Capitolo 29

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Alexa

Rimango incantata nell'osservare la sabbia cadere con regolarità, mischiandosi con il tempo già trascorso.
Ogni granello spinge l'altro nel tentativo di passare da quella stretta apertura, inconsapevole che prima o poi confluiranno tutti nel recipiente sottostante.
Non avevo mai visto una clessidra fuori dai libri di testo. Ad Ian sarebbe piaciuta.
È comprensibile che sia stata sostituita dall'efficienza degli orologi moderni, eppure non posso smettere di pensare a quanto possa spaventare gli uomini. Con l'orologio analogico sei a conoscenza solo del presente, secondo per secondo, lancetta dopo lancetta. Ma con una clessidra sei costretto a confrontarti con ciò che è passato e con quello che ti rimane. Non è un concetto astratto, è proprio davanti ai tuoi occhi: un mucchio di polvere. Il tempo che scivola da un contenitore all'altro è solo una montagna di sabbia.
E fa paura.
I minuti che non hai usato si accumulano sempre di più, proprio mentre li guardi cadere. Non c'è nulla di speciale in questo.
Perché non mi spaventa?
E mentre tutti si affannano a cercare di vivere nella giuntura tra i due contenitori, il presente, così sottile e fragile, Ian si è sempre occupato di collezionare la sabbia del passato, quella che ormai nessuno voleva. Lo immagino a vivere nel recipiente inferiore, scostando i ricordi con le mani, saggiando con i polpastrelli ogni granello, in modo che nulla gli scappi.
Io ho sempre vissuto nella bolla di vetro superiore, pronta a scivolare via.
Oh, starei a guardarla per ore.

Sobbalzo appena la mia pelle si scontra con una superficie fredda, strappandomi dal mio mondo di vetro e polvere.
Mi ritraggo di scatto in modo da proteggermi dall'uomo che mi ha toccato la tempia.
-Alexa? Tranquilla, è solo un controllo- riconosco la voce di Arthur a stento, proviene da una cassa situata nell'angolo in alto, uno dei pochi elementi della stanza spoglia in cui mi trovo. Le pareti bianche mi circondano in modo minaccioso, quasi avvertendomi di non provare a scappare.
Deglutisco lentamente cercando di mantenere la calma; sono sicura che mio padre non sia l'unico a guardarmi dall'altro lato della finestra oscurata. Il mio sguardo si sposta sull'uomo, ancora con lo strumento in mano, bloccato dai miei occhi azzurri.
Dopo un respiro profondo, mi ritrovo ad annuire, incapace di poter fare altrimenti.
Rifiutare mi metterebbe in una brutta posizione.
Sono costretta ad essere ancora una volta la cavia dei loro esperimenti.

L'uomo intimorito dal mio sguardo si avvicina a me, ponendo con una leggera pressione il cavo sulla mia tempia, per poi allontanarsi in fretta, quasi potessi morderlo.
-Serve a misurare le tue attività celebrali durante il test, in modo da ottenere più informazioni sul tuo talento. Non è quello che vuoi anche tu?- la voce attraverso l'impianto audio è distorta, metallica.
-Certamente- serro le labbra mentre lo stesso uomo posiziona altri cavi intorno alla mia testa.
Stringo i braccioli della sedia per non palesare la mia inquietudine.
Cosa mi faranno?
Il mio cuore inizia a premere contro la gabbia toracica, talmente veloce che mi manca il fiato.
-Non c'è bisogno di agitarsi- mi ribecca una voce sconosciuta dall'altoparlante. Quanti di loro mi osservano?
Non importa che io sia nelle grazie di Arthur, non mi è concesso fare un passo falso.
Devo calmarmi.
Di sicuro controllano il mio battito cardiaco. Posso mentire quanto voglio, ma il mio corpo gli rivelerà cosa sento veramente.

Mi concentro sull'unica persona presente nella stanza, occupata a controllare il collegamento dei suoi aggeggi. Ha il volto stanco, segnato da rughe evidenti, forse precoci, non sembra così vecchio.
La voce dei suoi superiori deve averlo rassicurato, adesso i suoi movimenti sono prudenti ma non più impacciati, si ostina però a scappare dal mio sguardo attento, come se avesse paura del mio giudizio.
Come se potessi fargli qualcosa.
Mi ha legato anche il busto, abbastanza stretto da non poter respirare profondamente senza incontrare la resistenza del metallo.

Un segnale acustico annuncia l'apertura della porta alla mia sinistra, l'unica via di fuga della stanza. So già chi entrerà, il mio sesto senso funziona anche meglio del mio talento. So che sarà lui, ma questa volta sono pronta.
Rilasso i muscoli mentre il signor Cox avanza spensierato, del tutto estraneo al clima che aleggia tra me e il tecnico. Non voglio che mi vedano nervosa, non possono avere questo potere su di me. Non glielo concedo.
-Splendore, ti vedo bene! Legata in questo modo poi!- si siede sorridendo, lasciandosi scivolare via la giacca grigia dalle spalle.
Tutto in questo uomo mi disgusta, ma se glielo mostrassi non farei altro che il suo gioco. Non mi sono ancora perdonata per avergli permesso di entrare nella mia testa, di immobilizzarmi e spaventarmi. Ho ancora gli incubi di quel giorno: lo rivedo afferrarmi i capelli con forza mentre preme la sua fredda lama sulla mia guancia, pronto a sfregiarmi. Sento ancora il suo alito caldo, le sue mani sul mio corpo, il dolore atroce alla gamba. Non riesco a perdonarmi di avere paura di lui.
-Ho sentito che tu e mio figlio ve la spassate insieme, chissà se anche lui ti lega così...-
-Non credevo che fossi geloso- ribatto con un leggero sorriso. Il mio battito cardiaco non deve accelerare, va tutto bene.
Stiamo solo scherzando, è solo un gioco. Non posso vincere, ma non voglio nemmeno perdere.
-Allora hai ancora una lingua! Non ricordavo bene se te l'avessi tagliata o meno la scorsa volta- lui si sporge verso di me, chiaramente divertito dalla situazione.
-Ti sbagli, la scorsa volta eri troppo occupato a fantasticare su di me in ascensore per farlo-
Sono solo ricordi, non possono farmi del male. Sono passati ormai, un mucchio di sabbia in una clessidra.

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