dear psychologist 【 frerard 】

By hxpelessaromantic

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« sai, succede molto spesso che il paziente si innamori del suo psicologo, è un meccanismo involontario. ma c... More

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By hxpelessaromantic

Scusatemi per la lunghezza del capitolo, ma non c'era verso che lo dividessi.

«Sono tornato.» annunciò Frank quella sera, non appena si ebbe richiuso la porta alle spalle con uno scatto. Rabbrividì a causa della folata fredda che aveva preceduto il suo ingresso e si sfilò la tracolla della chitarra dalla schiena, sfregando il tessuto contro la testa, causandogli una seconda ondata di brividi, oltre quella strana sensazione di cambiamento e conquista che gli faceva sembrare che il cuore gli battesse nell'acqua. Lo ignorò e poggiò la custodia con cautela sul muro là accanto, per poi appendere la giacca all'attaccapanni, i passi di sua madre già udibili in corridoio. Si mordicchiò nervosamente l'interno della guancia, il nervosismo e la tensione di quella giornata che ancora non lo avevano abbandonato totalmente.
«Eccomi» urlò sua madre dal salotto, e per un attimo Frank desiderò avere la possibilità di mischiarsi con il bagliore ocra dei muri sotto la luce artificiale e le ombre scure dei mobili, di confondersi nella realtà. Poi però inspirò profondamente e ricacciò tutto indietro, stringendo forte la chitarra oltre la stoffa ed aggrappandosi a quel manico come se potesse effettivamente sorreggerlo fisicamente oltre che metaforicamente. La figura di sua madre fece capolino in corridoio. «Allora, come è andato? Non mi hai detto praticamente nulla per - oh, Frank, cosa hai fatto?» l'espressione di sua madre mutò radicalmente, i suoi occhi socchiusi puntati sui suoi capelli. Frank si sentì leggermente a disagio mentre si portava una mano alla testa e si spostava il ciuffo scuro di lato, sopra la rasatura bionda a cui non si era ancora abituato appieno. Si sentiva esposto, ma non poteva negare di sentirsi anche bene così, con i capelli tagliati. Era il suo modo di comunicare un cambiamento.
«Perché, non ti piacciono?» domandò, aggiustandosi con un gesto le ciocche scure, sotto sguardo studioso di sua madre. Si passò le dita sui corti capelli tinti di biondo ai lati della testa, sentendoli scabrosi e pungenti sotto il tocco. Il suo sguardo cadde involontariamente sullo specchio appeso alla parete di sinistra, la sua figura appena distinguibile nella scarsa illuminazione serale, ma vedeva comunque il suo riflesso pallido stagliarsi sulla superficie cristallina, le ciocche color carbone a contrasto con il biondo platino e la sua pelle chiara, sfiorata dalle ombre degli zigomi. Gli donava, di profilo gli stava ancora meglio, gli definiva la linea della mandibola ed in parte anche lo sguardo. Si sentiva diverso, semplicemente, più vicino a qualsiasi cosa lì dentro che gli aveva fatto prendere la chitarra e messo a nudo il suo animo poche ore prima, che aveva tagliato il silenzio con la rabbia della sua musica. Si sentiva finalmente a suo agio. Sua madre invece storse la bocca, lo sguardo sempre incupito.
«Non ho detto questo, mi chiedo solamente il perché. Non hai mai detto di volerti tagliare i capelli.»
«Infatti non ci avevo mai pensato più di tanto.» replicò con sincerità, sostenendo il suo sguardo. «Non ci avevo fatto caso, però l'ho fatto.»
