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Jackie

Il lunedì mattina è traumatico per tutti, anche per me. Riprendere i ritmi lavorativi è tosta, ma stavolta ho pensato bene di iniziare la giornata in modo diverso. Avendo le sedute con tre pazienti differenti, ho deciso di dar loro un piccolo assaggio di libertà. Tramite i moduli che hanno compilato ho scoperto che tre dei miei detenuti hanno una passione per Starbucks, quindi sono andata al locale e ho ordinato dei caffè ghiacciati con tanto di latte. Non so se siano i loro gusti preferiti, ma a giudicare dalla reazione di Lucian si direbbe che ne va matto. «Mi dispiace, non posso toglierti le manette per questioni di sicurezza» scuoto il capo, mentre l'uomo dalla barba incolta e i lunghi capelli lisci beve il caffè a fatica.

«Non importa, questa roba è deliziosa» mugugna.

Sorrido, aprendo il taccuino con tutti i miei appunti. «Come vanno i tuoi incubi? Rivedi ancora il tuo patrigno?» domando, mentre lui si lecca il labbro inferiore e annuisce lievemente. Lucian è diventato un ladro alla tenera età di quattordici anni, ma non rubava caramelle o castagne ma parliamo di veri e propri attentati ai negozi o ai supermercati. Il suo patrigno, Robert Jay, era violento e Lucian per tenerlo buono gli lasciava tutti i soldi rubati dalle casse per comprarsi i vini dalle marche più pregiate. Alla fine, quell'uomo morì d'alcolismo e Lucian continuò a rubare come se nulla avesse importanza.

«Sì, ma hanno breve durata.»

«Meglio così allora, ti senti un po' meglio?»

«Mi sento più rilassato» sospira, stringendo il bicchiere tra le mani. Continuo a chiacchierare con Lucian, mi parla dei suoi Hobby e scopro che era un grande giocatore di tennis. «Eri bravo?» chiedo curiosa, congiungendo le mani. Fa spallucce, dicendo che se la cavava. Dopo alcuni minuti, la nostra seduta termina perciò richiamo Nito e gli chiedo di scortarlo verso la sua cella. Quest'ultimo annuisce, richiamando Lucian per poi salutarmi quando il detenuto esce dal mio ufficio. Verso l'una, poco prima di andare a pranzo con tutti gli altri colleghi, ricevo una chiamata da parte di mio fratello. Rispondo, sistemando il portatile dentro la tracolla. «Ehi, sono a lavoro» rispondo.

«Lo so, ma ho da darti una notizia importante.»

Il suo tono di voce non mi convince, infatti stringo il telefono tra l'orecchio e la spalla per poi chiudere la tracolla. «Che succede?» domando, timorosa.

«Hai presente l'amica di mamma, quella che vive a Springfield?» domanda e io annuisco, dicendogli di sì. «Passava con l'auto di fronte casa di Jesse, il tuo ex, e ha visto un'ambulanza e delle auto della polizia» sospira fiacco. «È morto, Jackie.» Schiudo le labbra, i battiti del mio cuore aumentano e anche la salivazione. Come sarebbe a dire che è morto? Aveva la mia stessa età, come è potuto succedere? I nostri momenti passati insieme mi tornano tutti in mente adesso, il nostro primo incontro, il nostro bacio dentro lo sgabuzzino e anche la nostra prima volta a casa sua, di nascosto da tutto e tutti. Scuoto il capo, stringendo la scrivania con le dita.

«Cosa... cosa è successo?» tentenno.

Ho bisogno di una boccata d'aria.

«Non lo sanno, credono sia stato un infarto» rivela. Mi passo una mano in viso, spostandomi i ricci dietro la schiena. «D'accordo, credo che mi libererò il prima possibile e verrò alla veglia più tardi, sai l'orario?» domando e mio fratello dice che presto lo chiederà a mia madre. Jesse è morto, non riesco a pensare a nient'altro adesso, la sua morte mi spezza in due per i nostri ricordi passati insieme. Scuoto il capo, salutando mio fratello al cellulare per poi dirigermi fuori dall'ufficio. A pranzo con gli altri sono praticamente assente e, anche se mi chiedono più volte cosa mi prenda, non riesco a dir loro la verità. Nel pomeriggio lavoro di nuovo con altri tre detenuti, tento di non distrarmi ma è difficile perché in mente mi torna sempre il viso di Jesse. La sera, a fine turno, prendo l'auto e mi dirigo verso Springfield. Non vedo i suoi genitori da molto tempo e, non credo sia questo il momento di farmi prendere dall'imbarazzo o dall'ansia. Apro il portone del palazzo malandato, salgo le scale con i tacchi a spillo e getto un'occhiata al mio vestiario. Gonna nera a camicetta abbinata infilata al suo interno, almeno non ho sbagliato i colori. Il portone del suo appartamento è aperto, trovo persone in giro per casa e alcuni neanche li conosco, per non dire tutti. Saluto con un breve sorriso di circostanza una donna sulla sessantina dai capelli legati in uno chignon e poi mi dirigo verso la stanza da letto alla mia sinistra, trovando al suo interno la bara. Chiudo gli occhi, sentendo un forte mal di stomaco. La madre di Jesse mi vede, fa una smorfia con il viso deturpato dalla sofferenza ma non dice niente.

