1.10 • IL PROCESSO

474 41 138
                                    

«Guarda, Ania! Nevica!»

Yumi aveva aperto le tende della finestra vicino al suo letto ed era saltata sul mio per svegliarmi.

«Strano, a Tivoli non nevica mai» dissi, girandole le spalle. «Ora posso tornare a dormire?»

«Corna di Bacco, non siamo a Tivoli, ma a Tibur, ti ricordo. E comunque no, non puoi tornare a dormire. Oggi c'è il processo».

«Hai ragione!» dissi, schizzando in piedi. «Ho perso il conto dei giorni. Gilbert mi sta massacrando».

«Immagino» disse lei, comprensiva. «E non ti invidio per niente».

«Sì beh, lui è un po'... inquietante. Ma mi sta aiutando e...»

«Sì, sì, ti credo» disse, porgendomi la toga bianca da giurato. «Ora sbrigati».

Doveva aver nevicato tutta la notte.

Uscimmo nell'atrio e ci guardammo attorno, accecate dal riverbero del cielo bianco sulla neve. Yumi mi aveva raccontato di aver assistito a qualche processo, nella sua vita. Mi aveva spiegato più o meno cosa avrei dovuto aspettarmi, per farmi arrivare preparata.
Quello che si era ben guardata dal dirmi era che il processo si sarebbe svolto, manco a dirlo, nei sotterranei della domus di Manlio Vopisco. Non nella sala riunioni. In un sotterraneo ancora più sotterraneo.

«Ma i processi non dovrebbero essere pubblici?» avevo chiesto.

«Sì, certo, lo sono» mi aveva risposto Yumi. «Ma non quelli contro le Creature di Mezzo. Quelli sono troppo pericolosi».

E così ci incontrammo con gli altri giurati nella sala dove eravamo soliti riunirci e poi scendemmo insieme per altre quattro o cinque rampe di scale. Yumi mi trascinava per un braccio.

«Sei nervosa per il processo?» mi chiese Gilbert.

Per carità, non avrebbe potuto fregarmene di meno del processo, in quel momento.

«Soffro di claustrofobia» boccheggiai.

«Devi calmarti» mi disse, secco. «Hai problemi più importanti di cui preoccuparti».

«Grazie. Nessuno consola come lei».

Entrammo in questa gigantesca stanza rotonda, in pendenza, con i banchi dei magistrati e della giuria e il banchetto dei testimoni in basso e gli spalti per il pubblico in alto disposti a semicerchio quasi chiuso. Questi erano quasi completamente vuoti.

Prendemmo posto su due file sulla nostra piattaforma.

Nel centro della sala c'era una gabbia quadrata, le cui spesse sbarre di ferro arrivavano fino al soffitto. Mi venne un brivido. La gabbia dell'imputato era l'unica postazione ben illuminata, il resto della sala era in penombra, umido e gelido; mi sentivo i palmi delle mani sudati e ghiacciati.

«Perché la signora Petrocchi siede con noi?» domandai a Gilbert, alla mia destra, quando la vidi prendere posto. «Non è un magistrato?»

Non che me ne importasse niente, ma avevo bisogno di concentrarmi su qualcosa che mi facesse dimenticare, almeno per qualche secondo, di trovarmi sottoterra, in trappola.

Ero seduta quasi al centro della panca e mi sentivo come se non avessi via d'uscita. Se mi fossi sentita male e avessi avuto necessità di correre via, avrei dovuto fare alzare in piedi un quarto di giuria, attirando tutte le attenzioni su di me. No, probabilmente avrei preferito farmi venire un infarto sul posto, piuttosto. Il pensiero mi fece contrarre la gola.

«Questa è una provocatio ad populum» rispose Gilbert, quando ormai mi ero scordata cosa gli avessi chiesto, «non ha nessun potere, qui».

Il banco dei magistrati, effettivamente, era vuoto. Era anche vicino all'uscita. Sarebbe stato bellissimo poter occupare quella postazione lì.

SPQTDove le storie prendono vita. Scoprilo ora