2.13 • UN LAVORO DI FINO

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«Non dire assurdità» rispose Gilbert.

«Non è un'assurdità» risposi, offesa. «Ho sempre mal di testa durante le sue lezioni. È come se emanasse un'energia nefasta».

«Non emana alcuna energia nefasta» tagliò corto Gilbert.

La stava difendendo?

Sostenne in mio sguardo per qualche istante, poi si voltò, stranito.

«Mamma» dissi, affranta. «Possibile che non ci sia niente che si possa fare?»

«Non sottovalutare tua madre» mi rispose, legandosi i capelli e tornando a inginocchiarsi accanto a Devon. «Ho detto che non riesco a leggerla, non che non riesco a scioglierla».

Quel breve scambio di battute sulla Clement mi aveva messa profondamente a disagio

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Quel breve scambio di battute sulla Clement mi aveva messa profondamente a disagio. Mi mandava fuori dai gangheri. L'immagine di lei insieme a Gilbert che, purtroppo, era bene impressa nella mia mente, mi smuoveva un'agitazione incontrollabile nello stomaco.

«Vedrai che tua madre lo guarirà» mi disse Gilbert, seduto accanto a me sulla fontana del cortile deserto del CST, al calar della sera.

Non avevo dubbi in merito. Non era quello che mi preoccupava.

«Devi smetterla di sentirti in colpa per tutto ciò che accade intorno a te» continuò Gilbert, guardando davanti a sé.

Strinsi nei pugni il tessuto dei jeans che avevo indosso.

«Come faccio?» domandai. «È tutta colpa mia. Alle persone che ho intorno accadono cose orribili. Mia madre, Jurgen. Ora anche Devon... per non parlare di Kento...»

«...o del genocidio Armeno» mi interruppe. «Le disgrazie accadono a tutti, ogni giorno. I geni sono spesso avventati nelle azioni, non sei certo l'unica. Gli Umani poi, sono molto più scellerati e spietati di quanto immagini. E tutti loro sono dotati di libero arbitrio e agiscono come meglio ritengono. Non deve necessariamente ruotare tutto intorno a te».

«Ma io sono maledetta» dissi, e dovetti soffocare un singhiozzo. «La maledizione incisa sul cippo del Lapis Niger non colpisce i geni, forse. Ma perché tutto, intorno a me, deve andare così male?»

Gilbert non mi rispose ma, anzi, si alzò in piedi e si infilò le mani in tasca. Il suo atteggiamento mi allarmò.

«Tu e quell'altro disgraziato» sibilò. «Non avreste mai dovuto profanare quel luogo».

«Lo so» singhiozzai. «Se potessi tornare indietro di sicuro non ci riproverei. Ma ormai l'abbiamo fatto».

«Conservo anch'io la fondata speranza che quella maledizione sia stata piazzata lì per proteggere la pietra dalle nefandezze umane» rispose. «E che quindi non si abbatta sui geni. Ho passato anni a studiare il Lapis Niger».

Avvertii una vibrazione del medaglione, come se fosse stato il cuore di Gilbert che perdeva un colpo. Mi voltai a guardarlo. Si era innervosito. Non voleva dirlo. Aveva parlato più di quanto avrebbe voluto.

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