dear psychologist 【 frerard 】

Par hxpelessaromantic

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« sai, succede molto spesso che il paziente si innamori del suo psicologo, è un meccanismo involontario. ma c... Plus

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Par hxpelessaromantic

Sono tornata. Per spiegazioni andate a leggere le note a fine capitolo.

Quando da piccolo Frank si metteva a pensare al Natale, come la maggioranza dei bambini lo ricollegava alla neve. Si immaginava sempre che la mattina dopo la vigilia si sarebbe risvegliato, ancora intorpidito dal calore delle coperte e dall'atmosfera vacanziera, avrebbe volto il viso verso la finestra ed ammirato milioni di fiocchi di neve volteggiare lievi e panciuti verso il suolo, in una calma danza candida e fredda, impedendo così la visuale dei tetti dei vicini. E poi sarebbe corso nella camera dei genitori e avrebbero tutti insieme fatto colazione e scartato i regali, che Linda non voleva mai si aprissero il ventiquattro, davanti al caminetto, sarebbero stati tutti sorridenti, magari ci sarebbero stati pure i nonni, e sarebbe stato perfetto, il freddo di fuori ed il calore dell'affetto nelle mura di casa. Ora Frank non si creava più idilliaci film sul Natale perfetto, semplicemente perché la crescita con dita caute ma intransigenti gli aveva slacciato la benda dell'innocenza che recava stretta sul viso, e mentre questa scivolava al suolo aveva imparato a guardare il mondo, a studiarlo, ammirando la crudeltà del caso. Che poi era capitato soltanto un paio di volte che svegliatosi la mattina di Natale stesse nevicando, ed in quel momento la neve Frank se la sentiva più all'interno della testa che fuori: sentiva una vera e propria tempesta nella testa, con miliardi di pensieri, di fiocchi impazziti che vorticavano confusionari in preda al vento, e come minuscoli aghi di ghiaccio gli trafiggevano il viso, sublimandosi così in fretta da non farlo neanche accorgere della collisione, se non fosse stato per la mordente e continua sensazione di freddo. Comunque sul piano fisico effettivamente aveva fatto una bella nevicata nei giorni precedenti, e sembrava che ciò avesse cristallizzato le preoccupazioni od il malessere del novantanove percento della popolazione di Belleville. Gli pareva che ognuna delle persone attorno a lui fosse stata colpita da un sortilegio, forse la colpa era di una strana invasione di ometti di pan di zenzero incantati che rincoglionivano chiunque li mangiasse, regalando una sorta di stato etereo di eccitazione e serenità. Perché davvero, pareva che ogni singolo abitante di quella piccola città fosse entusiasta alla vista della festività, soprattutto all'interno della scuola, il che era perfettamente comprensibile, visto che ciò avrebbe significato quasi due settimane di vacanze, assieme alla fine del primo periodo scolastico. Tutti gli studenti si aggiravano nei corridoi sì bardati di maglioni, cappotti, sciarpe e così via (Mikey si chiedeva in gran segreto chi sarebbe stato il primo a presentarsi con un alpaca vivo sulle spalle), ma a nessuno di loro parvero pesare gli ultimi giorni. Il comitato studentesco aveva addirittura fatto appendere degli striscioni verdi e rossi lungo il corridoio principale, che avevano ulteriormente alleggerito l'atmosfera. E così, in un clima paradossalmente natalizio era arrivato l'ultimo giorno, e dopo questo l'ultima campanella, accompagnata dalle grida di giubilo nei corridoi, che Frank stava attraversando in quel momento, accompagnato da Jamia, Mikey e un Ray tutto intento a ciucciarsi un pastello a cera giallo con aria assorta. Tornando al discorso di prima, Frank non la sentiva veramente tutta questa atmosfera natalizia, anzi, era tanto sepolto nei suoi pensieri che la suddetta atmosfera non lo toccava neanche. Tutti i pensieri fungevano da cuscinetto attorno a lui, gli si rovesciavano addosso creando come una cascata, invisibile e densa, che filtrava il mondo circostante, anestetizzandolo prima di farlo assorbire ai suoi sensi, delimitando così il suo spazio. Era come tenere dei vecchi abiti, consunti e malandati, all'interno dell'armadio. Potevi appallottolarli e pressarli negli angoli per nasconderli quanto ti pareva, non toglieva il fatto che fossero lì. E non era difficile rimanere impigliati in qualche sformato scampolo di tessuto dal brutto colore mentre inseguivi con le dita una felpa rossa come papaveri vivi in mezzo ad un campo che profumava di bei ricordi. Erano così i brutti pensieri, come avere quel brutto vecchio maglione indosso e non riuscire a levarselo, lo percepisci appiccicato addosso e ti fa sentire tremendamente a disagio, si antepone a qualsiasi azione tu stia per compiere, non ti fa stare tranquillo. E quel maglione era proprio come gli striscioni, verde e rosso, era un ingrato regalo di un Natale morto ancor prima di essere nato. Quell'anno Frank non avrebbe festeggiato il Natale. Lo aveva deciso la sera prima assieme a sua madre, quando lei durante una particolarmente silenziosa conversazione a cena gli aveva esternato le sue preoccupazioni e la sua decisione, con un tono piatto e falsamente controllato. Linda era stata molto sincera, dicendogli che non gli pareva il caso di festeggiare visti i recenti avvenimenti in famiglia Iero. Non avevano nulla da festeggiare. E Frank sotto sotto era d'accordo, non se la sarebbe sentita di portare avanti una farsa ipocrita con un fondo di malessere in fondo al cuore. Dalla caserma, ancora nessun aggiornamento.
Quell'anno, il venticinque di dicembre sarebbe stato un giorno esattamente come gli altri di vacanza, e lo aveva accettato a cuore freddo. In ogni caso, per molte persone ogni anno era così, e sarebbe stato peggio dover affrontare un clima di festività palesemente impalcato su commiserazioni e "va be', dai, cerca di non pensarci...". Tuttavia vedere che tutti intorno si preparavano per quel giorno non lo aiutava molto, anzi, sottolineava solo la barriera che divideva il mondo da lui, come un tutti + 1, ecco cos era la sua vita. Lo sottolineava e basta. Ed in famiglia ora erano lui + 1, non più un lui + 2, che per quanto frammentata sarebbe potuta essere avrebbe fatto tornare l'equazione all'originale, sette miliardi. Non tutti sono normali e perfetti ed io sono un uno, la mia famiglia è un uno. Sentiva di avere uno strato di ghiaccio attorno al cuore, perché stava imparando ad accettare tutto senza farsi sconvolgere troppo, come se il ciclo dell'acqua in eterno scorrimento della vita si fosse gelato con l'inverno attorno a quel piccolo muscolo che lo teneva in vita.
Arrivati alla porta dell'istituto scolastico Mikey e Jamia li salutarono con affetto, augurando loro buone vacanze e facendosi promettere di tenersi in contatto e di vedersi in quel tempo libero, forse addirittura il giorno seguente. Frank ricambiò, impalcando un sorriso in poco meno di un terzo di secondo. Come prevedibile, non sapevano nulla. A nessuno aveva detto nulla, e non voleva neanche pensarci. Era una sua responsabilità, non altrui. Loro abitavano da un'altra parte rispetto a lui, per cui li salutò con la promessa che al più presto si sarebbero rivisti e si girò di spalle, verso la strada che avrebbe dovuto percorrere per andare da Gerard. Poi si volse verso Ray, ancora pensieroso e col pastello in bocca.
«Anche tu vai di qua?» chiese, indicando la strada. Ray annuì silenziosamente, così i due si avviarono sul marciapiede senza spiccicare parola. Ray era molto silenzioso, forse un po' strano, ma aveva imparato a conoscerlo meglio col tempo e non era male. Aveva i suoi momenti, la sua realtà, e a volte veniva a galla con quella circostante, rivelando una mente funzionale e piuttosto insolita. Era anche indecifrabile, ma quando entrava in sintonia con l'ambiente ci si trovava molto a suo agio. Frank tirò fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca del giaccone e gliene offrì una, che prese e si accese sostituendo il pastello, ringraziandolo con un cenno del capo per poi passargli l'accendino. Anche Frank si accese una sigaretta e lasciò che la nicotina facesse diminuire la tempesta di neve in testa, riducendola poco a poco ad una rilassante, modesta nevicata. Esalò il fumo, dello stesso colore grigio pastello delle nuvole. Gli stavano finendo, e visto che durante le vacanze non aveva la minima intenzione di mettere piede fuori di casa se non per questioni di massima necessità, sarebbe dovuto andare a comperarle quel pomeriggio. Infatti Belleville rientrava in quella categoria di città moderatamente squallide, abbastanza concedere sigarette a minorenni e non. Inoltre quell'anno avrebbe pure potuto non festeggiare, ma si era ripromesso che sarebbe passato più tardi in centro città, per fare dei regali. Gli mancava ancora qualcosa per Mikey, sua madre e Gerard. Certo, si sarebbe potuto svegliare prima, visto che proprio in quel momento stava andando da lui, ma non sapeva ancora cosa fargli. Non ne aveva idea. Voleva andare sul classico, magari gli avrebbe regalato qualche fumetto o della band merch (o della tinta per capelli, se solo Natale fosse stato il primo di aprile), ma in ogni caso si trattava di Gerard, non di qualcun altro. Di Gerard, il suo ragazzo. E non aveva la più pallida idea di cosa regalargli, cui si ricollegava la paura di non riuscire a prendergli qualcosa in tempo. Si sarebbe offeso così tanto se gli si fosse buttato addosso per baciarlo come regalo?
«Frank, devi smetterla con questa farsa.» Ray aveva parlato così poco nei giorni precedenti che quasi si strozzò con il fumo della sigaretta. Si girò sorpreso verso di lui, fermandosi a ricambiare lo sguardo fisso del riccio, stranamente serio come altre poche volte era stato.
«Cosa?»