«C'è una qualche ragione in particolare?» chiese Linda, non tanto arrabbiata quanto più carica di una naturale apprensione materna verso i pericoli che potevano nuocere alla prole. Ed in un certo senso Frank odiava ciò. Era ormai adulto, forse più legalmente che a livello di maturità, ma il concetto era quello, stava imparando a vivere e non poteva farlo se riusciva a vedere costantemente i muri innalzati per proteggerlo. Aveva bisogno di abbattere tutto ed uscire, affrontare i pericoli di fuori, invece di rintanarsi all'oscuro di tutto, per quanto da un lato preferisse effettivamente vivere come la sua ombra, senza turbare l'equilibrio esagerato e caotico che lo circondava con il suo buio. Ed un rinnovato interesse alla sua protezione personale non lo avrebbe aiutato di certo. Non era un bambino, non più, non voleva il fiato sul collo, voleva le sue libertà. Di decisione, di comprensione e sì, anche di sofferenza.
«Andava fatto prima o poi, e mi andava.» scrollò le spalle e la oltrepassò, dirigendosi verso il salotto per poi buttarsi su di una poltrona. «Potrò deciderlo o no, se tagliarmi i capelli.» sua madre lo seguì e si sedette di fronte a lui, compostamente, sul divano. «A me piacciono, ed è questo l'importante.»
«Non lo metto in dubbio, ma non hai mai compiuto un cambiamento del genere senza-»
«Di cambiamenti ce ne sono stati fin troppi ultimamente, non trovi?» replicò lui piccato. Tutta la libertà che aveva sentito poche ore prima, con la chitarra in mano ed una melodia fin troppo nota in testa ora gli si stava rivoltando dentro. Era stato finalmente capace di respirare aria nuova, fuori da Belleville e dal New Jersey, che per quanto fossero sempre stati casa sua ora gli stavano cadendo addosso, ingabbiandolo. Lui non aveva bisogno di starsene seduto a guardare il tempo che passava, ne sarebbe stato capace di sedersi sul ciglio della strada per tutta la vita ad aspettare che questa scivolasse via, per poi rimpiangere tutto quando era ormai andato. Era capace di rimanere nello stesso angolo per un tempo indefinito, animato solamente dalla paura di disturbare un sistema che senza di lui sembrava perfettamente funzionante, sdraiato a guardare il soffitto fino a soffocare per mancanza d'ossigeno. E proprio per questo doveva svincolare da quei legami che sembravano accoglienti ma che poi lo avrebbero intrappolato per sempre, perché pensava troppo e si faceva decisamente troppe congetture su ogni suo secondo di vita, e così non arrivava a nulla, inciampava sempre e continuamente nella mediocrità della sua vita e si limitava ad accettarlo camminando con sempre più attenzione, invece di cambiare strada e correre fino ad avere le ginocchia dolenti ed i polmoni brucianti. Si era creato un suo presente parallelo nella testa, sempre chiuso lì a gambe incrociate, a pensare, a creare disordine e rumore in una stanza stagna e sigillata alla quale praticamente nessuno aveva accesso. Ma lui doveva vivere, per quanto in fondo l'idea della vita non lo allettasse più di tanto. Era sospeso nel grigio, ed invece di continuare a girare la miscela di colori doveva agire d'impulso, senza riflettere su conseguenze ed eventualità. Doveva svellere le serrature e buttare via tutte le chiavi per poi correre via, abbandonare tutto quello che aveva per potersene andare senza macigni addosso. Era questo richiamo di libertà che lo aveva tanto disturbato in quei diciotto anni di vita, confinato in quella che in fondo era solo una città, tra quattro mura decorate con poster e mensole cariche di libri, mura impilate di armadietti e persone con le quali proprio non riusciva ad interagire, strade che aveva percorso fino alla nausea, tutta la sua realtà che nonostante la rigirasse come gli paresse fosse sempre la stessa, per quanto alla fine non gli interessasse sentiva di stare soffocando, e sentiva alla sua accidia il contrapposto desiderio di buttare tutto all'aria, di far esplodere quella culla conosciuta e protetta in mille pezzi, soffocando la deflagrazione con gli assoli di chitarra, facendo in una volta tutto quel frastuono che aveva sempre ovattato. Per questo la scuola di musica lo aveva attirato, in fondo, un cambiamento completo e radicale della sua vita, qualcosa che gli avrebbe permesso di prendere a calci le fondamenta mezze abbandonate e ricominciare daccapo, con diciotto anni di ricordi a cui dare fuoco. Ed il repentino taglio di capelli era solo una manifestazione di quella lotta interna che se lo stava contendendo tutto, pezzo strappato per pezzo strappato. Quando poi si era guardato allo specchio si era finalmente sentito diverso, padrone di