Fàilte -Storia di speranza e...

By ChiaraRossi925

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ATTENZIONE: Primo libro di una dilogia, di cui il secondo non è ancora concluso. New York, 1846 La famiglia... More

Premessa
Fàilte- Storia di speranza e di riscatto
Prologo
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
Capitolo X
Capitolo XI
Capitolo XII
Capitolo XIII
Capitolo XIV
Capitolo XV
Capitolo XVI
Capitolo XVII
Capitolo XVIII
Capitolo XIX
Capitolo XX
Capitolo XXI
Capitolo XXII
Capitolo XXIII
Capitolo XXIV
Capitolo XXV
Capitolo XXVI
Capitolo XXVII
Capitolo XXVIII
Capitolo XXIX
Capitolo XXX
Capitolo XXXI
Avviso importante!
Capitolo XXXII
Capitolo XXXIII
Capitolo XXXIV
Capitolo XXXV
Capitolo XXXVII
Capitolo XXXVIII
Capitolo XXXIX
Capitolo XL
Capitolo XLI
Capitolo XLII
Epilogo
Fine prima parte
Inizio seconda parte

Capitolo XXXVI

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By ChiaraRossi925

Non era stato facile per Connor ritrovare la strada per la casa di Cornelia. La prima volta era troppo ubriaco per rendersi conto di dove fosse, e la mattina seguente era alquanto scosso, quindi non aveva segnato l'indirizzo. Inoltre era agitato e nervoso.

Alla luce del sole, comunque, e con occhi più lucidi, riuscì a constatare che effettivamente il quartiere dove viveva Cornelia era ben curato e all'altezza di una fanciulla come lei. 

E più si avvicinava al portone della sua dimora, più si sentiva a disagio e inadeguato. Stava per bussare a quella grande porta di legno, e chiedere in moglie Cornelia al fratello maggiore, ed era sicuro di non poterle dare tutto ciò di cui aveva bisogno.

Cornelia era una ragazza che pretendeva un certo stile di vita, e lui era solo un povero immigrato che lavorava in un cantiere. Non aveva neppure una casa. 

Almeno quando era in Irlanda era un partito migliore. Aveva un tetto sotto la testa di proprietà della famiglia, un lavoro sicuro e perfino un futuro abbastanza solido. Prima della carestia, ovviamente. 

Perciò era normale che una parte di lui fosse così titubante e si chiedesse cosa diavolo stava facendo mentre saltellava da un piede all'altro in attesa che qualcuno lo facesse entrare in casa Schulz. 

Ad aprire alla grande porta scura andò proprio il padrone di casa, Burk Schulz. Vestito già con il suo solito completo elegante per la serata, con i capelli pettinati e un'aria mista tra sorpresa e divertimento.

«Signor Doyle, per qualche strana ragione sentivo di dover aspettare una tua visita... nonostante comunque dovremmo vederci al locale questa sera, tra non molto».

Il suo accento marcato rendeva ogni sua parole più seria e dura di quanto in realtà avrebbe dovuto essere. Per fortuna il sorriso gioviale attenuava l'atmosfera che si faceva sempre più tesa.

«Posso parlarvi?», chiese esitante Connor, ma allo stesso tempo anche impaziente. Voleva togliersi il pensiero e andare dritto al punto. 

In risposta il padrone di casa si fece solo da parte e gli indicò l'entrata con un gesto del braccio, per poi chiudere alle loro spalle la porta. 

Lo condusse fino al salottino in cui si era incontrati quella mattina, che subito fece tonare alla mente di Connor quel momento imbarazzante. 

«Prego, siediti», lo fece accomodare al tavolo dove quella mattina lui stava facendo colazione. Un tavolo che ormai era vuoto. 

«Vuoi qualcosa da bere?», con gesto elegante della mano indicò un carrello pieno di liquori e bevande in un angolo della stanza, ma Connor rifiutò scuotendo la testa con poca decisione.

Forse sarebbe stato meglio prendere qualcosa, così da essere più sciolto nel parlare, ma allo stesso tempo voleva anche rimanere lucido. 

«Posso offrirti un sigaro, allora?», rincarò Burk, da perfetto padrone di casa, ma ancora una volta Connor scosse la testa, senza però pronunciare alcuna parola.

«Bene, se non ti dispiace però io ne fumo uno...», non aspettò il consenso del suo ospite perché quando prese posto al tavolo, di fronte a lui, stava già fumando il suo sigaro. 

