3.18 • LA VIGILIA DI NATALE

Magsimula sa umpisa
                                    

Non avrei mai pensato di potermi divertire così tanto in un contesto del genere. Mi facevano male i piedi e la mia acconciatura ricercatissima aveva parzialmente ceduto; ma mi si era anche indolenzita la mandibola a forza di ridere. Avevo ballato con Iulian, poi avevamo bevuto, ci eravamo scambiati i cavalieri, poi avevamo bevuto di nuovo e ballato tutti insieme e infine ero tornata da Iulian e, noi due da soli, eravamo andati a riposarci sotto il portico con il pungitopo e le lucine; io seduta sulla panchina di travertino, avevo scalciato via i tacchi e Iulian era andato a prendere da bere per entrambi.

«Ho i piedi che invocano vendetta» risi, perché iniziavo a sentirmi appena appena ubriaca.

E non ero certa la sola ad essersi messa comoda, per così dire. Sulla stessa pista da ballo che, fino a qualche ora prima, rifulgeva di vestiti ricoperti di paillettes e di studenti tirati a lucido, avevano cominciato a riversarsi ragazzi senza mantello e con le camicie sbottonate e ragazze scalze e accaldate con il trucco colato e le acconciature finite in quel paese.

«Assecondali» sorrise Iulian, sedendosi accanto a me con due bicchieri in mano.

«Fortuna che ho i brachialia» dissi, bevendo un sorso. «Altrimenti queste scarpe sarebbero andate incontro alla fine orribile che meritano».

«Non è una fortuna» mi contraddisse. «I brachialia sono un abominio che dovrebbe essere cancellato dalla faccia della terra».

Mi voltai a guardarlo, sorpresa.

«Scusa, ho un irrisolto personale con quegli affari».

«Puoi dirmelo, se vuoi» lo incoraggiai. «Ha a che fare con quella cosa strana che mi hai detto l'altro giorno?»

«Sì» rispose, poggiando la schiena contro il muro. «Ma non vorrei annoiarti».

«Ma non mi annoi» mi affrettai a rispondere. «Anzi, mi interessa molto. Ci conosciamo da tanto tempo ma non so quasi nulla su di te».

Iulian vuotò il bicchiere, si frugò nelle tasche e si accese una sigaretta.

«Non ti dà fastidio se fumo, vero?» chiese.

«Certo che no» risposi, prima di dare al mio cervello il tempo di indugiare su quella domanda e su ciò che essa correva il rischio di scatenare in me.

«Avevo sei anni. Mio fratello maggiore, Mihai, ne aveva undici. Mio fratello minore, Catalin, poco più di due. Quel giorno, però, io ero solo con i miei genitori, in Romania. In Dacia» cominciò, espirò il fumo e gettò un'occhiata sui miei brachialia, per poi distogliere lo sguardo subito dopo. «Mio padre faceva parte della guardia pretoriana e lavorava al servizio di un Augustale di Sarmizegetusa».

«Doveva essere una persona importante» dissi, ricordandomi lo sfarzo di quella colonia.

«Sì, gli Augustali lo sono tutti. Per loro era normale usufruire della scorta dei pretoriani» rispose. «Così come era normale avere il proprio genio personale».

«Stai scherzando?» domandai. «È un'usanza andata in malora ancor prima della caduta dell'Impero Romano!»

«Le leggi si aggirano facilmente, sopratutto in Dacia, dove il controllo dell'Impero è nebuloso» mi contraddisse. «Il jinn era l'ultima moda. Come un genio, ma più esotico. Molti di loro, tra l'altro erano donne... spesso molto belle, detenute dai loro padroni come schiave... puoi immaginare...»

«Immagino» tagliai corto, disgustata dal pensiero, poi bevvi un altro sorso generoso sperando che l'alcol mi aiutasse a elaborare quell'informazione.

«Quel giorno, mio padre non avrebbe dovuto lavorare. Per questo eravamo usciti» continuò. «È stato chiamato all'improvviso. E ha dovuto raggiungere l'Augustale, nonostante fosse il suo giorno libero».

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