«Hai capito bene, devi smetterla con questa farsa.» Ray si rimise la sigaretta tra le labbra per qualche secondo. «Jamia è la mia migliore amica, e non voglio che tu giochi coi suoi sentimenti. Mi ha raccontato di quello che è successo dopo la tua festa di compleanno e di come poi tu sia corso via quella volta che eravate usciti e c'è stata la bufera. E non so se tu te ne sia accorto o meno, ma le piaci, le piaci davvero tanto. Potrai ricambiare o no i suoi sentimenti, questo è affar tuo, ma in ogni caso devi smetterla di giocare con i suoi sentimenti ed essere chiaro con lei, perché lasciarla così senza una risposta diretta è abbastanza crudele. So che non lo fai con cattive intenzioni, ma fammi un favore, smettila inconsciamente di giocare con lei. Detto questo, passa un Buon Natale. Ci si vede.» si girò ed attraversò la strada, lasciando Frank muto e immobile all'angolo del marciapiede. Non gli urlò dietro né lo rincorse, semplicemente si rimise sui suoi passi, riflettendo sulle parole ragionevoli di Ray. Quindi questa era la conferma alla maggior parte dei suoi dubbi verso la ragazza, ossia che le piaceva. Certo, se avesse attaccato le sinapsi nel modo corretto probabilmente ci sarebbe arrivato prima, ma diciamo che Gerard lo aveva tenuto un po' impegnato sul lato sentimentale. Non gli era stato facile scendere a patti con i suoi sentimenti, per quanto fossero intensi e da tempo fosse conscio della sua parziale mancanza di eterosessualità, e sulla ragazza non aveva fatto altro che proiettare i suoi dubbi e le sue paure, comportamento che, a conti fatti, era stato decisamente scorretto, Altamente giustificabile, ma altrettanto scorretto. Tuttavia, percepì la situazione scivolargli sul cuore come su uno scivolo di ghiaccio. Non ci diede molto peso. Era preoccupato, ma era solo una delle tante nuvole nella testa, e ricevere una conferma piuttosto che un ennesimo punto di domanda lo aiutava a ragionare lucidamente. E poi stava andando da Gerard, e per quella macchia rossa nella sua vita non c'erano respiri di fumo da dedicare, ma soltanto un sorriso spontaneo e nascosto dall'ombra di un viso reclinato. Si era davvero innamorato, e per un momento il resto del suo lato sentimentale non contò. Buttò quello che ormai era un mozzicone fumante a terra e lo spense con la punta della scarpa, digitò un messaggio a Gerard e poi attraversò la strada di fretta, entrando in meno di un minuto nell'accogliente salottino dalle calde pareti arancioni. Fece un cenno di saluto a Donna dall'altra parte del bancone, soffermandosi un attimo di troppo a pensare se lei sapesse di lui e suo figlio, ed in caso contrario cosa sarebbe successo se li avesse scoperti, e aprì timidamente la porta bianca. Gerard era lì, a gambe accavallate sulla sedia, dondolandosi leggermente col telefono nella mano destra, lo sguardo, uno sveglio lampo nocciola, puntato fuori dalla finestra. Al rumore dei cardini si girò verso di lui, e le labbra si dilatarono in un sorriso. Mentre lui si alzava Frank si richiuse la porta alle spalle per poi slacciarsi la giacca e depositare questa e lo zaino accanto alla sua poltroncina color vinaccia. Percepì la stretta delle braccia di Gerard attorno alle sua vita, si voltò e senza neanche accorgersene le loro labbra erano pressate in un bacio. Frank gli poggiò le mani sulle spalle, i nervi assenti da qualunque stimolo che non fosse la presenza del ragazzo accanto a lui, e le fece scivolare lentamente sul suo collo, mentre in un muto accordo le labbra si schiudevano e Frank lasciava che la lingua di Gerard si scontrasse con la propria, le labbra scivolose e già arrossate che si pressavano l'una contro l'altra. Frank sentì vagamente che si stavano stringendo di più, come l'edera che si arrampica su per il muro di un vecchio palazzo, ma la sensazione era distaccata, lieve, come il rotolare di una biglia su un lenzuolo teso. Si poggiò contro il bordo della scrivania, Gerard in un qualche modo incastrato tra le sue gambe, l'elastico della felpa sollevato in una maniera molto scomoda, ma resa più comoda dalla mano del ragazzo che lo teneva ben saldo, ed una specie di caldo nodo si strinse nel ventre di Frank, era del colore rosso del vino che sua madre comperava per i Natali passati e che quell'anno non avrebbe bevuto, e gli risalì per lo stomaco, dal cuore alla gola, inebriando tutti i suoi nervi di quel rosso sanguigno, e si baciarono ancora. Ormai da qualche giorno a questa parte succedeva sempre, le loro bocche si sfioravano e la situazione andava fuori controllo, ma almeno a lui andava bene. Era più forte di lui, come se una forza superiore lo facesse muovere a quel modo e gli instillasse ogni singola goccia di rosso. Nel fondo della sua mente Frank sapeva che quella forza superiore aveva un nome, e anche che ciò che li spingeva l'uno contro l'altro aveva un nome, ma il fondo della sua mente ne era continuamente annegato, per cui Frank cercava di prestarci poco conto. Quando riuscirono a staccarsi, Frank aprì appena gli occhi, le mani posate sulle guance di Gerard, il quale rialzò le palpebre, lasciando che l'iride nocciola guizzasse da sotto le ciglia lunghe. «Be', direi che è stato parecchio intenso come saluto.»
«Mmh mmh.» annuì l'altro, sollevando un angolo della bocca. «Pensa se qualcuno fosse entrato.» ed eccola di nuovo, la paura di Frank. Che qualcuno li scoprisse. E non capiva perché. Gerard era il suo ragazzo, era una delle cose più belle che fosse mai capitata nella sua miserabile vita, eppure ne aveva paura.
«Direi che se quel qualcuno fosse stata mia madre mi avrebbe ammazzato.»
«Diciamo che non credo si aspetti di spendere i suoi soldi in questo modo.» ammise Gerard. La presa sui suoi fianchi divenne semplicemente un paio di mani da artista poggiate sul suo corpo. «Perché sì, vengo pagato per questo, e mi sento per metà grato per metà in colpa.»
«È pur sempre una ragione per vederci.»
«Sì, ed infatti ne sono grato, ma rimane comunque la mia futura professione. A proposito, dovremmo metterci a lavoro, lo sai? Solo perché abbiamo diminuito la regolarità delle visite non vuol dire che dobbiamo smettere.» Gerard riteneva che Frank non avesse più bisogno di un sostegno costante. E lui era d'accordo. Si sentiva maturato, si sentiva già meglio. Sapeva che il suo percorso non sarebbe finito lì, ma era conscio del fatto che prima o poi, più prima che poi, sarebbe giunto ad un termine. Ora si sentiva bene, presente, nonostante la mente come un cielo in tempesta, ma era una sua caratteristica personale. Non stava bene solo per convenzione sociale o mancanza di termine positivo di paragone. Sentiva di stare bene. Soprattutto con, e grazie, a Gerard.
«Per quanto mi riguarda potremmo pure rimanere così per la prossima ora.» disse Frank, riferendosi all'abbraccio in cui erano ancora uniti, rimarcando il concetto con un cenno alle braccia con cui lo stringeva sulle spalle. Gerard alzò gli occhi al cielo, teneramente divertito. A volte si soffermava a guardarlo nelle sue mimiche espressioni facciali, accorgendosi solo minimamente di quanto fosse ammaliante nei suoi dettagli, tanto si incantava nella sua bellezza. Oggettivamente, Gerard come tipo poteva piacere e non piacere. Ma lui, soggettivamente, lo trovava un'opera d'arte.
«Sì be', non che non piacerebbe anche a me, ma il mio senso di responsabilità dice tutt'altro.»
«Da quando hai un lato responsabile?»
«Più o meno da quando mia madre mi mandava a prendere mio fratello a scuola e mi implorava di non lasciare che si buttasse sotto le macchine. Anche io sono felice di vederti, ma seriamente, sei qui per una ragione.» e seppur contrariato, Frank era d'accordo. «Ah, aspetta un secondo, mi ero dimenticato.» Frank lo guardò con un'espressione interrogativa, l'unica cosa che era rimasta unita erano le loro dita intrecciate, e dalla loro presa capì che gli doveva dire qualcosa.
«Di cosa?»
«Il giorno dopo Natale ti va di venire da me? Ho invitato qualche persona - tranquillo, non saremo più di una decina - per passare la giornata insieme, a pranzo. Ovviamente sei invitato, sempre ammesso che non abbia già impegni e-»
«No, quest anno no.» Frank storse la bocca, pensieroso, avvolto in una delle sue metafisiche nuvolette grigiastre. «Verrò volentieri, mi farebbe piacere.»
«Hai cambiato espressione.» notò Gerard, i cui occhi nocciola si incupirono un po'. «È successo qualcosa che ha a che fare con ciò che ho detto?»
Frank sospirò. Come faceva quando fumava, che le sue preoccupazioni erano trascinate via dalla nicotina ed espulse in fumo grigiastro, con Gerard stava imparando a soffiare via tutte le nuvole del medesimo colore, carico della pioggia dei ricordi, fuori dalla sua testa. «Lascia che ti spieghi.»
E così raccontò del suo infausto Natale e delle albe nuvolose con e senza neve, senza mai lasciar andare la mano di Gerard.

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Frank le aveva sentite già dal vialetto d'ingresso, le voci. E per quanto facesse un freddo cane si era bloccato a metà passo, lo sguardo spaventato puntato alla porta ed il respiro alterato. Sentiva il sangue cementarsi poco per volta nelle vene, trasformandolo in una statua di ghiaccio. C'erano sicuramente più di una decina di persone, le sentiva parlare, scherzare, ridere al di là di una cinquantina di centimetri di mattoni. Considerò di tornare sui suoi passi e di inventarsi una scusa, di dire di essersi sentito male, di essere finito sotto una slavina di abeti, di essere rimasto vittima di una congiura di ometti di pan di zenzero. Tutto, di tutto pur di non dover stare con le persone. Si cominciò a ripetere nella mente con voce da bambino io non voglio entrare, non voglio, no, accondiscendendo così la paura che elettrificava il suo sangue grigio di cemento e lo impregnava come una spugna, gli occhi puntati come quelli di un cerbiatto davanti al fucile del cacciatore alla casa di Gerard. Si era anche anestetizzato al freddo dell'aria che gli pungeva i polmoni ad ogni ansioso respiro. E poi si accorse che era esattamente ciò che non voleva e non doveva fare. Bloccarsi per gli altri. A lungo andare, come una striscia di cartone pressata alle estremità, per dare spazio agli altri si era silenziosamente incavato, invece di mantenere la sua linea retta, e mano a mano quella era diventata la sua forma. Ma non poteva incavarsi più di tanto, ed ogni volta che tornava nella sua posizione retta ogni situazione che coinvolgeva l'interazione di due spazi, il suo e quello altrui, aveva paura, e tornava ad incavarsi. E così aveva perso la sua identità, la stessa identità per la quale stava invece combattendo contro e per se stesso. Non poteva annichilirsi per gli altri, non poteva vivere per gli altri, ma per se stesso. Non la avrebbe data vinta all'ennesima stella nera che vedeva brillare nel cielo della sua vita, sopra la sua testa. Anche lui aveva una sua luce, solo perché altre stelle brillavano più forte non voleva dire che lui non brillasse, per se stesso, per qualcuno. A volte questa luce la vedeva, riflessa negli occhi di qualcuno che amava. Gli occhi sono di vetro, possono essere finestre e specchi. A volte si ha bisogno di guardare fuori dalla finestra e ammettere che il mondo può essere bello, altre volte si ha bisogno di guardarsi allo specchio e di sentirsi bene. Frank fece qualche passo in avanti e premette forte sul campanello per qualche secondo, ignorando il reflusso di emozioni e pensieri che saettavano nel sangue improvvisamente pompato con vita e potenza in ogni capillare del suo corpo. Fottuta adrenalina. Spero solo che mi venga ad aprire Gerard, quanto sarebbe imbarazzante altrimenti. In quei pochi secondi di incipiente attesa che sembrano sempre durare troppo, cercò di ignorare la tempesta di neve in testa e di distrarsi. Si chiese quale accessorio natalizio si sarebbe messo Bob. Sicuramente qualcosa di estremamente ridicolo. La porta si aprì non appena Gerard si fosse accertato della presenza di Frank, il quale venne accolto da un sorriso del ragazzo. Prima di abbracciarlo, lo guardò un attimo negli occhi, sentendo una rincuorante stretta al petto. Sì, il riflesso di una pallida stellina c'era ancora. Lo travolse in una stretta, buttandogli le braccia al petto ed affondando la faccia nella profumata lana del suo maglione verde scuro, che accentuava le pagliuzze come foglie vive nei suoi occhi. Sentì un'eguale stretta attorno al torace, che lo tranquillizzò all'istante. Ora andava bene. Ora si immaginava la finestra e lo specchio, e gli pareva il riflesso di un mondo idilliaco. Andava bene. Non si accorse neanche che quando si sporse per baciarlo lui lo evitò girando la guancia, che si scontrò tiepida contro le sue labbra. A volte lo facevano. Si staccarono.