Ad una prima impressione sembrava un capo clan di qualche gruppo di malavitosi di Five Points, solo vestito meglio e con una casa più lussuosa. 

Possedere un locale notturno doveva fruttare molti soldi, altrimenti Connor avrebbe fatto fatica a giustificare quella bella dimora, i quadri europei e l'arredamento. Non era come la casa di Martin, ma ci si avvicinava molto. 

«Fate pure...», disse con un certo ritardo ma prima che ancora potesse iniziare il discorso per il quale si era presentato a casa sua, Burk aggiunse: «Ti prego, dammi del tu... mi fai sentire troppo vecchio e snob se mi continui a darmi del voi».

Avrebbe voluto ammettere che sarebbe stato faticoso rivolgersi a lui come se fosse un suo amico, non solo perché era più grande, ma anche perché era il suo datore di lavoro. E solo la sua presenza lo metteva a disagio.

Però lo accontentò, per non dover subire una lunga chiacchierata e finalmente arrivare al dunque. 

«Sono qui per porgere le mie scuse...», iniziò, abbassando la testa per paura di scorgere nella sua espressione qualche emozione sgradita: «... per il mio comportamento irrispettoso di questa notte. Sono consapevole di aver fatto un grosso errore e di aver macchiato il nome degli Schulz...».

Non riuscì però a concludere il discorso che si era tanto preparato, per tutto il giorno, perché Burk rise di gusto, interrompendo le sue paranoie. 

Alzò di nuovo lo sguardo per poter osservare il padrone di casa e non riuscì a non sembrare sorpreso dal fatto che stesse ridendo sul serio. 

«Che cosa ci trovi di divertente?», non era la prima reazione che si era aspettato, ma comunque neanche la più strana. 

«Ti fermo subito, Connor», riprese l'uomo, smettendo di ridere per qualche istante ma sempre con un sorriso divertito sul volto, che gli illuminava anche gli occhi chiari. Gli stessi occhi di Cornelia. 

«Non sono un uomo fedele alle tradizioni e ai costumi dell'epoca... in verità, non m'importa proprio di nulla», continuò Burk: «Perciò non mi sento affatto offeso dal tuo comportamento, o dal comportamento di mia sorella».

Le parole arrivarono alle orecchie di Connor in modo abbastanza chiaro, eppure non riuscì a crederci subito. Forse perché non si era aspettato un discorso simile, o forse perché proprio non riusciva a comprendere il punto di vista di Burk.

«Mia sorella ha sempre fatto tutto ciò che le piace, senza freni e senza imposizioni... era una ribelle da piccola e per quanto i miei genitori abbiano tentato di mettere un freno alle sue pazzie, lei finiva sempre nei guai».

Quando Connor aveva preso la sua decisione, tutto si era aspettato tranne che un racconto sull'infanzia dei fratelli Schulz. Ma lo accolse comunque volentieri, considerato che sapeva poco di Cornelia.

«Quando loro sono morti e siamo salpati per l'America, l'atteggiamento di Cornelia non è cambiato. Io non le ho mai messo limiti, ne imposto regole... non servirebbero comunque a nulla. Per quanto possa suonare strano, Cornelia è libera di fare le sue scelte, di sbagliare e di pagare per i suoi errori».

«E quindi non ti importa che io e lei... insomma che noi...», Connor non riusciva neanche a parlare chiaramente di fronte al fratello di Cornelia che continuava a fissarlo divertito dalla sua ingenuità.

«Cosa? Che avete fatto sesso?», a Burk di certo non sfuggì l'espressione sbalordita di Connor di fronte alla naturalezza con la quale lui parlava di certe cose. Si concesse qualche istante da dedicare al suo amato sigaro, con la sicurezza che il ragazzo di fronte a lui stava morendo dalla voglia di sentirlo parlare ancora.

«Credi davvero di essere il primo uomo che esce di prima mattina da casa mia, con i pantaloni calati?».

Per quanto una parte di Connor, quella più realistica, si era resa conto fin da subito dell'esperienza di Cornelia sotto le lenzuola, il suo cuore comunque risentì parecchio di quella notizia. 

E le ulteriori parole di Burk non aiutarono: «Ti assicuro che non sarai neanche l'ultimo».

I suoi amici gli avevano accennato allo spirito libero di Cornelia, alla sua indole che poco era propensa a legarsi a qualcuno, eppure lui non voleva crederci sul serio.

Proprio per questo, nonostante la notizia appesa appresa, tirò fuori dalla tasta una piccola sacchetta e la mise sul tavolo: «Io ho comprato un anello», disse con un tono di voce che non aveva nulla a che fare con quello di un uomo felice e in procinto di chiedere la mano di una fanciulla.

Anzi, sembrava piuttosto un cane bastonato, convinto che ben presto ricevere il colpo di grazia, ma che non può far a meno di avvicinarsi all'uomo nella speranza di ottenere invece una carezza. 

Burk guardò il sacchetto e poi il ragazzo, non sorrideva più. Anzi, sembrava dispiaciuto per lui e anche un po' in pena. 

«Senti, ragazzo, tu mi piaci parecchio. Sei un bravo musicista, un ragazzo per bene e con sani principi... proprio per questo sarò sincero con te», tornò a parlare Burk, questa volta serio.

Lo spinse ad alzare ancora lo sguardo per potersi osservare, mentre gli diceva: «Cornelia non ti sposerà mai. La conosco così bene da sapere quale sarà per filo e per segno la sua reazione se tu le regalerai l'anello... e non ti piacerà».

Connor già si stava domandando cosa avrebbe dovuto farsene di un anello, comprato con i pochi risparmi che si era messo da parte per le uscite serali con gli amici e qualche svago. 

Non era uno di quegli anelli belli e costosi, con il diamante, anzi, era un gioiello che mostrava in tutto e per tutto la sua condizione povera e disagiata. Ma era pur sempre un dono e una promessa che era pronto a regalare a Cornelia. E mai come in quel momento si era sentito stupido e ingenuo. 

«Tu quindi non approvi?», chiese con un filo di voce, in un ultimo tentativo di volgere le cose a suo favore. 

Burk, impietosi, gli sorrise: «Non hai sentito? Non importa ciò che penso io... Cornelia non accetterà mai di sposarti. Prenderà il tuo cuore e lo farà in mille pezzi, credimi».

«Non puoi saperlo, se non ci provo», obbiettò Connor, tornando per qualche istante più sicuro di sé: «Da dove vengo io un uomo si prende le sue responsabilità, sempre. E questo significa che io ho il dovere di chiederle la mano, a prescindere da cosa risponderà».

«Bene», asserì Burk, quasi fosse soddisfatto: «Non sarò certo io a fermarti».

Connor si alzò, riponendo il sacchetto in tasca, pronto ad uscire da quella casa, con ancora più timore e paura di quando vi era entrato. 

«E comunque, ad essere sinceri, tua sorella ha già preso il mio cuore...», furono le ultime parole che Connor pronunciò a Burk, prima di uscire da solo, senza neanche essere accompagnato alla porta. 

Quella sera stessa avrebbero scoperto chi dei due aveva ragione. 

«Mio fratello ha detto che volevi parlarmi», la voce sempre un po' scocciata di Cornelia, ridestò Connor da un turbinio di pensieri negativi e ansiosi.

In quello che ormai era diventato il suo camerino prima dell'esibizione, si voltò per guardarla e il primo pensiero fu che era bellissima. Di una bellezza disarmante e pericolosa.

La consapevolezza che Burk aveva ragione, che lei avrebbe fatto a pezzi il suo cuore, si fece strana in Connor ancor prima che riuscisse a parlare. E quando tentò di aprire bocca, non aveva più saliva e quasi si strozzò. 

«Che cos'hai? Mi sembri strano?», Cornelia lo guardava con la solita indifferenza, come se tra di loro non fosse cambiato nulla. Come se non ci fosse stata un'intera notte d'intimità tra di loro. 

Connor riprese fiato, conto fino a dieci e raccolse da qualche parte, nascosto nel suo profondo, l'ultimo briciolo di coraggio che aveva mentre tirava fuori dalla tasca della giacca un sacchetto.

«Cornelia, io... io...», ancora una volta la parola lo abbandonò così si concentrò a slacciare il laccetto che teneva chiuso il contenitore, con le mani che gli tremavano.

Quando l'aprì, quasi gli cadde l'anello, che sembrava volesse sfuggire alla sua presa poco resistente, ma lo prese al volo, se lo rigirò tra le dita per niente sicure e lo alzò così da farlo vedere anche a lei.

