PART 1, NICCOLÒ.

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Roma mi scorre alle spalle mentre a scorrere contro la mia faccia ci sono anche le lacrime di delusione. È stata un'invettiva alle mie spalle quella di mia madre. Mi ha strappato dalla mia realtà con così tanta brutalità che in questo momento mi sembra tutto una enorme simulazione. Perché tenermelo nascosto, perché reagire senza preavviso? Tengo la testa poggiata contro il finestrino freddo e nel frattempo la mia mente ignora qualunque discorso i due operatori mi stiano facendo. È come se fossero una parte superflua di questo racconto. Mi sbattono contro, ad ogni curva, i bagagli e nella memoria percorro gli attimi in cui ho cercato di scappare con un palese insuccesso. Cosa penserà la gente di me? Crederà davvero che ne avevo bisogno? Cosa ne sarà di Valerio? Come si sente? Non è così che avevo previsto che andassero le cose, neanche nella più lontana delle ipotesi. Volevo soltanto preservarlo dalla sofferenza, ed è capitato che il male ci ha stretti entrambi fino a soffocare. Percepisco un macigno comprimermi il petto fino a quando il cuore, esausto, aumenta i battiti ed ecco la mia prima vera crisi di panico. Panico per tanti di quei motivi che ho perso il conto oramai. « Niccolò, devi calmarti. » mi sussurra un uomo. « Focalizzati sul tuo respiro. Sta' tranquillo. » Annaspo con tutte le mie forze ad esalare dei respiri ma mi sento come se io stessi affogando e nessuno mi stia lanciando una corda. Un fuoco si accresce dal petto allo stomaco e la mia pelle diventare rigida come il cemento quando s'asciuga. « Non ci riesce. Non si calma. » urla un altro guardando verso di me, mentre io mi limito a puntargli gli occhi cerulei contro. « Non preoccuparti. Concentrati sul respiro. » La vista sta iniziando a diventare talmente vana per via degli occhi pesanti che a momenti non riuscirò a distinguere cosa ci sarà a due palmi dal mio naso. È una sensazione orribile ma se non mi aiuto da solo, nessuno ci riuscirà per davvero. Mi drizzo sullo schienale del sedile. Mi porto una mano sull'addome e lo rilasso gradualmente. Dopodiché conto in mente lentamente e mi assicuro che il mio respiro si stabilizzi a poco a poco. « Bravo, ci stai riuscendo. » uno mi sorride. « Va un po' meglio? » un altro mi poggia la mano destra sulla spalla ed io la rigetto d'impulso. « Non va bene. Lasciatemi in pace. » biascico ancora reduce da quegli attimi interminabili. Credo che abbiano compreso. Non fiatano e non mi rivolgono domande sul perché io sia stato affidato alle loro non gradite attenzioni. È chiaro che sto sempre più scomparendo. La pelle ricopre a malapena le ossa che sporgono da più parti del mio corpo. Ho perso il sorriso e le occhiaie per le notti passate insonne, mi marcano il contorno occhi. Sono bloccato in una prigione di carne e sofferenza e la cosa più buffa è che non posso sfuggirne. Non ho nessuno da corrompere affinché lasci la cella aperta. Sono riverso in una delle felpe di Valerio. Non gliel'ho mai restituita e mia madre non ha mai fatto domande sul perché fosse nel mio cassetto. Non avevamo avuto più segreti, ci siamo detti tutto quello che c'era da dire. Ho messo tutto in chiaro, mi sono privato di quel velo di mistero da cui ero stato accolto per mesi ed adesso, adesso lei aveva organizzato una spedizione nemica contro di me. È questo quello che più di tutto fa male. La mia unica colpa è lo star nascondendo a tutti quello che è accaduto con Costa. Io voglio proteggerli. Voglio che almeno loro vivano serenamente e se questo comporta un carico insostenibile sulle mie spalle, lo accetto! Quando mi osservo allo specchio, è lì che vedo le sue mani grandi che mi avvolgono i fianchi e lo stomaco. Se non consideriamo i segni che la violenza ha lasciato sul mio corpo. Segni che mai nessuno vedrà perché mi ostino, per motivi non facili da biasimare,  a nasconderli come fa un cane con l'osso. « Ci siamo quasi. » dice chi sta alla guida. Sono quattro in tutto. Il più esile sta al volante e lo