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Jackie

Sento di star perdendo il controllo.

Ogni minuto che passo con Beltran mi porta ad allontanarmi dai miei principi, dalla mia famiglia e da ciò in cui ho sempre creduto. I miei genitori non sanno cosa sto combinando al penitenziario, non hanno la minima idea di cosa ho fatto ieri mattina con quell'uomo. Arrossisco, smettendo di scrivere sul portatile mentre l'orologio attaccato alla parete segna le cinque del pomeriggio. Ho terminato le sedute stamattina e, sto ancora cercando di far ragionare il direttore. Vorrei che quell'uomo mi desse ascolto almeno una volta: organizzare un'attività musicale qui, al penitenziario, può aiutare i detenuti a sfogarsi e a dare vita alla loro creatività – ma ovviamente quell'uomo rifiuta tutte le mie proposte. Qualcuno bussa alla porta del mio ufficio, presto invito chiunque sia dall'altro lato a entrare e vedo Nolan. Ha uno sguardo mistico, difficilmente riesco a decifrarlo.

«Ciao» parla per primo.

Gli getto un'occhiatina, ritornando al portatile. «Ciao.»

Nolan alza gli occhi al cielo, sospirando fiacco: «So che sei ancora arrabbiata con me per la storia delle chiavi ma, credimi, lo faccio per il tuo bene. Non sai di cosa è capace Beltran.»

Oh, lo so eccome.

Ignoro la vocina maliziosa e mi schiarisco il tono. «Apprezzo la tua premura, ma non ho bisogno del tuo aiuto.»

«Sto cercando di risolvere le cose, ma non mi sembri predisposta a chiarire» scuote il capo, studioso.

«Perché non lo sono.»

La confessione lo lascia intorpidito, confuso. «Non mi perdonerai finché non ti darò le chiavi vero?» suppone. «Qui non si tratta di perdonare o no, si tratta del mio lavoro e delle mie scelte. Se voglio andare a trovare Beltran lo faccio senza chiederti il permesso Nolan, non ho ascoltato il direttore perché mai dovrei ascoltare te?» esordisco.

«Perché siamo amici.»

È vero, c'è sintonia tra di noi e sento di potermi fidare ma a volte tende a essere troppo protettivo e io ho bisogno dei miei spazi. Ci scambiamo un lungo sguardo carico di parole non dette. Nelle sue iridi chiare leggo dispiacere ma anche un pizzico di fastidio, mi domando cosa lui intraveda nelle mie. «Quindi non ci parleremo più?» domanda, lasciandomi uno strano peso addosso.

«Non ho detto questo» sospiro, richiudendo il portatile.

«Perché non riesci ad andare oltre a questa storia?» corruga la fronte. Gli ripeto che è il mio lavoro ma lui non mi crede. «Non sono nato ieri, non è solo per il lavoro perché non sei così ostinata con Hernandez o Costa» rivela. Purtroppo dice il vero, non ho tutto questo interesse per gli altri detenuti e non so neanche come rispondergli. Mi sposto una ciocca dietro l'orecchio, prendendo tempo.

«Non so darti una risposta Nolan.»

Annuisce brevemente, per poi compiere un passo indietro. Poggia la mano sulla maniglia, guardandomi infastidito. «Allora riflettici, nel frattempo le chiavi le tengo io» conclude, richiudendo poi la porta dietro di sé.

Resto sola in ufficio, sentendomi irritata per la conversazione appena avuta con l'agente. Più apre bocca e più peggiora la situazione quell'uomo, impressionante. Mi mordo il labbro inferiore, borbottando delle imprecazioni. Più tardi, nel pomeriggio, mi alzo dalla poltrona ed esco dal mio ufficio per fare due passi fuori. Cammino nel circondato del penitenziario, tenendo le braccia incrociate al petto con aria rilassata. Il vento mi sospinge delle ciocche dietro il collo, inspiro l'aria pulita trovando pace solo in questo momento.

«Jackie» vengo richiamata da qualcuno.

Mi volto, trovando Megan sui primi gradini dell'ingresso. «Va tutto bene?» domanda, torcendosi le dita. Annuisco, dicendole che volevo solo prendere un po' d'aria. «Troppi pensieri?» suppone.

Il Male In TeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora