3.7 • SBAVATO E SBIADITO DAL TEMPO

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Daniel era la presenza più confortante che avessi mai potuto desiderare.

E non solo perché era mio fratello, perché era un ragazzino buonissimo e perché rappresentava tutto ciò che rimaneva della mia famiglia disastrata. No, lui era anche un Vendicatore.

Nonostante ciò, preferii non rivelargli quanto avevo faticosamente ricordato. Lui era un genio appena risvegliato, esattamente come ero io quando Gilbert mi aveva cancellato la memoria. La sua mente, nella quale riuscivo io stessa a penetrare senza che mi opponesse alcuna resistenza, evidentemente, non era un posto sicuro. Però, averlo accanto mi era comunque di aiuto. Perché lui non solo mi voleva bene. Lui mi capiva.

C'era ancora un grande mistero a cui non avevo saputo trovare una risposta, però: la connessione che mio fratello aveva con Rei era per me del tutto inspiegabile.

Avevo dormito con lui, qualche volta, sperando di vederlo, ma non era servito a niente. Riuscivo, senza alcun problema, a leggere ogni suo sogno e anche buona parte dei suoi pensieri da sveglio, ma di Rei non c'era più neanche l'ombra.

La cosa realmente sorprendente, però, era che, da quando si era risvegliato, riuscivo a comunicare con lui senza bisogno dei segni. Mi era sufficiente lanciargli un'occhiata e, senza il minimo sforzo, riuscivo a percepire ogni suo stato d'animo, e non solo. Sentivo se aveva fame, se aveva sete, se era stanco o se doveva andare in bagno. Sentivo tutto.

Era questo il motivo che mi aveva convinto a non rivelargli di Alastor. Quella era un'informazione di cui nessun altro avrebbe mai dovuto entrare in possesso, almeno finché non fossi riuscita a vederci più chiaro in merito.

Di tanto in tanto, una volta ogni due o tre giorni circa, tornava anche mia madre, che io evitavo come la peste. Qualche volta, mentre eravamo seduti a tavola a mangiare, mi sentivo osservata. Mia madre mi scrutava con attenzione, risparmiandomi, fortunatamente, quell'espressione contrita che Yumi si era stampata in faccia dal 29 febbraio precedente, ma comunque con una punta di apprensione che riuscivo a percepire distintamente, mio malgrado e non senza che la cosa mi provocasse un certo imbarazzo. Un paio di volte aveva addirittura tentato un approccio diretto con me, che io avevo categoricamente rifiutato.

Quando, ormai sette anni prima, Gilbert era andato da lei a chiederle il permesso di cancellare alcuni miei ricordi per motivi di sicurezza, mia madre aveva dato di matto. Lo ricordavo benissimo.

Era ridotta uno straccio. Aveva appena appreso della sconfitta di suo fratello e Gilbert mi aveva ricondotto a casa sua traumatizzata e ricoperta di sangue.

«Non è necessario cancellarle tutti i ricordi» le aveva detto lui. «Sarà sufficiente rimuoverne uno solo».

Mia madre, che sembrava esanime, lo aveva pregato di raccontarlo anche a lei, lo aveva insultato, lo aveva persino picchiato. Ma lui non si era scomposto. Anzi, l'aveva sostenuta per le braccia quando lei aveva dato segno di cedimento.

«Cancella la memoria anche a me» aveva singhiozzato. «È un dolore che non riesco più a sopportare».

«Non posso farlo» le aveva risposto lui, impassibile. «Non posso maledire un genio maggiorenne. E i tuoi figli hanno bisogno di te».

Io ero stata parcheggiata davanti al camino e lasciata lì a scongelarmi e ad assistere a quella conversazione che mi stava terrorizzando.

«Allora cancellale tutto» lo implorò mia madre. «Tutto. Che non ricordi niente di Tibur né di tutto questo».

«Per quanto? Quando avrà diciotto anni ricorderà tutto comunque».

«Quando avrà diciotto anni sarò in grado di darle delle spiegazioni. Ti prego, Constantin. Ti prego. Non ti darò il permesso di toccare la sua memoria, altrimenti».

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