se stesso per una volta. Era un cambiamento che andava fatto, doveva eliminare quell'ammasso scuro che lo proteggeva da sguardi malevoli, e lo aveva fatto su due piedi, senza pensarci. Era forse una delle migliori decisioni che aveva mai preso, si era riuscito a separare da una parte di sé che lo teneva ancorato lì, in un presente artefatto e modellato, saturo di fumo grigio. E gli aveva fatto bene, non aveva la minima idea di rinnegare la scelta presa poco prima, aveva avuto ragione quando aveva detto che andava fatto. Forse si trattava un po' di autoconvinzione, ma già sentiva diverso il suo atteggiamento con la sua apparenza, un po' più libero dalle strette persuadenti della sua realtà passata. Aveva turbato il suo preteso equilibrio, ma ancora non gli bastava. Era solo il primo passo di qualcosa che coinvolgeva tutto il suo essere, qualcosa che, se ne rese conto in quel momento, si sarebbe necessariamente dovuto concludere con un totale abbandono.
«Ciò non giustifica questo cambiamento totale.» rispose sua madre, incrociando le gambe e puntando lo sguardo su di lui. «Frank, sono solo preoccupata per te. Non hai altro che la scuola di musica per la testa, ed ora torni a casa con i capelli tagliati. Mi sto preoccupando.»
«Be', non dovresti. Sto bene così, davvero, mi sento più a mio agio. Non c'è motivo di preoccuparsi per me.»
«Stai cambiando.»
«Ho diciotto anni.» asserì, sprofondando sempre di più nella poltrona, un moto di frustrazione che gli si agitava nel petto. Si morse con forza il labbro, puntando lo sguardo sul soffitto color ambra, illuminato dalle iperboli dorate delle lampadine, mentre percepiva sua madre emettere un sospiro. Gli era davvero difficile in quel momento contenersi dall'esternare tutte le emozioni che gli si stavano rimescolando dentro, montando l'una sopra l'altra e sconquassando tutto, richiamando a gran voce la sua attenzione come a dire parla per una buona volta, non ignorarci, non porta a nulla, dillo che esistiamo, perché stiamo qui e poi ti senti una merda. E alcune di loro avevano la voce di Gerard, quelle più forti, che lo facevano voltar verso di loro e gli davano la forza necessaria per ascoltare tutte le altre, per ascoltare se stesso. Si sentiva esplodere dentro, eppure si conteneva e tratteneva tutte le schegge nella loro posizione, per poi mollare tutto e lasciarle cadere solo quando era solo, e poteva ferirsi con i frammenti che passavano dal cristallo al rosso, e lasciava che gli penetrassero nella carne senza un lamento, attribuendo le lacrime di frustrazione al dolore. E tutto questo per cosa? Per uno stupido equilibrio di interazione sociale al quale era sempre stato educato, vero il quale provava un immenso odio. Era un equilibrio ipocrita ed elusivo, e stava cominciando a non sopportarlo proprio, era sempre più forte il desiderio di scagliarci un pugno contro e romperlo in mille pezzi, di specchiarsi in quella ragnatela cristallina ed ammirare finalmente il vero riflesso della società - rotta, sconnessa, esattamente come si sentiva lui. Così attraverso quel vetro stagno per molte volte la sua voce era stata soffocata, e lui non aveva mai protestato. Ora aveva voglia di gridare e di far esplodere tutto, per dire che invece c'era e aveva visto tutto, per ammirare quel tutto bruciare e assordare tutti coloro che con lui erano stati solo sordi, per parlare con la sua voce e con la sua chitarra, con gli accordi, con i sentimenti che sembrava così giusto fluissero da dentro di sé al mondo tramite sei corde e degli accordi graffianti e melodici. Come quando sua madre lo portava in ospedale a fare le analisi del sangue e vedeva il liquido venir pompato attraverso il tubicino di plastica, liquido vivo, di un rosso puro e intenso. Ecco cos era, la sua stessa fonte vitale che veniva pompata di fuori e pioveva carica degli stessi sentimenti che lo animavano su chi aveva sete e ne aveva bisogno, su lui stesso, vedere quella forza uscire dal suo corpo e dal suo animo lo faceva stare meglio. Era una canalizzazione del suo essere. E per quante volte avesse represso quel desiderio di far uscire un po' di rabbia rosso sangue ma si fosse trattenuto per i sordi, quelli che hanno paura degli aghi o gli incapaci di capirlo non lo sapeva più. Ed in riscatto per tutte quelle volte ora voleva solo esplodere di rabbia, e tingere tutto di un rosso assordante. Il suo sguardo scattò verso la madre. E allora perché non farlo? Perché si sarebbe dovuto trattenere ancora? Non avrebbe aiutato nessuno, sarebbe stato soltanto un altro vetro, un altro mattone nel muro. E lui il muro voleva distruggerlo, non costruirlo.