«Dannazione, fuori si gela, sei un pezzo di ghiaccio.» aprì la porta di più, facendo uscire un po' del calore del luogo. «Entra prima che il tuo sistema immunitario decida che un raffreddore è la cosa migliore da fare.»
«Aspetta» ancora sulla soglia, lo interruppe, porgendo ad un Gerard stupito un pacchettino male incartato. Alla fine gli aveva trovato un regalo, e ne era piuttosto contento, per quanto l'incarto ricordasse il cervello di un'iguana. Non che avesse mai visto un'iguana. Comunque gli aveva portato un regalo. Era già riuscito a darlo a Mikey, Ray, Jamia e Bob. Lui era l'ultimo che mancava, e quello a cui teneva di più. «Tieni, ti ho fatto un regalo. Anche se mi hai detto di non portarlo. Avanti, prendilo, non è un chihuahua incazzato, puoi tenerlo in mano.»
Gerard rimase un paio di secondi a guardare il pacchetto con un'espressione indecifrabile. Ecco, Frank aveva sempre paura in quei momenti ed in un certo senso ne era tremendamente affascinato, quando dietro gli occhi vivi di Gerard calavano le serrande. Ma poi sbocciò un sorriso e lo prese, facendogli spazio sulla soglia, e per quanto Frank volesse soltanto cingerlo con un braccio o stringergli la mano, si trattenne e fece un passo in avanti, chiudendosi la porta alle spalle. Solo dopo che si fosse levato lo scaldacollo dalla faccia volse lo sguardo verso il gruppo di persone che animavano il salotto con quella serenità tipica degli esseri umani a loro agio. Riconobbe i suoi tre amici e Bob in un secondo, e fece appena in tempo a rispondere ai loro saluti che un'altra figura, seduta su una poltrona intenta a chiacchierare tranquillamente con due ragazzi che non conosceva, catturò la sua attenzione. Si fermò con le mani sullo zip del giaccone. Lindsey.
«Accompagno Frank a posare la giacca e torno.» annunciò Gerard, poggiandogli una mano sulla spalla e avvicinandosi al corridoio. Frank era ancora piuttosto sbigottito, ma prima di sparire dietro l'angolo incrociò lo sguardo della ragazza, e dentro di sé venne assalito da una nuova ventata di neve. La porta della camera di Gerard si richiuse dietro le loro spalle. La camera era esattamente come Frank se la ricordava, solo che ora era stesa una coperta in più sul letto sfatto, di un indaco colore del dormiveglia. Da dietro percepì le braccia di Gerard stringerglisi attorno ed abbassargli la cerniera, per poi sfilargli con cautela l'ingombrante indumento e prendere una delle tante stampelle dall'armadio, mettercelo sopra ed appenderlo accanto ad un'altra decina di giacconi. Frank si era incantato a guardare la fiammella che guizzava allegra in una candela profumata sul comodino, lanciando iperboli di fuoco sulle pareti scure, che se non fosse stato tanto assorto si sarebbe quasi spaventato quando Gerard tornò da lui e lo baciò. Frank si arrese a se stesso e ricambiò quella lenta e assorta pressione di labbra, che faceva sembrare la neve un po' meno fredda e mordente.
«Finalmente posso salutarti decentemente.» disse infine Gerard, poggiandogli le mani sulle spalle, carezzandogliele da sopra il maglione pesante. Frank sorrise appena, perché per la prima volta i fiocchi di neve nella sua testa stavano mormorando frasi di senso compiuto. «Mi dispiace per prima. Come stai?»
«C'è anche Lindsey?» okay, quella non era esattamente la risposta che avrebbe voluto dare, ma gli sfuggì dalle labbra, sperando che non avrebbe turbato il ragazzo, il quale cambiò espressione, tirando un po' le tende dietro i suoi occhi nocciola. Rimase in silenzio, come analizzando le parole della frase. Frank trasse un respiro tremolante, cercando di tradurre sensatamente i gelidi e biancastri bisbiglii della neve che gli vorticava silenziosa attorno. «Oggi ci sarà anche lei con noi?»
«In realtà sì, ho invitato anche lei, dopotutto nonostante ci siamo lasciati rimane una persona a me cara e avrei voluto fartelo sapere prima ma mi ha confermato proprio stamattina e... spero non ti dia fastidio.»
«No, assolutamente.» chiarì sinceramente, per quanto non poteva negare una punta di gelosia e paura. «Cioè, forse un po' sì, ma esclusivamente perché mi potrei sentire un po' a disagio visto che si tratta della tua ex ed io socialmente ho l'utilità di un fazzoletto appallottolato in fondo alla tasca e non vorrei che si causassero dei problemi. Nessuno sa che noi... insomma, che stiamo insieme, dopotutto.» ammise, un po' impacciato. Non si era mai impegnato per dirlo a qualcuno, ed ora con la prospettiva di un'intera giornata davanti a conoscenti vari con Gerard accanto non sapeva come avrebbe dovuto agire. Non voleva rovinare quell'equilibrio che gli pareva così perfetto a prescindere o meno dalla sua presenza, ma al contempo non voleva fingere. Non lo trovava giusto.
«Aspetta, parliamone un attimo.» Gerard gli prese la mano e lo portò fino al letto, dove si sedettero l'uno vicino all'altro dandosi la faccia, senza tuttavia lasciare la stretta delle loro mani. La tentazione di sdraiarsi accanto a lui e semplicemente dimenticare insieme il mondo era tanta, ma sapeva che in una relazione era importante anche il dialogo, non solo quello basato sul linguaggio fisico, ci sono concetti che non possono essere espressi con baci e tenerezze, ma con parole e discorsi, a volte perfino discussioni, e trasmetterlo in un altro modo sarebbe stato controproducente. Agganciò lo sguardo con quello di Gerard, di nuovo in quella bolla eterea che apparteneva solo a loro, e quello cominciò a parlare. «Allora, partiamo col fatto che delle persone che stanno di là alcune sono conosciute da entrambi, alcune sono in rapporti migliori con te, altre con me. Devi sapere che io non l'ho detto a nessuno che ci siamo messi insieme. A nessuno. Forse Mikey avrà capito qualcosa, ma perché ha un rapporto stretto con entrambi ed è difficile nascondergli qualcosa. In ogni caso, dalla mia bocca non è mai uscita una parola su noi due. E prima che tu vada a pensare chissà cosa sul fatto che non tenga abbastanza a te o che io non ti a... insomma, non ti ammiri o non ti ritenga degno di menzionarti agli altri, lascia che ti dica che l'ho fatto per te. Perché non ne abbiamo mai parlato di ciò, abbiamo fatto tutto un po' di fretta nella nostra relazione, ci siamo baciati in poche settimane, in meno di tre mesi ci siamo messi insieme e da subito il sentimento verso di te era estremamente forte, ma non è questo il punto. Ho imparato a conoscerti, dentro di me ti ho rivoltato come un calzino innumerevoli volte, pensandoti di giorno e sognandoti la notte nelle più svariate delle maniere, cercando di analizzarti e conoscerti, e se c'è una cosa che ho capito dalla prima volta che ti ho visto, con le mani coperte e lo sguardo cauto ma penetrante, è che sei una persona riservata. Quello che siamo riguarda entrambi, e non voglio prendere iniziative che hanno a che fare con te senza prima accertarmi che per te vada bene, che ti faccia stare bene, perché fare il contrario equivarrebbe a ferirti, l'ultima cosa che voglio farti. Per questo non ho mai parlato di noi, perché non so se per te sarebbe andato bene. Se preferisci che si sappia o no, e non avendotelo mai chiesto direttamente non lo so, e non mi sono mai azzardato per paura di sbagliare o romperti tra le mie stesse mani. Tuttavia, stiamo per passare una giornata insieme anche con altre persone, ed è fondamentale che io lo sappia, che cosa tu preferisca che si faccia. Te la senti di rimanere pubblicamente come siamo in privato? O preferisci che lo manteniamo per noi?» durante tutto il discorso la mano libera di Gerard non era mai stata ferma un attimo, se per rimettersi apposto una ciocca d'ebano dietro l'orecchio, per sfiorargli lo zigomo enfatizzando i concetti, se gli ricadeva a peso morto in grembo, ed idem per i suoi occhi, che pur rimanendo ben incollati sulla sua figura - viso, labbra, torso, mani congiunte - non si soffermavano per più di due secondi sullo stesso punto. Era palesemente agitato, un po' nervoso a dirla tutta, come un bambino alla sua prima interrogazione che ha studiato tutto, ma che ha paura delle domande in quanto esame della sua conoscenza. E anzi, Frank era contento che Gerard stesse affrontando con lui la questione, e che lo rispettasse a tal punto. Gerard era la sua persona e lui sentiva di essere la persona di Gerard, senza tanti dubbi o incertezze varie, era questo il punto. Era diverso, semplicemente, come se l'era immaginato ma proiettato sulla realtà, il che lo rendeva paradossalmente quasi surreale. L'astratto nel concreto. Gerard prese di nuovo parola. «Davvero, dimmi cosa ne pensi, ho bisogno di saperlo.»
Frank aspettò due secondi prima di respirare e alzare di nuovo lo sguardo in quello di Gerard. «Voglio smetterla di fingere davanti agli altri, o comunque celare la realtà dei fatti. Non voglio, mi sembrerebbe falso nei loro e nei nostri confronti.» asserì.
«Ne sei sicuro? Se hai paura che significhi esporsi troppo non devi forzarti.»
«Assolutamente no, voglio farlo. Mi sembra giusto.» fu ancora più fermo nella sua decisione quando vide un sorriso fare una fugace comparsa sulle labbra di Gerard. Era una certezza, un brandello della loro intesa non fisica che trapassava le barriere della coscienza di Gerard. A Frank piaceva cogliere quei segni impalpabili, era come poter leggere al contrario un testo scritto sul retro di una pagina a causa della sua sottigliezza. «Insomma, ho il migliore ragazzo della Terra.» frase a cui Gerard ridacchiò, dandogli una stretta di conferma alla mano. «Non me ne frega un cazzo che gli altri lo sappiano o meno, cioè forse sì, ma non cambierebbe tra noi, rimarremo così, e saremo così anche per gli altri, ed è strano, ma credo che tu riesca a capirlo.»