tiene tra le mani guidando il furgoncino. Gli altri, visibilmente più forzuti sono in divisa ed hanno il loro nome stampato sul petto. Mi guardano come se fossi un animale allo zoo ed io, dal canto mio, non mi sento diverso da questo. Due occhi neri in particolare non hanno smesso di stare inermi lungo tutto il mio corpo. Si chiama Marco. L'ho potuto leggere dalla targhetta sulla divisa ed è stato lui a strapparmi via dal condominio. Che si senta in colpa o no, non riesco a dirlo. Non lascia trapelare nulla dal suo sguardo vitreo, neanche un minimo tratto di disprezzo. Gli imprecherei contro se non fosse che gli basterebbe una sberla per mettermi al tappeto. E se non altro, a giudicare da quanto sia rilassato, non cogito si accanirebbe contro di me. « La madre è stata una stronza. » sussurra uno che gli sta vicino e lui con un colpo rapido della mano lo zittisce. Si divertono in questo modo? Cercando di analizzare nella maniera più sintetica e poco fedele il nucleo familiare dei poveri malcapitati? « Lo è stata. Tanto. » dico inghiottendo un singhiozzo che mi opprimeva la gola. « M-mi dispiace, non volevo. »
« Non importa. Tu hai fatto il tuo lavoro. »
« Non mi piace il mio lavoro. » alza le spalle.
« Nemmeno a me piace. Fa schifo. »
« Ti stiamo salvando la vita. » afferma Marco. Avrei voluto che ci fosse qualcuno che mi salvasse dalle mani di quell'orco ma nessuno era venuto in mio soccorso. Mi avevano lasciato morire proprio in quegli istanti ed adesso, valutando da un occhio esterno e razionale, viene loro complicato pensare a quali cause questa mia anoressia sia legata. Non ho mai avuto un ottimo rapporto col cibo ma questo voi la sapevate già. Possibile che io abbia cercato un pretesto per giustificare la mia scelta? Una lacrima mi scorre lungo la guancia ed io la asciugo con immediatezza con la manica della felpa, poi guardo Marco e stringo le spalle. Comincio a percepire la pelle tirare per via del pianto che non ho asciugato durante la discesa, ma non importa. Scorgo da qui una struttura infondo alla strada ed è lì che probabilmente passerò il resto del mese. So bene come funzionano le cliniche di riabilitazione e chi la dura la vince, è quasi una certezza. « Eccoci, ci siamo. » tira fuori la lingua il conducente, poi se la passa tra le labbra e sorride. Posso vedergli fare tutte queste dallo specchietto retrovisore che sta inclinato verso di lui ma non abbastanza da non permettermi di fissarlo. Oscillo per via delle fosse sulla strada e quando siamo davanti il cancello sento un brivido trapassarmi le costole come farebbe una freccia. Sarebbe meglio che cominci ad abituarmi se non voglio tentare il suicidio il primo giorno in cui metto piede nella clinica. Ho pensato ad innumerevoli modi per porre fine a questo calvario. Il furgoncino attraversa l'entrata a scorrimento automatico, si ferma qualche secondo sotto un portico e riparte verso la costruzione. È un casolare simile ad un ostello o almeno, è così che si mostra a chiunque gli faccia visita dall'esterno. Spero che sia accogliente alla pari di uno di questi. Penso che sarebbe così che riuscirei ad affrontare bene le settimane di terapia ed auto integrazione. Siamo in periferia, lontano dal caos della città eterna. Lontano dai miei amici, dalla scuola, da Costa. Lontani abbastanza da quasi disintossicarmi da ciò che era diventato tossico. Non appena ci fermiamo Marco carica giù i miei bagagli ed io lo seguo con lo sguardo basso. « Da questa parte. » mi dice svoltando a destra. I corridoi sono asettici, privi di colore ed immersi in un totale grigio pallido irruente. Ci dirigiamo verso una porta in legno massiccio e quando le siamo di fronte lui bussa e qualcuno gli risponde. Mi si para davanti un grande ufficio da cui, a fare capolino, c'è una signora riversa in un completo troppo attillato per le forme che la compongono. « Prego, accomodatevi. » afferma seguita da un rumore di fogli che vengono sfogliati sulla scrivania che ha davanti.

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