3.38 • DISPENSATORI ARBITRARI DI SOFFERENZA E MORTE

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Di tutto ciò che era accaduto conservavo solo un ricordo quanto mai confuso. Gli unici ricordi che, vividi e brucianti, si rincorrevano disordinatamente nella mia mente, erano tutti legati a Rei. E ognuno di loro trovava il proprio unico, inesorabile epilogo in quell'immagine di lui, senza vita, steso su quell'altare. Tutta una vita passata insieme, prima della mia amnesia, e tutti i momenti fugaci ma intensi vissuti in seguito, erano stati spazzati via dalla sua morte. Non era quella l'immagine di lui che avrei voluto conservare ma, in quel momento, mi sembrava impossibile recuperare di differenti.

«Melania» mi chiamò la professoressa, strappandomi da quel vortice di riflessione senza capo né coda.

Lei e Ovidiu avevano fatto un passo indietro e mi fissavano accigliati. La Viverna che avevo davanti mi stava snasando come se avesse avuto intenzione di divorarmi.

La professoressa Di Pietro si era fidata di me. Avevamo messo in salvo la Sibilla e le Vestali e mi aveva accompagnata dal traghettatore e lui ci aveva condotte a Sarmizegetusa. La Di Pietro, nel frattempo, non mi aveva praticamente posto alcuna domanda.

La colonia era proprio come la ricordavo: ordinata, placida, imbiancata e ovattata da una spessa coltre di neve. L'intera città, costruita in stile imperiale proprio come Villa Adriana, sorgeva all'interno di alte mura che delineavano una forma perfettamente quadrata nell'ampio altopiano circondato da montagne bianche. Fuori le mura, però, c'erano altre strutture sparse che avevo avuto modo di vedere durante la mia fugace visita precedente. Tra queste, bianca di marmo e di neve, c'era un grosso anfiteatro. Ed era proprio lì che io e la Di Pietro ci eravamo fatte accompagnare da Ovidiu, il suo amico Augustale.

«È docile» li rassicurai, sbriciolandole il collare con un un unico colpo di spada. La spada di Rei. Spada per me troppo pensante, che non sapevo assolutamente brandire e che, quindi, maneggiavo assai malamente. «Non vi farà del male».

«Credo che questa fosse l'ultima» sospirò il vecchio, e buttò un'occhiata al cielo nero. «Vuoi spiegarmi cosa sta succedendo, Lara?»

«Sì» ammise la professoressa, lanciando un ultimo sguardo preoccupato alla Viverna che, con gli occhi socchiusi, si stava godendo i miei grattini. «Vorrei avere più tempo per spiegarti, ma...»

«Niente ma, mi spiace» borbottò l'Augustale. «Il cielo si oscura in pieno giorno e, poco dopo, ti presenti qui con un Vendicatore e mi chiedi di Creature di cui non dovresti essere neanche a conoscenza».

La professoressa fece un paio di volte per girarsi a guardarmi perché, evidentemente, desiderava il mio aiuto nel formulare quella risposta ma non voleva correre il rischio di incrociare di nuovo lo sguardo delle Viverne. Nè di quella che strusciava il gigantesco testone squamato contro le mie mani, né di tutte quelle dietro di lei. Centotredici Viverne vive e in forze. Centotredici i collari che avevo rimosso in un solo pomeriggio.

«Quindi? Cosa è successo?» la incalzò Ovidiu. «Il Fuoco Sacro si è spento?»

«Sono stata io a spegnere il Fuoco» intervenni, perché non mi piaceva quell'interrogatorio.

«Cosa? E perché? Ti rendi conto di...»

«Avevo bisogno di liberare le Creature. Quelle di Tibur sono state tutte reclutate dai Reazionari, l'ultima volta che il Fuoco si è spento. Ma io sapevo che qui ce ne erano delle altre».

«Come faceva a saperlo lo ignoro anch'io» disse la professoressa, poiché Ovidiu si era voltato a guardarla.

«Il nome Nastase le dice qualcosa?» chiesi all'Augustale, separandomi malvolentieri dalla Viverna.

«No, non mi sembra» rispose lui. «Chi sarebbe?»

«Sarebbe, o meglio, era, un pretoriano al servizio di un Augustale. Perse la vita in un incidente con la carrozza proprio qui, nei pressi di Sarmizegetusa».

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