«Sì, lo capisco, è la stessa cosa anche per me.» per un attimo si guardarono, sorridenti ed ignari l'uno per l'altro, e a Frank parve che Gerard volesse aggiungere qualcosa, ma nei suoi occhi vedeva soltanto il suo riflesso, le guance tinte di una lieve tonalità rosa pastello a causa dello sbalzo tra il freddo di fuori ed il caldo di dentro e tutte le emozioni che lo avevano attraversato come la luce che si butta in un bicchiere di vetro. Ora si sentiva tranquillo, per quanto avrebbe dovuto essere agitato del coming out. Non lo era. Era semplicemente mano per mano con Gerard, era tranquillo ed il suo cuore batteva ad un ritmo regolare. Andava bene. Le parole mancate di Gerard sembrarono riempire col loro celato significato lo spazio attorno a loro. «Allora va bene così, andiamo di là e o glielo diciamo o aspettiamo che qualcuno lo capisca. Okay?»
«Okay.» Frank si chinò e lo baciò, le mani sui suoi fianchi e la leggerezza nell'animo. E per Frank fu un bacio bellissimo, non riusciva a pensare a nulla, la sua mente era come uno stralcio d'azzurro cielo primaverile con qua e là delle nuvolette di cotone bianco, paffute e leggiadre, l'azzurro intenso ed infinito, luce propria sul vasto spettro del blu. Peccato che quel momento venne interrotto da un paio di colpi sulla porta, e Frank si staccò da Gerard, voltando il viso verso destra. Sentiva le guance in fiamme e le labbra un po' gonfie, ancora con il sapore e la saliva di Gerard a proteggerle.
«Siete ancora qui dentro? È successo qualcosa?» domandò la voce di Bob dall'altra parte del muro. Gerard mise a posto il pacchetto male incartato, si alzò e si rimise apposto il maglione sui jeans.
«Hai ragione, arriviamo subito.» nessuno dei due perse tempo a mettere su due piedi una scusa, non era necessario. Frank invece accettò la mano di Gerard e si rimise in piedi, poi con un sorriso lanciò uno sguardo ad uno specchio appeso alla parete prima di raggiungere la porta con l'altro, a cui lasciò andare la mano. Era un po' spettinato e le labbra recavano ancora i segni del bacio, ma non se ne preoccupò. Uscì invece dalla stanza assieme a Gerard, con l'impressione di stare ancora camminando in quel cielo primaverile, così sensibile da non poter essere scalfito dal mondo di sotto, che appariva così innocuo e lontano, e talvolta poteva essere un bambino, e a testa in giù imparare a dare forma agli alberi.

In salotto raggiunse quasi immediatamente i suoi amici, non prima che Bob lo ebbe placcato e strapazzato in un abbraccio che minacciò seriamente l'integrità delle sue costole. Inoltre il ragazzone indossava un orribile e kitsch cerchietto natalizio munito di corna di cervo, che oltre a lanciare un messaggio non propriamente positivo, gli alterava i movimenti. Frank ricordava con orrore qualche anno prima, quando a capodanno i Bryar erano venuti a festeggiare dagli Iero con alcuni amici in comune, ed il suddetto palco da cervo si era incastrato nel paralume, con disappunto di Linda e divertimento di Frank, il quale non sapeva perché Bob si ostinasse ad indossare quell'affare. Salutò per primi Mikey e Ray, poi si voltò verso Jamia. Guardandola negli occhi un po' dell'azzurro sparì. L'ultima volta che si erano visti in quattro l'aveva riaccompagnata a casa, e sulla soglia aveva parlato con lei. Su quello. E affrontare la realtà era bello, ma portava sempre a delle conseguenze, spesso a lungo termine. Eppure, anche quella sensazione gli scivolava un po' addosso sulla pellicola di ghiaccio, facendolo sentire ancora più in colpa.
«Ciao Jamia.» disse, evitando di sporgersi troppo in là. Lei sorrise pacata.
«Ciao Frank.» rispose, alzando un attimo gli occhi al cielo prima che questi ripiombassero pesantemente verso il pavimento. «Ti dispiace se parliamo un po'?»
Fino a quel momento, nella gola gli era parso di avere l'esatta antitesi di un groppo, che però gli si strinse stretto nella trachea al solo sentire di quelle parole. «Certo che possiamo.» Jamia lo prese per un braccio e lo scostò verso la parete, dando le spalle al resto della stanza e a Mikey e Ray, troppo impegnati per accorgersi dei due (Mikey stava cercando di convincere l'altro che venti pretzels erano troppi da mangiare in una volta sola). La ragazza gli piantò gli occhi in faccia, erano gelidi, due lastre di rame sotto lo zero. «Senti, non c'è bisogno che mi tratti come un'estranea, renderebbe la situazione solo peggiore, puoi salutare anche me come faresti con gli altri.»
Frank incassò il colpo, esitando un attimo prima di replicare. «Mi dispiace... Non vorrei ferirti o-»
«Lo so, lo so, solo perché mi piaci ma io non piaccio a te non vuoi darmi false speranze o farmi del male perché sono un coccio di vetro. Che idioti che siete.» Jamia sospirò. Segretamente, Frank si chiese da dove prendesse tutta quella forza di volontà. Si vedeva che in fondo non le stava facendo piacere fare un discorso del genere, le mani così strette, quasi rigide, ma la determinazione e l'onestà nelle parole erano altrettanto palpabili. «Non voglio che le cose cambino tra di noi, e sono sincera. Per lo meno sei stato onesto con me, e lo apprezzo, significa che siamo abbastanza in sintonia da permetterci una cosa del genere. Insomma, se dicessi che non mi ha comunque fatto male mentirei, perché tu mi piaci abbastanza, ma per ricucire una ferita devi metterci i punti, e l'ago nella pelle fa male. Però passa. La ferita si rimargina, le emozioni passano. Soltanto non voglio cambiare quello che si è evoluto, in bene, tra di noi. Non mi prendere per patetica. Come sempre, ti sto mettendo il mio cuore in mano, perché so che non lo maltratteresti mai con l'intenzione di farmi del male, quindi ti chiedo, per favore, di non cambiare le cose tra noi, perché tengo a te, davvero tanto, e sono contenta di averti conosciuto. Mi passerà, okay? Credimi, solo, per favore, non trattarmi come una paziente o una malata, come se avessi un morbo. Non sono un sasso pesante così come non sono un fragile cristallo di ghiaccio. Sono Jamia, una persona, ed una persona puoi sia accarezzarla che stringerla, sopporta entrambi. A volte si rovina un po', ma a ricordarglielo la fai sentire peggio e basta. Non trattarmi come un'aliena, ma come faresti sempre. Sono la tua amica, Jamia, a prescindere da ciò che mi piace e non, e sono capace di sopportarlo senza problemi, e trattami come ciò.» concluse lei, calcando su ogni singola sillaba per enfatizzare il concetto, con quella sua insolita abilità di espressione che coinvolgeva viso, occhi, mani. La conversazione cadde mentre in controscena, come sempre, la vita continuava alle sue spalle. Frank si morse il labbro, sentendosi come un colpevole di un crimine assolto al giudizio, in cui Jamia era il suo stesso avvocato. Era che non sapeva veramente cosa dire, era sia desolato che in soggezione, e con la consapevolezza di essere nella ragione rendeva solo un po' peggiore il groppo alla gola ed il vuoto nel petto, che però apparivano distaccate, quasi vissute in terza persona.
«Hai ragione. Mi dispiace se ho lasciato intendere un comportamento del genere. Non è una situazione facile per me, non so cosa fare, ed il fatto che tu mi capisca e lo accetti non mi aiuta, non so perché, però te ne sono grato.» ed era un casino di parole, ma Jamia parve capire.
«Capisco come ti possa sentire, e non importa, va davvero bene così. Abbraccio?» propose lei, alzando un sopracciglio ed allargando le braccia, stringendole attorno il magro torso di Frank quando lui annuì, buttandosi grato nella stretta dell'amica. Ci stava provando davvero, quell'abbraccio irradiava una forte sensazione ed il ragazzo pensò di essere davvero fortunato ad avere un'amica del genere. «E poi comunque la situazione è strana.» riprese Jamia, sciogliendo la stretta con una nuova luce negli occhi. «Sai, avrei voluto comunque parlartene, perché credo che anche prendermi una cotta per te mi abbia aiutato a capre delle cose, e le sto processando solo ora e devo ammettere che mi sembra strano ma non riesco a fare a meno di pensarci da un po' di tempo a questa parte e-»
«Ehi, piano, fa' piano.» la fermò Frank, mettendole le mani sulle spalle, rigide e tese. «Vuoi dirmi di che si tratta?»
«Dovrei mettere un freno alle parole, non è vero?» ridacchiò lei tra sé e sé, poi prese fiato con un'espressione abbastanza seria. «Ecco, è che non so davvero come dirlo perché non ne ho parlato con nessuno nessuno quindi non... insomma, per farla breve, io credo di essere bisessuale.» l'ultima frase venne pronunciata quasi sottovoce, e a Frank parve che per un attimo le iridi marroni di Jamia fossero guizzate verso Lindsey, a gambe accavallate e viso scaltro e sorridente sulla poltrona.
«E allora? Non è un problema Jamia, se ti piacciono anche le ragazze.»
«Ci mancherebbe pure che fosse un problema.» sbottò lei con un sorriso. «Però volevo dirlo a te, un po' l'ho capito e credevo che dirtelo mi avrebbe aiutata.»
«Certo, se ti fa stare meglio va bene così.» rispose lui, cercando di rassicurarla, ma un piccolo ostaggio si era agganciato al suo cuore. Sentiva di dover dire anche lui una cosa a Jamia, glielo doveva. Una spiegazione in più, qualcosa di scarno, ma un gesto di fiducia che sentiva assolutamente di dover fare, per ridurre l'eco della colpa nell'incavo di ghiaccio al posto del suo cuore. Per quanto gli sembrasse idiota e irrazionale, sentì il bisogno di dirla, a lei, la realtà dei fatti. «Voglio dirti anche io una cosa.»
L'attenzione di Jamia venne nuovamente rivolta a lui. «Dimmi.»
«Ecco, io in realtà, forse c'è anche una ragione-» non aveva pensato a come fare, e le parole si accavallavano l'una sopra all'altra, seguendo il filo dell'impulso e non quello della ragione. Eppure sentiva di star facendo la cosa giusta. «Allora, ha sempre a che fare con quella cosa. E probabilmente se non fosse successo il presente non sarebbe come è ora. Hai presente Gerard?» la ragazza annuì, e lui prese il coraggio per dirglielo in una botta sola. «Stiamo insieme.»
La sua espressione mutò, ed il suo viso scattò verso Gerard, alle loro spalle intento a ridere con Mikey, poi si piantò di nuovo su Frank, al quale parve di poter vedere gli ingranaggi che scattavano e si allineavano nella mente di Jamia. Le ci vollero dei secondi prima di parlare di nuovo. «State insieme? E da quando?»