«Sai cosa?» domandò retoricamente, senza alzarsi dalla poltrona ma volgendo lo sguardo verso la madre, la quale ricambiò. Frank sentiva quella specie di esplosione irradiargli il petto, i nervi, il sangue - tutto, tutto il suo corpo, lui stesso era quel divampare di emozioni che in un secondo diede fuoco a tutte le sue certezze. E per una volta non le trattenne. «Forse sono cambiato, hai ragione, ma ad essere cambiato non sono io. Da sempre sono così, come mi vedi ora, eppure ho sempre cercato di reprimerlo. Perché non mi credevo abbastanza per intervenire, preferivo prendere le cose come mi capitavano piuttosto che farmi valere ed ottenere ciò che meritavo. E mi sono sempre nascosto, ho sempre impedito che le persone mi si avvicinassero più del necessario o che io stesso potessi avvicinarmi al mondo più del necessario. Ma ora sono stanco. Ad essere cambiato non sono io, semplicemente ora non ho paura di farmi vedere per ciò che sono, e non voglio avere paura. Mi conosci, con le persone che non conosco non sono estroverso, ma fa parte del mio carattere non essere tanto accomodante, anche un po' incostante. Ma sai cosa? In questi ultimi mesi la mia visione della vita è cambiata - la mia vita stessa è cambiata, per il meglio e per il peggio. Sono cresciuto più di quanto non lo abbia fatto in anni, non a livello fisico quanto a livello di persona. Mi sto cominciando a trovare, scopo che avevo abbandonato tempo fa, eppure ora, nel momento in cui meno me lo aspettavo qualcosa sta girando per il verso giusto. Ora ho delle persone che mi vogliono bene ed un obiettivo, e non ho la minima intenzione di farmi mettere i piedi in testa, non più. Sto cominciando a contare su me stesso, e non permetterò più che la mia voce venga ignorata, per quanto sia solo una tra tante. E forse ora posso anche cominciare a considerarmi adulto, sicuramente più di prima, non voglio più costringermi a nascondermi, e per questo mi sono tagliato i capelli. È un taglio, nel vero e proprio senso della parola. Sono io, sono Frank, la stessa persona di prima, ma non voglio più reprimermi o nascondermi per far piacere agli altri, non voglio aver paura di gridare anche io. La chitarra è questo mio modo di far sentire la mia voce è tutto quello che ho dentro, è il mio livello di comunicazione. La musica è ciò che mi fa vivere, mi dà uno scopo. Per quanto mi riguarda è ciò che conta di più per me, ed è l'unica cosa che ho davvero intenzione di perseguire nella vita. Che sia andato male o bene, io frequenterò quella benedetta scuola. E va bene così. Mi sono fatto valere all'audizione, e ho dato me stesso più di quanto non abbia mai fatto. Le persone cambiano mamma, le cose cambiano, le vite cambiano. Siamo costellati di cambiamenti, la nostra vita è formata dalle curve che facciamo per raggiungere la meta. Ci sono cose che cambiano superficialmente oppure più profondamente, che vanno per il meglio o per il peggio. Ed in me è cambiata questa tendenza a nascondermi, non voglio farlo più, io voglio vivere. E se voglio farlo con i miei sogni e le mie speranze, suonando una chitarra a ritmo di ciò che ho dentro posso farlo. Non sono più un bambino, ora ho una totale libertà di scelta, la mia