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Jackie

Busso al portone antico dalle vetrate trasparenti, guardandomi intorno per il giardino curato della signora. Ho raggiunto l'indirizzo datomi da Boone in venticinque minuti, calcolando anche il traffico. Mi sorprende persino che l'insegnante non abbia cambiato residenza dopo dell'accaduto, al posto suo l'avrei fatto probabilmente. Una voce attutita, proviene dall'altro lato del portone.

«Chi è?» domanda.

«Salve mi chiamo Jackie Hole, sono la psicologa del penitenziario di Jacksonville e mi piacerebbe scambiare quattro chiacchiere con lei.» Mi mordo il labbro inferiore, sentendo silenzio dall'altro lato. «Se vuole parlare di quell'uomo, allora può tornarsene da dove è venuta.» «Signora, so che non è facile scordarsi l'accaduto di sette anni fa ma ho davvero bisogno di sentire la sua versione della campana» spiego, aggrappandomi al muro con le mani. La prego a bassa voce, e dopo qualche attimo di esitazione mi apre il portone. Due occhi nocciola mi squadrano da capo a piedi, la donna davanti a me è sulla quarantina credo e ha il viso stanco e rassegnato nonostante sia ancora una bella donna. «Entri» mi fa cenno, spostandosi i boccoli cioccolato dietro la schiena. La seguo nel corridoio, superiamo le scale e presto entriamo in un open space con soggiorno a sinistra e cucina collegata di lato. Mi fa cenno di accomodarmi sulla poltrona e io la ringrazio. «Vuole qualcosa da bere?»

«Un bicchiere d'acqua» le sorrido educatamente.

Mi guarda per un breve istante ma poi mi volta le spalle e fa il giro della penisola. «Ho smesso di rilasciare interviste anni fa, perciò non capisco come mai debba ritornare su questo argomento dopo sette anni» esordisce, usando un tono freddo e distaccato. Sono davvero egoista, costringo questa donna a riaffrontare il trauma per un mio interesse personale. «Ha pienamente ragione, ma io ho bisogno di capire chi ho davanti. Vede, Buscema si trova al penitenziario di Jacksonville e io sono la sua psichiatra.» Si volta a guardarmi sgranando gli occhi. «Cos'ha bisogno di capire esattamente? Quell'uomo è un assassino, non c'è altro da sapere signorina Hole.»

«Ha ragione, ma è stato un agente a consigliarmi di venirle a parlare» tento di deviare il discorso. Sospira, spegnendo il gas quando inizia a bollire l'acqua. Mette le bustine dentro le tazze e poi viene verso di me. «Insegnavo sociologia al Baruch college, Beltran era un ragazzo molto attraente e tutte le studentesse ne erano affascinate. Mi vergogno ad ammetterlo, ma neanche io gli ero così indifferente» scuote il capo, mentre io posso capirla in qualche modo. «Era sempre puntuale, elegante e sapeva come farti sentire importante» confessa.

«Poi cos'è successo?» chiedo, tenendo la tazza stretta.

Sospira, appoggiando i gomiti sullo schienale del divano. «Un pomeriggio, dopo aver avuto dei colloqui pomeridiani. Lo trovai appoggiato alla mia auto, ne ero molto attratta ma decisi di zittire i miei ormoni per salvaguardare il mio posto di lavoro. Declinai ogni offerta che mi fece, ma quando tornai a casa e uscì dal bagno» inspira, «lo trovai sui primi gradini delle scale interne.»

Poggio la tazza sul tavolino, passandomi le mani sulle ginocchia. Non ho parole, non riesco a formulare una frase di senso compiuto. «Era stato così maledettamente silenzioso, non mi ero accorta di niente e appena lo trovai sui primi gradini con quel coltello da cucina enorme e quello sguardo gelidamente divertito per poco non svenni a terra» la signora Crawford perde la voce, ricordandosi dell'attimo dopo in cui iniziò a tremare e scappare via da Beltran. «Non sembrava più il ragazzo cordiale che avevo conosciuto al college, sembrava completamente diverso: un'altra persona» singhiozza, mordendosi il labbro.

«Beltran soffre di un disturbo dissociativo della personalità, lo sapeva?» domando, con voce tremolante.