«Da quasi tre settimane. Mi dispiace di non averne parlato a nessuno prima, non sapevo come fare, e poi forse la situazione sarebbe stata peggiore, immagino.»
«E sei felice?» domandò lei, inarcando le sopracciglia con aria inquisitoria.
«Sì.» ammise, mordendosi un labbro, sorridendo involontariamente quando da qualche metro più avanti per un secondo Gerard incrociò lo sguardo con il suo. «Molto.»
«Allora va bene.» replicò Jamia, per quanto si sentisse che comunque fosse un po' ferita. «Apprezzo la tua onestà, e lo capisco.» lei mise su un sorriso, ed un po' Frank si sentisse mortificato, però in uno sprazzo blu di cielo primaverile.
«Mi dispiace, che sia un po' tutto incasinato.»
«Non importa. Il caso è fatto così, senza logica o regole.» Jamia lanciò un'occhiata critica al tavolino sommerso di cibo. «Mi accompagni a prendere qualcosa da mangiare? Giuro che sto morendo, e poi magari ricordiamo ad afro boy e la sua ansiosa comare della nostra esistenza.»
I due si allontanarono dal muro e tornarono in mezzo agli altri, con qualche peso in più o in meno, e dopo due manciate abbondanti di patatine si unirono agli altri. Frank notò che gli occhi di Jamia si soffermavano a lungo su Gerard (il quale si era istantaneamente messo alla sua destra), ma senza nessuna emozione in particolare, e si ripeté da solo che aveva fatto bene a dirglielo. Alla fin fine, Frank si trovò bene a casa di Gerard, fu aiutato molto dalla presenza di persone la cui maggior parte era conosciuta e dalle due o tre bottiglie di vino rosso sul tavolo degli aperitivi: sapeva di reggere bene l'alcol, ma un po' lo aiutava comunque nell'estroversione, e pur non avendo bevuto così tanto (in ogni caso il vino gli piaceva) sentiva che quella serenità arancione di zucche e candele era schizzata con del profondo rosso vinaccia, donandogli una sorta di piana ed incoerente felicità. Anche Jamia aveva riacquistato il sorriso, e Frank si impegnò a non darci più peso del dovuto, e le poche volte in cui si alzava dal divanetto per prendere un altro stuzzichino o riempirsi di nuovo il bicchiere gli capitava di sfiorare la mano di Gerard passandogli accanto, allora si guardavano un attimo negli occhi e Frank stava bene, per quanto l'occasione di rivelare la loro trama sottostante non arrivò fino a tre o quattro ore dopo l'arrivo di Frank, quando Bob aveva decretato ad alta voce che l'atmosfera si stava scemando ed era riuscito ad ottenere il permesso di mettere su The Masterplan degli Oasis.
«Ho l'onore di annunciarvi che a capodanno siete invitati tutti a casa mia, darò una festa.» annunciò senza tanti preamboli sulle note di Rockin' Chair, sollevando un coretto allietato di vari ringraziamenti. Bob poi si volse verso i due ragazzi che Frank non conosceva, che stavano evidentemente considerando l'offerta. «Siete invitati anche voi, mi pare ovvio, però prima mi piacerebbe fare la vostra conoscenza.»
«Io sono Shaun Simon.» si alzò il ragazzo dal viso serio, andando incontro a Bob, seguito prontamente dall'altro, che pareva la fotocopia di Freddie Mercury, il quale gli porse la mano con un sorriso scaltro e gioviale.
«Mi chiamo Luke Spiller. Tu sei Bob?»
«Bryar, sì, compagno di liceo di Gerard e suo vecchio amico. Voi?»
«Ci siamo conosciuti alla scuola d'arte e siamo rimasti in buoni rapporti, tutt'ora abbiamo alcuni concept in comune.» spiegò Shaun, scrutando Bob. «Gerard ti ha menzionato qualche volta, per questo non mi sono presentato subito.»
«Io invece sono suo compagno di corso, anche se non si direbbe.» disse Freddie Mercury 2.0 appena prima che Gerard uscisse dalla cucina, dalla quale era andato a prendere delle tartine, e si accorgesse dalla scena.
«Oddio, scusatemi, non mi ero accorto di non avervi presentati a nessuno.» esordì, spalancando gli occhi nocciola con aria mortificata.
«Ti pare, era un secolo che non vedevamo Lindsey e ci ha fatto piacere starci un po'.»
«È stato un piacere anche per me!» gridò Lindsey dal tavolino, dove si stava riempiendo il bicchiere di vino. Frank si volse un attimo verso la ragazza, in gonna e calze strappate anche a dicembre. Quando la aveva salutata dentro di sé stava un po' morendo di vergogna, ma lei gli aveva sorriso e aveva fatto una battuta sul fatto che dato che non era morto d'ipotermia prima, avrebbe con ogni probabilità superato quell'inverno. Al solito insomma. Frank non voleva immaginare che lei potesse essere incazzata per quello che era nato tra lui e Gerard, il quale stava ancora impalato con le tartine in mano.
«Luke, Shaun, venite con me e cercate di farmi rimediare perlomeno.» si riscosse e posò le tartine sul tavolino, prima di scarrozzare in giro i due a presentarli agli altri invitati, con alcuni dei quali magari avevano già scambiato due parole. Frank si era messo in un angolo buio sotto la finestra per rispondere ad un messaggio, così fu l'ultimo del quale Luke e Gerard si accorsero - Shaun si stava intrattenendo con Bob e Mikey nello stesso gruppetto di Lindsey, Ray e Jamia, che avevano iniziato a conversare distogliendo così l'attenzione di quest'ultima dai suoi pensieri -, anche a causa della scarsa luminosità che penetrava dalla finestra, ritraente un cristallino cielo al crepuscolo. Fece appena in tempo a farsi scivolare il telefono in tasca che Gerard ed il suo amico gli furono accanto. «E lui è Frank.» lo presentò Gerard, con un cenno della testa. Frank moriva dalla voglia di rimettergli apposto le ciocche scivolategli come piume nere sul viso a causa del gesto.
«Piacere, sono Luke.» lui gli porse la mano recante anelli e bracciali di cuoio al polso, ed il ragazzo allungò la sua, stringendola forte.
«Frank.» incrociò lo sguardo di Gerard, ed un impulso quasi elettrico scattò nella semioscurità serale. E siccome Frank aveva imparato a leggere quel linguaggio inconscio, gli parve di capire l'accordo comune, posto con un semplice invito indiretto degli occhi nocciola. Accettò d'impulso e guardò fisso negli occhi Luke, con un sorriso sicuro. «Il ragazzo di Gerard.»
«Grande, amico.» esclamò Luke, voltandosi verso il maggiore e dandogli una leggera pacca sulla spalla. «Non sapevo ti fossi rimesso con qualcuno.»
«Chi si è messo con chi?» chiese ad alta voce Bob, facendo voltare il resto delle persone presenti verso di loro, creando un cambio d'atmosfera repentino come quello tra dentro e fuori casa. Frank era diviso tra una sorta di gioia orgogliosa ed una vergogna mortale che lo soffocava ogni qual volta diventasse un polo del campo magnetico dell'attenzione, mentre Gerard era sia impacciato che tremendamente e timidamente innocente nel complesso della situazione che ogni volta faceva soffermare lo sguardo di Frank un secondo in più su di lui. Davanti a loro, Luke pareva agire da mediatore tra l'ignoto e la scoperta.
«Gerard e... Frank, giusto?» lui annuì, più sicuro di sé.
«Vi siete messi insieme?» domandò Mikey, sul cui viso Frank poté ammirare una parvenza di espressione facciale.
«Ecco, in realtà sì.» confermò Gerard, mentre sei paia d'occhi si fissavano sulle loro due figure e Frank aveva l'impressione che le stessero tagliando e sezionando per incollarle l'una di fianco all'altra ed analizzarle, processo estremamente snervante per l'oggetto di osservazione.
«Io l'avevo capito.» mormorò Ray, leccando una forchettina di plastica. Mikey sembrava ancora star processando l'informazione, come tutti, tranne Jamia che si guardava un po' spaesata attorno. Frank fu grato di averglielo detto in privato, con calma e riservatezza. Spostò lo sguardo su Lindsey, il cui sguardo era calcolatore ed inespressivo.
«Ma da quando? E perché nessuno ci ha mai detto nulla?» riprese Mikey, in preda alla confusione.
«Praticamente tre settimane. Non volevamo ancora ufficializzarlo.» spiegò Gerard in tono pacato, spostatosi a fianco di Frank. «E poi in realtà non sapevamo come dirlo.»
«In realtà temevo, ma credo valga anche per Gerard, una reazione negativa.» prese parola Frank, guardando timidamente le persone a qualche metro da lui. Stavano facendo il loro coming out, e Frank si sentiva troppo calmo e tranquillo perché fosse vero. Per la prima volta era onestamente e sinceramente sicuro di sé, conscio di ciò che era, ma non come un peso, semplicemente come se stesso.
«Be', un "ci siamo messi insieme" sarebbe bastato. Però non è una reazione negativa, ci mancherebbe altro. È solo che tu sei il mio migliore amico e tu mio fratello, insomma, mi ci dovrò abituare.» Mikey scrollò le spalle, riassumendo un'espressione neutra. «Rimanete i miei due nerd preferiti.»
«Lindsey?» Gerard si rivolse alla ragazza, rimasta seduta sul bracciolo della poltrona senza aver effettuato il più minimo movimento.
«Mh?»
«Mi dispiace.»
«E di cosa?» rispose lei annoiata, inarcando le sopracciglia. «Dai, in fondo la vita va avanti, non c'è alcun problema. Fai solo attenzione a quando lo abbracci, lo scricciolo è piuttosto fragile.» prese un sorso dal bicchiere che aveva in mano, e per quanto fosse l'incarnazione della nonchalance Frank riusciva a percepire un fondo di amarezza nelle sue parole, nei gesti, nel commento. Era normale, lo capiva, lo percepiva empaticamente e lo comprendeva. Tuttavia Frank dovette ricordare a sé stesso che non aveva alcuna colpa se non di essere umano e legato alle emozioni. Fortunatamente il commento aveva disteso il clima.
«Comunque sono contento per voi.» intervenne Mikey, di fianco a Jamia. Lei sorrideva.
«Sì, anche io.»
«Mi aggiungo.» concluse Bob, facendo oscillare pericolosamente le corna da cervo mentre annuiva tra sé. «Mi farà strano vedere insieme il mio migliore amico delle elementari e del liceo insieme perché ho ricordi imbarazzanti di ognuno dei due e non potrò fare a meno di ricollegarli, tipo Frank che a sette anni beve lo yogurt dal naso e Gerard che per sbaglio a quindici si è tinto di verde, ma immagino che il problema in questione sia solo mio.» a quelle immagini risero tutti, compresa Lindsey, e a Frank parve che fosse tornato l'azzurro. Cercò la mano di Gerard e gliela strinse forte, per poi guardarlo negli occhi e sorridere con tutto il viso. Negli occhi specchio-finestre di Gerard vide se stesso e loro due, insieme. Ce l'avevano fatta. Si vedeva felice, e si sentiva sinceramente tale, arancione e azzurro come il cielo che declina verso il tramonto. Pensò che l'emozione tanto forte che si manifestava ogni volta con Gerard non sarebbe mai potuta essere così intensa. «E poi comunque al mio festino di capodanno ci potete pure venire in coppia.»

