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Aveva addosso il suo odore. 

Guardava quel maschio, quel Fenix, alto e possente e poteva percepire sui suoi vestiti, sulla camicia bianca e i pantaloni attillati, il suo odore: zucchero bruciato e il dolce aroma della notte. 

Non aveva pensato a ciò che covava dentro, a quel fuoco che, di lì a qualche ora, l'avrebbe indebolita solo perché suo fratello aveva deciso così. 

Lo avrebbe ucciso. 

Il bastardo lo sapeva chi era lei, cos'era, e non si era fermato, non l'aveva fermata, non le aveva impedito di continuare ad accarezzarlo, di farsi stringere dalle sue mani. 

Lo avrebbe sgozzato e usato il suo sangue per dipingere la scena della sua morte. 

Ghignò, quelle labbra rosa piegate in un sorriso sfrontato, racchiuse in quei denti bianchi che aveva immaginato chiudersi, mordere, succhiare altre parti del suo corpo. 

Lo avrebbe scuoiato e usato la sua pelle per crearsi un nuovo vestito. 

«Sai che nella penombra del locale avevi un aspetto migliore?»

Ringhiò, un suono che le riverberò dentro, proveniente sia da lei che dalla sua oscurità, come se neppure le sue ombre sopportassero che qualcuno si prendesse gioco della loro padrona.

Il Fenix incrociò le braccia su pettorali perfettamente scolpiti, le maniche della camicia si strinsero mentre i bicipiti si gonfiarono.

I suoi occhi fiammeggianti percorsero lenti il suo profilo mentre si passò la lingua sulle labbra per inumidirle.  

«Sai che in camera da letto, comodamente poggiato su un comodino, in attesa di essere usato, ho un pugnale che ti starebbe bene conficcato in un occhio?» 

Lo guardò, la luce della stanza che gli permetteva di vedere cose che nella penombra del locale aveva completamente ignorato: i capelli rossicci, ad esempio - dello stesso arancione che tingeva i cieli di Sunbury prima del tramonto - raccolti in una crocchia disordinata in cima alla testa, con qualche ciocca che gli si arricciava sulla nuca.

Quegli occhi che ancora ardevano di un fuoco vivo, leggermente allungati verso l'alto, come quelli delle tigri che Amias, il Grande Re del Regno di Thaebar, di cui i Fenix erano originari, allevava nel suo palazzo come animali da usare in guerra.

Quel maschio si mostrava come un tipo di preda difficile da uccidere, la cui caccia si sarebbe rivelata più divertente della morte stessa: sarebbe stato esilarante farlo a pezzi e poi spedire ciò che ne rimaneva al Grande Re. 

«Sono sempre disposto a seguirti fino in camera tua per dargli un'occhiata.»

Inarcò le sopracciglia, alludendo a quante altre cose avrebbero potuto fare in camera sua.

Non riusciva a capire se lo stesse facendo perché voleva davvero riprendere da dove avevano lasciato o se volesse solo mettersi in mostra davanti agli altri maschi: si trovava in un nuovo Regno, al servizio di un Re a cui non aveva giurato fedeltà, a dover fare da guardia a una Fae poco disposta a farsi rinchiudere in una gabbia. 

Voleva mostrarsi superiore e credeva che fare il gradasso lo avrebbe aiutato.

Non poteva sbagliarsi di più. 

«Quando mi hai chiesto se avevo un buon locale da consigliarti, uno dove trovare belle femmine e buon alcol, non mi sarei mai aspettato che avresti cercato di portarti a letto proprio Herebo.»

Si intromise Nakoa, dietro di lei, la voce divertita. 

Si voltò e lo trovò seduto al solito posto, le gambe distese davanti a lui, sul lungo tavolo di cristallo, incurante del fango incrostato ai suoi stivali di pelle nera.

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