«No, ma questo non cambia il fatto che sia un mostro.» Ha ragione: e io devo stargli alla larga, in modo permanente stavolta. «Per fortuna sono intervenuti gli agenti, altrimenti mi avrebbe uccisa senza pensarci due volte» sospira, mentre io abbasso lo sguardo sconvolta. Non ho bisogno di sentire altro, Beltran è questo e non cambierà mai. Boone, Nolan e persino il direttore mi hanno sempre messa in guardia da lui e io non ho voluto ascoltarli. Adesso, davanti a questa donna, non posso ignorare la paura che sento verso quell'uomo perché è palpabile. Mi tremano le mani, ho il labbro secco e la pelle d'oca sulle braccia. Avevo soltanto bisogno della spinta necessaria per stargli lontano e, grazie a questa donna, l'ho appena trovata. La ringrazio per il suo tempo, alzandomi dalla poltrona. Mi accompagna al portone, ma proprio mentre sto per scendere i gradini mi richiama. «Cerchi di stargli il più lontano possibile» mi consiglia, afflitta.

«Lo farò» le sorrido, salutandola con la mano prima di voltarmi e scendere i gradini. Pur di non restare da sola, faccio un salto dai miei genitori. Riesco ad azzerare i miei pensieri solo in loro compagnia, quindi guido per le strade di Jacksonville e poi mi fermo davanti al vialetto. Mi apre mia madre, a quest'ora sono quasi tutti fuori tranne lei. Tra poco dovrebbe uscire da scuola Judith e sarei tentata di andare a prenderla io. «Come mai da queste parti?» chiede.

«Ho preso un permesso per uscire prima da lavoro.»

«Non ti senti bene?» domanda, studiandomi come un'infermiera.

«Non proprio» sospiro, togliendomi i tacchi.

Se mia madre sapesse che sono attratta da un sociopatico assassino mi rinchiuderebbe in un manicomio, poco ma sicuro. Inizia a preparare il pranzo in cucina, mentre io mi siedo a tavola ed estraggo il telefono dalla tasca per guardare le notizie su internet. Le chiedo a che ora esce Judith da scuola e lei mi risponde per le tre, quindi per quell'ora andrà a prenderla sicuramente Glenn. Mia madre mi sembra tranquilla, perciò mia sorella non ha fatto la spiona come al suo solito. «Jackie, se stesse succedendo qualcosa a lavoro me lo diresti vero?» domanda, di punto in bianco. Allontano il polso da sotto il mento, guardandola. «Perché questa domanda?» chiedo. Mia madre smette di ondeggiare il mestolo dentro la pentola, voltandosi a guardarmi. «Mi sembri distratta ultimamente, con la mente altrove» scuote il capo. «Fai un lavoro pericoloso, sei a stretto contatto con dei detenuti e questo già ci preoccupa a dovere. Non vorrei avere un motivo in più per dilaniarmi» confessa, ormai stanca.

A mia madre non posso nascondere niente.

«Sto bene, non preoccuparti» mento, alzandomi dalla sedia per darle una mano in cucina. «Sto solo cercando di mantenere i ritmi, tutto qua» la rassereno, accarezzandole la schiena. Mia madre sembra credermi, ciò fa di me una brava bugiarda e manipolatrice perché in realtà non sto affatto bene. Non potrei mai dirle la verità, le darei solo un grande dispiacere. Tutto ciò che posso fare adesso, è evitare il più possibile quell'uomo. Da domani in poi le cose cambieranno, non andrò più a visitarlo e non chiederò le chiavi della cella a Rachel. Ho bisogno di questo lavoro, di condurre una vita normale e di non commettere l'ennesimo sbaglio. Mi costringo a eliminare il volto di Beltran dalla mente, a scordarmi il piacere che mi ha donato giorni fa nella cella ingoiando un groppo pesante. Il suono del campanello mi ridesta di pensieri, ma è mia madre ad andare ad aprire. Dopo poco, mio padre e mio fratello entrano in cucina, lasciandomi entrambi un bacio sul capo. «Sei scappata da lavoro?» domanda Glenn.

«Una specie» arriccio le labbra.

«Hm, vuoi venire con me a prendere Judith?» chiede.

«Sì, quanto chiudo il gas.»

Mio padre si becca uno schiaffetto sul braccio da parte di mia madre, visto che inizia ad assaggiare il bollito senza il suo permesso. Sorrido divertita, uscendo dalla cucina per mettermi i tacchi a spillo e partire insieme a Glenn. È da un po' che non passo del tempo con la piccola Judith, tramite mia madre e Glenn so che chiede spesso di me e credo sia arrivato il momento di starle più vicino.

Probabilmente farà bene a entrambe.



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