«Certo che fa veramente freddo.» borbottò Frank contro il petto di Gerard, dove giaceva il suo viso. Lo volse verso l'alto, impregnandosi le guance di un penetrante aroma di caffè e grafite e piantò gli occhi in quelli dell'altro ragazzo, che gli sorrideva serafico carezzandogli schiena e fianchi. «Intendo proprio freddo.»
«Hai già una mia felpa indosso, sopra al tuo maglione se necessita di essere ricordato.» Gerard alzò appena la testa sul cuscino, il gioco di linee e curve in controluce schizzato dalla liquida luce color albicocca delle candele. Giaceva supino sul letto, e Frank stava in una qualche maniera aggrovigliato al suo fianco con torso e testa sopra il suo petto, senza la minima intenzione di spostarsi.
«Ho freddo.» ribatté laconico, facendo un enorme sforzo per piegare le braccia ed incrociarle sul petto di Gerard, poggiandoci sopra la testa per poterlo guardare negli occhi, attraverso quella cortina di serena e speziata luce arancione. Stavano in camera da letto di Gerard, senza nulla in particolare da fare, dato che tutti gli ospiti se n'erano andati via circa quaranta minuti prima, ossia un'oretta dopo il loro "annuncio". E Frank ne era contento, molto, era stato cosciente della sua sicurezza e della sua felicità con Gerard ed essere riuscito a dirlo agli altri lo aveva reso un po' più orgoglioso e tranquillo. Niente più bugie bianche, semplicemente loro due, fuori e dentro il fascio di luce. Lui tuttavia non era andato via con gli altri, e non aveva l'intenzione di farlo per un po'. Aveva aiutato Gerard a rimettere tutto in ordine, poi erano andati in camera da letto e si erano semplicemente dedicati un po' a se stessi a vicenda, senza davvero pensare a nulla. Ad una certa si erano trovati aggrovigliati sul letto con capelli arruffati e le labbra tumide e rosee per i baci che si erano scambiati e gustati con lentezza, al che Frank si era lamentato dei cinque gradi di temperatura fin quando Gerard gli ebbe dato libero accesso all'armadio, dal quale aveva afferrato una felpa degli AC DC e si era coricato, semi assopito. Era una serata stupenda, con le candele accese ad increspare le innumerevoli pieghe del lenzuolo e dei loro vestiti stropicciati di minuscole onde dorate, ed il cielo di un cobalto freddo e cristallino al di fuori della finestra. Neanche il suo Natale mancato lo disturbava, neanche suo padre, il casino della sua vita era chiuso a chiave fuori dalla porta, dove Gerard non li faceva entrare.
«Vieni qui.» disse Gerard prima di avvolgergli le braccia attorno all'addome e stringerlo. Frank percorse con gli occhi la linea di luce ed ombra che scorreva regolare sul suo naso alla francese, evidenziava la curva delle labbra e degli zigomi e si mischiava ai capelli, creava una falce scura nell'incavo dell'iride di un verde-marrone autunno intenso, poi si sporse quel poco che bastava per far combaciare le labbra con le sue. Fu un bacio lento, come tutti quelli di quella serata, e fendeva morbidamente i suoi pensieri tramite i sensi, dispersi in quella dimensione soggettiva dove c'erano solo lui e Gerard. La vista era sopravvalutata, in certi casi bisogna soltanto affinare la ricezione del linguaggio indiretto del corpo, scoprire un po' il cuore, e a Frank questo succedeva involontariamente ormai. Si avvicinavano ogni volta poco di più. Non temeva più la collisione. Quando la pressione diminuì, Frank gli prese il viso a coppa, godendosi i suoi occhi assorti e semichiusi.
«Diciamo che ora sto meglio.» asserì, carezzandogli la guancia. «Senti, mi sono scordato di chiedertelo prima; alla fine lo hai aperto il mio regalo di Natale?»
«No, volevo aspettare te. Se vuoi posso aprirlo ora.»
«Sì, okay.» rimasero qualche secondo a guardarsi.
«Frank?»
«Dimmi.»
«Devo alzarmi per prenderlo.»
«Non mi va.»
«Allora non lo apro.»
«Non mi va neanche quello.»
«Dai, su.» gli sfiorò le labbra e lo scostò per potersi mettere seduto, al che Frank mugugnò e mezzo rincoglionito alzò la faccia dal materasso, cercando di mettersi seduto, azione difficile visto che era aggrovigliato come una mummia nel copriletto. Nonostante i capelli alla cazzo di cane e la casalinga camicia di forza si riuscì a mettere seduto a gambe incrociate nel momento in cui Gerard prese il pacchetto avvolto in una tremenda carta da pacchi beige che aveva tentato di decorare con degli adesivi di Babbo Natale risalenti a quindici anni prima. Sua madre aveva definito il risultato un obbrobrio natalizio. Gerard lo poggiò tra loro due.
«Devo preoccuparmi?» chiese, scrutando il pacchetto.
«Non fa così schifo.» si difese lui, girandolo per ottenere un'angolazione migliore. In realtà era un po' nervoso, non aveva mai fatto un regalo a Gerard e magari aveva sbagliato tutto o aveva fatto una cazzata. «Cioè sì, fa schifo, ma non così tanto.»
«Non parlo solo dell'involucro.»
«Non esplode, giuro.»
«Mi consola molto.» ribatté Gerard sarcastico, ma prese comunque la carta beige fra le mani e la strappò, rivelandone il contenuto.
«Allora? Ti piace?» domandò Frank tamburellandosi le dita sul ginocchio, già elencandosi a mente tutte le cinquantatré ragioni per cui sarebbe potuto essere un regalo di merda o la fine della loro relazione.
«È stupenda.» rispose invece Gerard, aprendo la sciarpa di spessa lana tra le sue mani e guardando il motivo di righe turchesi e nere alternate. Notando il suo sguardo mentre la esaminava compiaciuto e stupito gli fece fare un saltello di gioia al cuore. «Davvero, oltre che non ne avevo nessuna, i colori mi piacciono molto, e poi è morbidissima, mi ricorderà di te ogni volta. Grazie mille.»
«Di nulla.» disse tutto soddisfatto e gongolante Frank, ammirando Gerard che se la avvolgeva attorno al collo e la saggiava tastandola. «Ti sta bene.»
«Dici?»
«Sì, ti dona il turchese. Aspetta un attimo» gli infilò le mani tra il collo ed i capelli e sfilò questi dal nodo della spalla, che crearono un'aureola di onice attorno al suo viso. «Ecco, perfetto.»
«Grazie, davvero.» Gerard gli diede un bacio a stampo e poi si allontanò, volgendosi verso il comodino. «Anche io ti ho fatto una cosa.»
«Oh, ma non dovevi.»
«Spero che tu stia scherzando, certo che dovevo.» replicò Gerard, scartabellando nel cassetto del comodino fin quando non ne ebbe estratto con cautela qualcosa e lo ebbe richiuso. Frank lo guardò in silenzio a testa china per tutto il processo, quasi spaventandosi quando si girò. Gerard lo rimase a guardare qualche secondo, gli occhi indecifrabili a causa del buio e della densità improvvisa dello sguardo, e Frank ebbe l'impressione che le sue guance si tingessero di una lieve sfumatura rosea.
«Tutto bene?»
«Sì sì, non è... tranquillo.» mormorò, abbassando lo sguardo sul foglio infilato in una plastica trasparente, per poi poggiarglielo fra le gambe. «Ecco, per te. Spero che tu riesca a capire cosa sia.»
Frank prese titubante il foglio tra le mani, come se potesse spezzarsi o prendere il volo. Gli era quasi difficile riconoscere i tratti a china nella semioscurità, ma questi erano lame di ossidiana sul pallore della carta, e riconobbe lo stile del tratto. «È un tatuaggio.» Gerard annuì. Il disegno ritraeva due colombe l'una di fronte all'altra, lievi e panciute come due nuvole di fine febbraio, erano un semplice schizzo in bianco e nero ma risaltavano come due colombe vive e librate nell'aria. Una delle due aveva una croce sull'occhio, l'altra una sorta di benda. «Dannazione, è stupendo.»
«Vedi, in realtà l'ho fatto per noi, cioè, spero che non sia troppo ma pensando a te ultimamente ho pensato molto a quest'immagine e ci tenevo. Questa colomba sei tu, con le croci sugli occhi che ti sei tracciato come segno di reclusione la mondo, e l'altro sono io, ed ho una benda, perché è quella che mi aiuti a sfilarmi tu dal viso, sempre.» spiegò a mezza voce, tracciando i contorni neri col dito. «Ovviamente è solo un disegno, puoi decidere di mantenerlo tale o di tatuartelo, ed in tal caso pagherei io per ciò.»
«Non lo lascerei sprecato per nulla al mondo.» asserì Frank, gli occhi ancora intenti ad ammirare le due colombe sul foglio. «Però non saprei dove farlo.»
La mano destra di Gerard raggiunse il suo viso e glielo sollevò, costringendolo a guardarlo negli occhi, il ritratto autunnale di un mezzo sorriso timido e scaltro che gli dipingeva le labbra come boccioli di ciliegia. «Io me ne sarei fatto un'idea.»
«...Dove?» ma Gerard, invece di rispondergli, si chinò e lo baciò. Frank si affrettò a posare il disegno al suo fianco perché non si rovinasse, così da poter stringere Gerard a sé e schiudere le labbra per sentire la sua lingua scivolargli nella bocca ed aumentare la pressione tra i loro corpi. Le mani di Gerard scesero dalla sua testa lungo i fianchi fino a posarsi sul fondoschiena, dove rimasero determinate spostando Frank, il quale accondiscese allo spostamento e si lasciò muovere, trovandosi inginocchiato a cavalcioni di Gerard. Non ebbe neanche il tempo di penare che la situazione stava leggermente sfuggendo al loro controllo perché Gerard lo fece reclinare contro i cuscini. Frank si ritrovò sdraiato, avvinghiato a Gerard stringendogli i fianchi con le gambe ed un miscuglio color ambra in tutto l'addome, le loro bocche fuse l'una contro l'altra e le lingue che si attorcigliavano e scivolavano in una lotta infatuata, mentre le mani del ragazzo si fermarono sulle sue anche. Gerard spostò il viso e si alzò in ginocchio, tra le sue gambe divaricate, guardandolo appena dalle palpebre leggermente abbassate, gli occhi nocciola rilucenti di una propria luce profonda, e le labbra dischiuse, di un rosso lucido. Il suo sguardo si abbassò sul ventre di Frank, e lui sentì le mani stringersi all'elastico della felpa e sollevarlo con delicatezza fino all'altezza delle costole. Il tempo sembrava andare allo stesso tempo a rallentatore e troppo veloce, così come il suo respiro, ed i suoi pensieri erano immersi nel miele, immobilizzati nel riflesso dorato della semioscurità. Gerard fece lo stesso con il maglione che portava sotto, poi spostò le mani sulla pelle pallida e tirata della sua pancia, scendendo lentamente verso la valle tra le sporgenze del bacino, incuneando appena le dita con una delicatezza studiata che mandò Frank in un'estatica, conscia confusione. Le mani di Gerard si fermarono appena sopra l'inguine, immobili e decise, e tornò a guardare Frank in visto, bello come il più sensibile ed altero angelo dell'inferno. «Esattamente qui.»
