3.13 • QUELLA VOLTA A TOKYO

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Alla luce di quanto avevo appena scoperto, la prospettiva di passare la serata a guardare la corsa delle bighe mi entusiasmava meno che mai. Avrei avuto piuttosto bisogno di confrontarmi con Yumi e con Rei riguardo ciò che Yumi ci aveva mostrato nel suo ricordo. Perché, anche se non lo avevo mai confessato a nessuno oltre che a Devon, anche io avevo avuto un bruttissimo presagio riguardo Immanuel Vanhanen, durante l'attacco dei lemuri. Non avevo avuto una visione precisa, solo brutte sensazioni e dolore. E quei capelli bianchi.

Devon e Rei, finalmente, sembravano andare d'accordo. Tuttavia, non riuscivo a godere appieno di quella entusiasmante novità a causa della costante presenza, ormai infestante, dell'odiosa Nozomi, emozionantissima al suo primo ingresso all'ippodromo proprio come lo ero stata io la prima volta. Anche Yumi, quella sera, non sembrava precisamente un raggio di sole. La corsa non era ancora iniziata e lei, seduta ingobbita tra Devon e Nozomi, si era già scolata due o tre birre.

«Guarda come è carina, tutta contenta» mi disse Devon, scavalcando con la testa Rei, che era seduto tra di noi, «mica come te. La prima volta all'ippodromo sei arrivata scazzatissima e te ne sei andata ancora peggio».

Cosa?

«Non ero scazzatissima» risposi, offesa, ma Devon si era già voltato per tornare a chiacchierare con Nozomi.

«Che le corse non ti appassionino non è un segreto» sorrise Rei.

«No, è vero» ammisi. «Infatti ero venuta solo per vedere te».

La mia frase su inghiottita dal consueto sparo, i cancelletti di partenza vennero aperti e nel cielo nero comparvero le sette aquile di fumo disposte a formare un triangolo. La gara, e soprattutto la stagione, erano appena cominciate.

«Ehi, scusa» sentimmo poco dopo, alle nostre spalle. «Sei Nakamura, vero?»

A parlare era stato un signore sulla cinquantina: pelato, con la barba lunga e la pancia talmente grossa che gli ricadeva sopra la cintura, tipo grembiule.

«Sì» rispose Rei, cordiale, «sono io».

«Te l'avevo detto!» disse quello, rivolgendosi a sua moglie.

«Lo scusi» disse lei, affranta. «Mio marito era un suo ammiratore sfegatato. Scommetteva sempre su di lei».

«Grazie» disse Rei.

«Il tuo ritiro è stato una tragedia per me» disse l'uomo, carezzandosi la pancia, neanche fosse stato un ventre gravido. «Ora punto su Watanabe, in genere. Considerando che si sono ritirati anche Vanhanen e Meyer. Che terzetto che eravate!»

Rei, Hans e Nerissa. Un bel terzetto da voltastomaco.

«Mettiti seduto» disse la donna al marito. «Non vedi che li stai disturbando?»

«Si figuri» rispose Rei.

L'uomo tornò a sedersi borbottando e io mi strinsi al braccio di Rei. Il signore non era l'unico che, anziché guardare la gara, teneva lo sguardo fisso su di lui. Le persone lo amavano. Quelli tra loro che seguivano le corse con più zelo, avrebbero pagato di loro tasca per convincerlo a tornare a gareggiare.

Rei, obbligato per le pubbliche uscite nella sua divisa da Eques, sedeva con i gomiti sulle ginocchia, senza distogliere mai lo sguardo dalla biga di Takeshi.

Avevamo un'ultima notte da passare insieme e poi se ne sarebbe tornato di là. Forse lo avrei rivisto dopo qualche settimana, o dopo qualche mese.

Forse mai più.

Scacciai quel pensiero intrusivo con la stessa velocità con cui si era insinuato nella mia mente.

Però.

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