«Vuoi sposarmi?».

Lo aveva detto, senza giri di parole ne fronzoli, e se ne pentì subito. Perché anche per quell'occasione aveva pensato ad un discorso più lungo e poetico, ma al momento di doverlo pronunciare, anche la memoria lo aveva abbandonato.

Passarono lunghi e interminabili attimi in cui Cornelia fissava lui e il suo povero anello privo di qualsiasi diamante. 

Per un istante fu sul punto di pensare che tutto era meglio di quel vuoto assoluto, perfino un rifiuto secco. Ed era quasi sul punto di urlare e colmare il nulla con la sua voce disperata.

Mai poi Cornelia reagì, e Connor comprese che sarebbe stato meglio il silenzio. Perché ciò che ottenne in risposta fu la stessa reazione che aveva avuto il fratello qualche ora prima.

Una grossa e genuina risata. Di quelle per le quali quasi fatichi a stare in piedi e hai bisogno di toccarti l'addome. Di quelle che ti fanno diventare rosso e venire le lacrime agli occhi.

Durò così tanto che ad ogni istante che passava Connor sentiva la terra sprofondare sotto di lui. Così rimise l'anello in tasca, insieme al suo orgoglio ferito, e bofonchiò: «Puoi smetterla di ridere di me?».

E lei lo fece, non tanto per accontentarlo, ma per aver l'opportunità di dire: «Avrei dovuto immaginare una cosa simile... Un irlandese cattolico dagli alti principi morali, non poteva non chiedermi in sposa».

Si sforzò di non scoppiare a ridere ancora, quando vide l'espressione tagliente e furiosa di Connor: «Devi perdonare la mia insolenza, Connor, ma dal mio punto di vista questa scena è davvero esilarante».

«Bene, sono contento di averti fatta ridere, almeno», lasciò trapelare tutto il suo disappunto nel tono di voce, incrociando le braccia la petto.

«Oh sì, ci sei riuscito», quando Cornelia si rese conto che stava esagerando, aggiunse: «Ti prego, non avercela con me... non sono una fanciulla da matrimonio, tutto qui».

Connor avrebbe voluto rivelare che il fratello lo aveva messo in guardia, invece rimase in silenzio, a maledire se stesso e darsi mentalmente dello stupido per aver osato tanto.

«E poi, francamente, sappiamo entrambi che non sarebbe stato un matrimonio felice», concluse Cornelia, voltandosi quasi con l'intento di andarsene. Come se per lei la conversazione fosse finita lì.

Ma non per Connor che la raggiunse con due passi veloci, e la bloccò proprio mentre stava per aprire la porta: «Che intendi dire?».

Vide che Cornelia era indecisa se dire tutta la verità, al costo di ferirlo, oppure no. Ma alla fine ebbe la meglio la sua naturale schiettezza mista ad un pizzico di indifferenza nei confronti dei sentimenti altrui.

«Tu sei un bravo ragazzo», esordì assomigliando tanto al fratello: «Mentre io sono una di quelle ragazze che sa rende la vita di qualcuno un inferno solo perché si è svegliata con la luna storta. Saresti arrabbiato, infelice e insoddisfatto con me per tutto il tempo... e non saresti in grado di darmi tutto ciò che desidero, il che renderebbe me arrabbiata, infelice e insoddisfatta».

Forse aveva ragione, ma Connor non voleva sentirselo dire. Di certo non con quel tono di arroganza e spocchia. 

La lasciò andare con un gesto che sembrava si fosse scottato e la fissò con rabbia: «Credi che non sarei stato in grado i mantenerti?».

«Io ne sono certa», asserì lei, per niente turbata dalla furia di Connor: «Guardati!», indicò con un gesto eloquente i suoi vestiti: «A malapena sostieni le spese per te e per la tua famiglia... Non potevi permetterti una moglie esigente come me. E comunque non sono il tipo che si fa incatenare».

«Oh, certo, perché sei uno spirito libero tu, vero?», il tono sarcastico di Connor era evidente, eppure Cornelia annuì, fiera di quella descrizione.

Burk aveva avuto ragione e a Connor non rimase altro che raccogliere i pezzetti del suo cuore, caduti a terra, e andarsene con la coda tra le gambe.

Un cane che, ovviamente, non aveva ottenuto la tanto desiderata carezza. 

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