Non le sono mai andata a genio.

Compio un passo avanti, poi un altro ma ignoro le occhiate degli altri familiari. Sporgo il capo oltre la bara, vedendo il viso bianco come il lenzuolo di Jesse. Gli occhi si inumidiscono, nonostante la sofferenza che mi ha causato. Non reagisco bene ai funerali, maledizione. Inspiro dal naso, guardando poi sua madre che intanto stringe al petto la Bibbia. «Ha avuto un infarto» mormora, credo si rivolga a me. Mi metto al suo fianco, restando in silenzio. «Mio figlio, a ventisette anni...» è incredula. «Ti sembra normale?» chiede, alzando il viso verso il mio, con gli occhi lucidi. Scuoto il capo, mentre il marito le stringe le spalle e tenta di confortarla. «Non posso stare qui a guardare, non ci riesco» nega la signora Blane, dirigendosi fuori dalla camera da letto con voce spezzata. Entrambi i genitori escono e io posso solo immaginare il dolore per la perdita: sento come un buco nello stomaco io, figuriamoci loro. Prendo un respiro profondo, ma resto a guardare il corpo per qualche minuto fin quando non sento una voce a me familiare. «Non dovresti essere qui» mormora Linda, mettendosi di lato a me. I suoi capelli castani, lisci, le cadono lungo le spalle. Indossa un abito nero dalle spalline calate e i miei occhi cadono sull'anello che ha al dito.

Si sarebbero presto sposati.

«Mio fratello mi ha detto cos'è successo, non potevo mancare» nego con il capo, mentre a lei scappa un sorriso amareggiato. «Certo, non sai proprio stare al tuo posto.» Linda non mi perdonerà mai per averle portato via il suo ragazzo, mi odierà a vita per questo.

«Non credo sia il momento adatto per parlarne.»

Mi guarda in tralice con quelle sue iridi scure e lucide. So che a seguito della mia rottura con Jesse i due non si sono più parlati, ma tramite voci di corridoio ho saputo che da qualche anno ci stavano riprovando e che avevano in mente grandi progetti insieme. In questo momento, la mia ex migliore amica mi guarda come se fossi io l'assassina del suo uomo. «Ascoltami bene» stringe i denti, tenendo bassa la voce per non farsi sentire dagli altri. «Non ti voglio qui: quando ti guardo non fai altro che ricordarmi di quanto io sia stata stupida a fidarmi di te» sputa fuori. «Sapevi quanto fossi innamorata di Jesse, ma tu Jackie non ti accontenti mai: cerchi sempre qualcosa che non puoi avere.» La sua ultima frase mi colpisce più del dovuto, facendomi ricordare Beltran. Linda purtroppo ha ragione, c'è qualcosa di marcio in me. Beltran sa che amo il rischio, è per questo che mi provoca di proposito perché sa che prima o poi commetterò un passo falso. «Ho le mie colpe, non lo nego, tuttavia non è questo il momento esatto per parlare dei nostri problemi passati Linda» preciso. Assottiglia gli occhi, scuotendo il capo con risentimento. Poiché la gente ci inizia a guardare, decido di compiere un passo indietro e poi un altro finché non esco dalla camera. L'aria tetra del lutto inizia a farsi sentire, perciò decido di dare le condoglianze al padre di Jesse e a sua madre. «Mi dispiace molto per la vostra perdita» soffio, stringendo la mano a suo padre che in cambio mi sorride con stanchezza. Sua madre mi stringe la presa subito dopo, ma con zero calore. Annuisco a mo' di saluto, per poi togliere il disturbo e andarmene via, poiché è evidente che io non sia desiderata.

Il Male In TeWhere stories live. Discover now