E poi, come a tracciare la traiettoria dei due eterei e contrastanti volatili, le sue dita tornarono con tuta l'estenuante calma possibile verso l'elastico della felpa e del maglione che gli stringevano le costole, ed infilò le mani tra queste e la sua pelle, che Frank sentiva sensibile e quasi mandata letteralmente a fuoco, come se il poco vino bevuto gli fosse diventato un dolce fuoco nelle vene, pompato direttamente dalla sua anima che pareva essersi addensata in un una sfera di luce offuscata tra la gola ed il ventre. Frank incrociò lo sguardo di Gerard, in cui era dipinta col miele un'espressione che aveva paura a sbagliare di decifrare, eppure, come se l'uomo fosse nato con quel codice insito nell'anima, gli parve di comprenderlo. La superbia dell'amore concede il privilegio della consapevolezza di stare bene, nell'empireo dei sensi, è quasi profano abbassarlo al mondo concreto, e l'amore, essendo umano, è tuttavia profano. Quando ci si era soffermato a pensarci su in un passato lontano lo immaginava come qualcosa di sacro, quasi freddo, perché l'amore era perfetto e la perfezione non era casuale. Ma ora, con le mani di Gerard sul suo corpo, non c'era nulla di sacro o calcolato o avvicinabile alla purezza cristallina. La stretta di Gerard sul suo corpo era come un mutuale canale di energia, se se ne fosse privato si sarebbe sentito spogliato, ma a livello di sfera emotiva, non era sacra, ma non c'era altro che volesse. I loro corpi non erano illuminati e scaldati dalla luce del sole o da un'asettica lampada, ma dalla luce aranciata delle candele, un tramonto di cera innescato dall'uomo. E tuttavia anche se fossero stati fuori nella neve o nel cortile scolastico gli sarebbe andato bene, non importava dove stessero, ma il fatto che stessero l'uno con l'altro. Non si ribellò quando le mani di Gerard pretesero più spazio ed iniziarono titubanti a sfilargli la felpa dalla testa, anzi, cercò di agevolargli il movimento sollevando le braccia sulla testa. Era come una danza della quale aveva imparato a memoria i passi ma del quale si era consciamente scordato, che si eseguiva in due, e che per natura sapeva ballare. Quando il tessuto ruvido del maglione finì di sfregargli il viso cominciò a pensare di essere consapevole di ogni sua imperfezione per cui dagli altri era stato deriso ed esiliato, ma in quel momento, con Gerard, andava bene. Rimasero qualche secondo così, fin quando Frank non prese l'iniziativa e gli fece scivolare le mani su per le braccia, afferrandogli i bicipiti e tirandolo giù con lui, facendo cadere quel meraviglioso angelo nel suo mondo terreno, e di nuovo lo baciò, con più trasporto, sicurezza, una disperata richiesta d'amore e di avvicinamento, come due stelle che roteano così velocemente in una spirale di cui sono il fuoco fino a collidere e diventarne una sola. E non riusciva a pensare, la sua mente era il nulla più completo, era vetro, esisteva soltanto il presente e nessun passato riusciva a penetrarla, neanche se si sforzava, non ci riusciva, era in totale coinvolgimento con il presente e le sensazioni che permeavano la sottile cortina di pelle delimitante il suo essere. Non c'era bisogno di parlare, solo di esprimere e percepire, la parola avrebbe spezzato la carta velina, opacizzato l'ambra. Si parlavano, ma comunicavano di unione, senza bisogno di tradurre pensieri in parole ma semplicemente esprimendo il loro essere e quell'arancione rossastro che sapeva di notti passate insieme sotto un cielo di piombo blu senza stelle. E Frank non ci capiva un cazzo di tutto quanto, ma gli bastava semplicemente essere in quel momento; pensare, cercare di comprendere, concentrarsi su qualcosa che non fosse semplicemente vivere il presente, era letteralmente impensabile. Quant era bello essere consci di un corpo, ma non come un peso, come parte integrante del proprio essere, essere il punto focale di un presente altrui, sentire mani, movimenti, labbra, fiato, stoffe e la dolce energia delle fiammelle come il moto di marea per chi si ritrova fra le onde. Stretto tra le braccia di Gerard, le gambe avvinghiate e strette, il nodo delle lingue che si scioglieva le labbra che scivolavano via dalla sua bocca carica del sapore di caffè e scendevano incaute lungo la linea della mandibola, sulla guancia, ché forse con le labbra tutto il mondo era percepito diverso, troppo sensibili ed eteree per il resto del mondo sensibile, modellate per modulare pensieri in musica, create per la parte umana emotiva, sporche di bugie e di lacrime rapprese. Si avventurò giù per il collo denudato dalla sciarpa, il respiro di Gerard leggero e intenso contro la sua pelle, si fermò e baciò quell'incavo alabastrino, lo avvolse con la bocca e senza sapere bene come faceva sbocciare un fiore autunnale, una chiazza di vino su quella terrena imperfezione. «Non andartene per questa sera.» lo sentì mormorare, la voce piegata in un gemito e vibrargli la gola viva sotto la bocca. Si distaccò, sempre stringendolo a sé. Il suo maglione aveva lo scollo un po' sbrindellato, la linea della clavicola appena visibile, i capelli sparpagliati anche sul viso, sulle gote, sugli occhi le labbra dischiuse. Erano sue, Gerard era suo, e anche lui si sentiva suo, e si sentiva in imbarazzo anche a pensarlo ma nell'isolamento dell'amore poteva farlo senza vergogna né rimorsi, lo urlava dentro di sé, e c'erano soltanto loro due in quell'imperfetto ritaglio che apparteneva solo a loro. Potenti, un po' troppo fuori dal mondo e dentro loro stessi, contenti nella loro solitudine mano per mano, più umani che mai. Non c'erano alternative, e Frank si stava volontariamente gettando in quel mare, offrendosi alla mercé delle onde bluastre e del caos salmastro che nasconde le radici della terra, e ne era completamente travolto, ipnotizzato.
«Ma tu non lo capisci che io non vorrei andarmene mai?» rispose retoricamente, incredulo alla fragilità e all'inconscia, umana bellezza del ragazzo che aveva davanti. Come avrebbe mai potuto non amare Gerard, quando non riusciva neanche a spiegarlo. E lo seppe, in quel momento finalmente arrivò ad accettare l'eventualità di quel pensiero. Lo amava. Lo amava così com era, denudato della pelle stessa incollatagli sopra dalla vita, spogliato di lacrime e sorrisi, lo amava con quello sguardo che lo studiava come se nella sua mente ne stesse eseguendo un ritratto (come se ne fosse degno!) e che lo accoglieva teneramente, le sue braccia, quanto le amava, la sua mente persa, il suo passato un po' represso nel fondo dell'armadio ed un po' ancora presente nelle movenze di fondo schive, che si annullavano però quando stavano insieme. Lo amava, che il suo viso si illuminasse completamente in un sorriso di pura gioia sotto il morente sole di dicembre o che in quel momento lo guardasse con occhi di miele ed ombra, le labbra lucide e schiuse nell'illuminazione aranciata e le guance irrorate di sangue era di una bellezza arcana e primordiale, aspettando soltanto che un bacio dopo l'altro si trascinassero fino a quel punto. Lo amava, da quando lo aveva visto per la prima volta in un piovoso pomeriggio di settembre con la testa di un rosso vivo, che mano a mano era appassito nel più intenso dei neri, ed aveva contribuito a tenere in vita quel debole fiore che tra le sue mani gli pareva un'opera d'arte, lo amava come la pioggia autunnale, in ogni sua occasione, che fosse con il bavero della giacca alzato sul viso contro la neve o mano per mano su una disordinata scrivania, a grattare vecchie ferite per rigenerarle completamente dal veleno. E lo aveva sempre amato, semplicemente quest amore si era trasformato in una trama sempre più complessa, dai delicati intrecci e ricami che li avevano legati nel presente, fino a ritrovarcisi a piè pari, e non si accorgeva che poteva essere una trappola, guardandolo, non lo era. Lo amava nella più semplice e primordiale delle maniere, con la stessa intensità che lega le minuscole e vaganti cariche quantiche positive e negative, sul cui legame si basa l'intero universo. Lo amava, e lo capì in quel momento, e glielo disse, lo baciò e sillabò quelle poche lettere con l'irruenza della disperazione, e mano a mano divenne sempre più dolce, rassicurante. Si spogliarono dei loro vestiti e degli involucri che li proteggevano dagli altri, non servivano superficialità mondane in quell'atmosfera di contrasti tra ambra, porpora e carbone in cui impararono a conoscersi. E quando senza più alcun indumento addosso le loro mani furono libere di scivolare senza barriere sul corpo dell'altro, di sentire empaticamente quella radiazione cosmica di fondo che si espandeva sotto l'epidermide, sentì come se una morsa gli si fosse aggrappata alle viscere, e tra la sua anima ed il corpo ci fosse una nebbiolina che offuscava e rendeva più dolce ed arcano il prodotto dei sensi. Labbra e mani sul suo corpo, sulle sporgenze delle ossa ed ogni centimetro della sua pelle, come bastava un tocco appena accennato a fargli perdere per un momento il lume della ragione, come se la frequenza del suo cuore fosse andata fuori fase, le lingue intrecciate ad elevare ogni sfioramento delle loro bocche. Frank socchiuse gli occhi, appena accecato dal pudore che gli infiammava le guance, e mise a fuoco la figura in controluce di Gerard di fronte a lui, nessun centimetro di quella pelle tanto fragile e pallida da parer carta ad essere coperto, si intimidiva quasi a guardarlo, eppure non poteva fare a meno di farlo, scrutarlo attentamente ed imprimerseli a fuoco nella memoria e sul cuore, ed ammirarlo, di sentirne sotto i polpastrelli la consistenza, come se non fosse reale, di pizzicarlo, e sentire la stessa cosa sulla sua pelle. Con una sua gamba inserita fra le sue, agganciata alla giuntura del ginocchio, e le mani in posizioni pericolosamente vicine al pube, si fece quasi prendere dalla paura, e cercò per un attimo un rifugio negli occhi di Gerard. Erano finestre aperte, spalancate, urlavano sto qui con te, Frank, vieni, con te calo le serrande contro il mondo. Ma fu una cosa appena momentanea. Era stupido avere paura del piacere fisico, se con la certezza di un muto amore. Era il picco dell'amore, il connubio tra intesa fisica e spirituale, e per quanto Frank non ci si fosse mai neanche avvicinato, sentiva di essere al punto, con quella stretta sulle sue viscere che diede una morsa quando le dita di Gerard lo sfiorarono, ed attraverso la cortina offuscata dai loro respiri e dalla luce ambrata salì sopra di lui, e lì Frank poté di nuovo chiudere gli occhi e cibarsi di quelle nuove sensazioni, carnali e follemente intense che irroravano il suo sangue, stuzzicando i nervi che parevano rispondere impazziti ed estremamente lenti e pazienti, per loro il tempo stava assumendo un ritmo diverso, e non fece altro che viverselo quel momento, quando i loro corpi, irrimediabilmente aggrovigliati, si strusciarono l'uno contro l'altro in modo lento, e gli parve che non ci fosse nulla di più bello se non il corpo di Gerard nudo, un nudo artistico e carnale, contro il suo, e la stretta nell'addome che ormai aveva preso in ostaggio tutto il resto del corpo nell'estasi dei sensi. Si sentiva sbucciato come un'arancia, senza più scorza, lo strato di ghiaccio era sciolto, ma tra le braccia di Gerard, con il suo sguardo a tracciare linee invisibili, a delinearlo e dargli vita, si sentiva tranquillo, senza protezione, non ne aveva bisogno, ne voleva essere colpito in pieno, e quella notte furono più vicini che mai, si macchiarono le mani dei peccati e delle speranze dell'altro tra qualche battito cardiaco di troppo e respiri incontrollati, coscienze perdute lungo il filo del tempo, che li tirava l'uno all'altro. Semplicemente, si amarono, e lo capirono dopo, quando nell'indaco del dormiveglia i loro respiri tornavano armonicamente alla loro consona velocità e si addormentarono ancora stretti l'uno all'altro, inconsapevoli che quelle macchie di uno slavato porpora schizzato di sangue e di vino non le avrebbero più potute lavare via.

