In un certo senso Stefano sentiva di fare la cosa giusta proprio perché suo padre non concordava.
Le sue giornate passavano tra i libri e i litigi dei suoi genitori, talvolta spezzati da qualche temerario vicino di casa che, sentite le urla, accorreva per vedere cosa stesse accadendo.
In gran parte erano ficcanaso, nessuno di davvero interessato ad aiutare.
Il giovane biondo vedeva passare i giorni alla finestra, mentre il suo segreto diventava sempre più grande, sempre più incontenibile, minacciando di schiacciare la sua volontà.

🔸

Michele aveva freddo.
Mancava così poco per lasciare quel letamaio che era quasi felice, in quella giornata troppo fresca per essere primaverile.
Si strinse nella sua felpa e attraversò la strada che dal dormitorio arrivava al parco.
Era così bello vedere i colori dopo tanto grigio.
L'inverno aveva lasciato il posto al verde, di un tale splendore che il cuore di Michele cominciò a battere fortissimo.
Poche cose l'avevano reso felice nella vita.
I dolci della cuoca del dormitorio, gli abbracci della sua amica Stacey, e la primavera, che arrivava all'improvviso e ti sconvolgeva i sensi.
Altri due anni, poi sarebbe stato libero.
Libero di lasciare quel luogo e cercare la sua strada, il suo posto nel mondo.
E chissà chi o cosa sarebbe diventato, in un mondo che prende così tanto e restituisce le briciole.
Ma in fondo non poteva lamentarsi, a parte gli inizi la sua vita non era andata poi così male, aveva un tetto sua testa, benché diviso con altri duecento ragazzi, e un pasto caldo ogni giorno. Aveva l'amicizia di Stacey ed era abbastanza dotato fisicamente da poter affrontare il mondo, una volta uscito di lì.
Ricordava ancora la prima volta che aveva visto Stacey.
Era piccola e magra, non aveva più di sei anni.
Lui era uscito dalla famiglia affidataria numero due, l'ultima, visto che era diventato troppo grande perché qualcuno si prendesse la responsabilità di prenderlo con sé.
La piccola Stacey era dolce, ma con il tempo Michele aveva scoperto ogni sfumatura ed era abbastanza sicuro di conoscerla a fondo.
Erano diventati nemici, prima di diventare migliori amici.
Oramai adolescenti lei aveva avuto un paio di storie con altri ragazzi del dormitorio, ma era troppo esigente per restare a lungo con ognuno di loro.
Michele aveva asciugato tutte le sue lacrime, assicurandole di essere la ragazza più bella che avesse mai visto e che un giorno avrebbe trovato l'uomo della sua vita.
La piccola Stacey non credeva alle favole, ma sorrideva sempre a Michele, che pareva davvero convinto di quello che diceva.
Con il tempo quel legame aveva fatto sentire il ragazzo come in una vera famiglia, così non aveva più sentito troppa mancanza o troppa tristezza per la sua vita senza nome.
Una brezza fresca pizzicò le guance del giovane, che si strinse ulteriormente nella sua felpa e tornò al dormitorio.

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