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Frank era tanto assorto nella lettura de Il ritratto di Dorian Grey, che quando il telefono di casa squillò prepotentemente quasi fece un salto sul divano, su cui era comodamente sdraiato in compagnia di una coperta di pile in un pomeriggio imbottito da una tempesta d neve di fuori. Si tirò su di controvoglia, poggiando infastidito il libro lasciato aperto a metà sul bracciolo accanto a lui: che peccato, gli stava piacendo davvero tanto, proprio nel momento in cui stava iniziando ad immedesimarsi, ecco una fonte di disturbo. Come un tuono nel momento esatto in cui ci si sta per addormentare. E poi, chi mai sarebbe stato a quell'ora del ventotto di dicembre? Rimase a fissare inebetito il telefono che squillava, deciso a non rispondere, cosa che detestava fare quando chiamavano a casa e non sapeva in anticipo chi fosse l'interlocutore. Non era un comportamento molto maturo, ma lo disturbava. Mentre gli ultimi squilli finalmente lasciavano spazio al silenzio, si chiese chi potesse essere. Sua madre? Stava a lavoro, e non vedeva perché dovesse chiamarlo sul numero di casa quando sarebbe stato molto più semplice e rapido scrivergli un messaggio. Per sicurezza controllò il telefono, ma non aveva nessuna nuova notifica. I suoi amici forse, ma si erano sentiti poco prima per messaggio. Sarebbe potuto essere stato Gerard, ma dubitava perfino che lui l'avesse, il suo numero di casa. Gerard. Il ragazzo che amava. I ricordi della notte di due giorni fa erano ancora intensi che soltanto riviverli con la mente gli provocava le stesse sensazioni che ormai appartenevano al passato, come se fosse in una macchina del tempo. Si ricordò del suo viso in controluce aranciata circolato da un'aureola di capelli scuri, il sapore delle loro bocche pressate l'una contro l'altra, la forma languida del suo corpo imperfetto letto sotto le dita, la carnagione pallida chiazzata di arcane rose viola, bollente contro il suo tocco, ed il suo sguardo e l'onda anomala di emozioni che gli si erano scatenate dentro dal centro del petto, avvinghiandoglisi alle viscere quando i loro corpi erano diventati un tutt uno. E non poteva fare a meno di pensarci, ci inciampava contro la sua volontà e si ritrovava a fissare il vuoto come un ebete, col più perfetto dei sorrisi stampato in volto. Quella mattina quasi aveva rovesciato tutta l'acqua bollente sul tavolo tanto era assorto in quel segmento temporale che gli si era marchiato a fuoco sulla pelle e dentro l'anima. Ricollegò il pensiero al tè che si stava raffreddando sul tavolino e si riscosse, prendendo la tazza e fingendo che fosse tutto sotto controllo berne un sorso, mentre le immagini continuavano in controscena nella sua mente, creando un sottofondo tutt altro che spiacevole. Improvvisamente il telefono ricominciò a squillare, e Frank emise uno sbuffo infastidito. Ma non potevano farsi i cazzi loro, chiunque fosse? Del tutto controvoglia afferrò la cornetta, magari era una comunicazione per sua madre o chissà cosa, e se la portò all'orecchio, portando lo sguardo verso la finestra investita da miliardi di fiocchi di neve.
«Pronto?»
«Salve, sto cercando Frank Iero.» la voce di Brendon Urie dall'altro capo del telefono era quanto ci potesse essere di più inaspettato al momento. «È il numero giusto?»
«Sì professore, sono io.» rispose titubante, ripiombato a piè pari nel presente, cercando di riacquistare un tono formale.
«Ciao Frank, è un piacere sentirti, inizialmente avevo paura di aver sbagliato numero. Vorrei parlare con te.»
«I-io, ehm, sì certo, sono a sua disposizione.» balbettò, imponendo alla sua sfera emotiva di produrre una reazione adeguata che non comprendesse agitazione e frasi imbarazzanti.
«Perfetto. Allora Frank, volevo parlare della tua audizione per l'accademia musicale.»
«Mi dica.»
«Devi sapere che alla fine della giornata ho avuto riunione con il resto dei docenti, ed ho tirato fuori il tuo caso. Vedi Frank, c'era qualcosa nella tua performance che mi aveva veramente stupito. Mi hai fatto rimanere senza parole, era da tempo che non incappavo in un talento come il tuo, non solo nell'esecuzione musicale, ma anche nell'enfasi, il carattere... Tutto. Mi hai fatto un'ottima impressione.»
«Oh... Grazie.»
«È la verità, non ringraziarmi. Comunque ho sottoposto il tuo caso ad ulteriori esaminazioni ed il tuo nome è saltato fuori nel corso di varie riunioni, così io e gli altri referenti siamo giunti ad una decisione, ed è per questo che ti ho chiamato. Da qualche anno abbiamo attivato un programma per gli studenti più bravi che si presentano all'accademia, che consiste nell'opportunità di concludere il loro ultimo anno di liceo presso una sede dell'accademia stessa, come introduzione al programma. Frequenteresti gli stessi corsi di base necessari alla licenza liceale, annessi esami e diploma di valenza nazionale. In più ti verrebbero offerti dei corsi supplementari di base nel programma della nostra accademia, oltre all'ammissione senza neanche riponderare il tuo caso. Sono una ventina all'anno gli studenti a cui ciò viene offerto, bastano generalmente alcune pratiche ed un esame puramente indicativo prima dell'inizio, a metà gennaio. Il motivo per cui ti chiamo è che vorrei veramente tanto che tu facessi parte di questa ventina di studenti, perché ne hai tutte le qualità e non voglio perderti d'occhio. Ovviamente non sei costretto ad accettare, ma non è neanche una chance che va sprecata su due piedi, ovviamente andrebbe ponderata e valutata, come è giusto che sia. In ogni caso la tua ammissione andrebbe confermata via e-mail presso la direzione dell'accademia, entro una settimana, in caso non ricevessimo alcuna conferma ti chiederemmo di nuovo il tuo parere ma non ci spingeremmo oltre. In caso la tua risposta fosse no, sei comunque, e sono felice di dirtelo, ammesso ufficialmente alla New York Music Academy, i risultati verranno comunque pubblicati tra poco sul sito ufficiale, dove tramite richiesta ti verrebbero inviate le varie informazioni burocratiche e supplementari per ciò di cui ti sto parlando. Comunque, tornando a noi.» a Frank quasi girava la testa, non poteva neanche pensare di aprire la bocca e rispondere, ne sarebbe uscita soltanto una debole emissione di fiato. Stava succedendo troppo velocemente, troppo, non se ne riusciva a rendere conto, ed impiegò qualche secondo ad accertarsi che fosse davvero nel suo corpo, davvero al telefono in quel ventotto di dicembre, che davvero il professor Urie gli stesse parlando a telefono da un ufficio nella NYMA offrendogli tutto ciò. Non riusciva neanche a pensare che i suoi sforzi non erano andati vani, che era stato ammesso alla scuola dei suoi sogni. Ammesso. Sarebbe potuto morire in quel momento di incredulità e probabilmente sarebbe stato felice. «Che cosa ne dici Frank, ci staresti?»


























a/n
per chi ha saltato pagine dall'inizio del capitolo solo per leggere questa roba be', mi dispiace per voi
eh già, a quanto pare la mia psiche è tornata sufficientemente malata per continuare a scrivere questa roba. davvero, non so se esserne felice o triste, mi sento come arenata in questa storia, eppure il mio istinto mi spingeva a scrivere così eccomi qui. ho una forza di volontà talmente debole ormai.
la situazione in sintesi è che sì, sono tornata per finirla, ma a causa sempre della mia scarseggiante forza di volontà e costanza con me stessa non so dirvi quando arriverà il prossimo capitolo, se in un mesetto o mai, purtroppo dipende da me e me ne assumo tutta la colpa, ma in fondo non ho nulla di cui scusarmi.

e poi, ci tenevo particolarmente a pubblicare questo capitolo oggi. currently è appena scoccata la mezzanotte quindi è ufficialmente il mio compleanno e sto scrivendo da un sottotetto parigino dell'epoca della rivoluzione francese, e credo passerò molto tempo qui a leggere, i'm kinda happy.

first frerard smut™ chiedo perdono, io e la storia siamo troppo delicate per fare una scena decente ma in fondo mi piace, ha il suo nonsoché di spirituale o qualcosa del genere e mi ci sono impegnata, per quanto non possa sembrare e niente, spero che il capitolo sia come mi aspettavo.
devo dire che ricontrollandolo mi ha lasciato i suoi dubbi, ma vonde.
random rant: i due amici di gerard sono un ex membro dei leathermøuth e collega disegnatore di gee (shaun simon) ed il frontman dei the struts (luke spiller), che oltre ad essere veramente fantastico dal punto di vista artistico ricorda davvero tanto freddie mercury, fa impressione. comunque ve li consiglio, un po' rock vecchio stampo ma con qualcosa di moderno tutto loro.

inoltre vi chiedo scusa per la smodata lunghezza. ho la scaletta degli avvenimenti e della loro suddivisione in capitoli stampata in mente, e dato che ogni parte richiede il necessario sviluppo, e non volendo alterare l'equilibrio della suddivisione che mi consentirà di terminare la storia, i capitoli sono così. vi chiedo scusa, ma non ho altra maniera di farlo. au revoir mes chéries. //hxpelessaromantic

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