libertà di scelta. Non puoi reprimere le mie libertà. Ti voglio bene e lo sai, te ne vorrò per la vita, ma nonostante sia tuo figlio io non sono più un bambino. Non ho bisogno di essere protetto dai pericoli e dai cambiamenti che potrebbero danneggiarmi, ho bisogno di affacciarmi ad essi, ho bisogno del mio spazio nella vita, della mia vita, di sbagliare anche, ma di imparare da me stesso e non dagli altri. Ho bisogno di vivere, mamma, per quanto tutto i cambiamenti potrebbero toccarmi. Ferirmi, o migliorarmi, a seconda dei casi. Ma non importa, perché sono io, e voglio che sia così. Sto bene così, e non voglio più reprimermi. Mai più, mi devo quantomeno questa forma di rispetto.»
«Non ho mai cercato di negartela, Frank.» rispose sua madre, la cui riga sottile delle labbra era rimasta immutata, nonostante il suo sguardo si fosse raddolcito. «Non lo vorrei mai. Però capisci che ti ho visto cambiare in poco tempo, e per una madre comunque è essenziale - no aspetta, fammi finire» esclamò Linda al tentativo di Frank di aprire la bocca. «Mi viene naturale. Ma non è di certo mia intenzione bloccarti dal fare ciò che desideri. O comunque limitarti nella tua crescita personale, assolutamente. Ti voglio bene anche io, è per questo che mi preoccupo. È l'istinto naturale di una madre. Non sono contraria a ciò che hai detto, sono solo... preoccupata, però concordo. Ma non voglio che tu pensi che il mio affetto genitoriale per te sia un legame soffocante, perché non è così, e lo sai bene. È bello che tu senta di star trovando il tuo spazio nel mondo, lo meriti. Hai tante qualità, Frank, meriti a volerle riconosciute.» il ragazzo non rispose, riportò lo sguardo al soffitto, l'attenzione ancora risolta alle parole dette e sentite. Non si pentiva di averlo fatto, sebbene sentisse che sua madre fosse rimasta turbata, forse dalla sua irruenza, o dall'insinuazione che fosse soffocante. Ma non era quello. E poi c'era una domanda che gli ronzava in testa, e stava davvero scomodo accasciato scompostamente sulla poltrona. Si rimise seduto per bene e poggiò testa allo schienale, poi volse lo sguardo alla donna.
«Papà è morto, vero?» domandò con un tono più serio di quanto volesse, cercando un contatto diretto negli occhi di sua madre. Ci furono pochi attimi di silenzio prima che la donna si alzasse e si muovesse verso di lui, per poi sedersi sul bracciolo alla sua sinistra. La sua figura oscurava la luce della lampadina, Frank poteva solo sentire lo sguardo dei suoi grandi occhi scuri puntati dolci ed apprensivi su di lui. Voleva la risposta, voleva una risposta vera e matura, non alterata dal loro rapporto, raddolcita o parafrasata. Voleva la risposta cruda, sapere come fosse davvero la situazione, per quanto il suo cuore sembrasse battere nel vuoto, in mezzo al suo petto, solo il sangue ad alimentare il suo corpo.
«Frank, sai bene che la situazione è complicata...»
«Mamma» la ammonì lui, inarcando le sopracciglia. «Voglio saperlo, davvero.»
Linda sospirò, le sue occhiaie appena visibili nel controluce. «No Frank, in questo momento tuo padre è dato per disperso, lo abbiamo sentito entrambi. Non è morto.»
«È solo un modo carino per dirlo.»
«Ti sbagli. Quando ci sono questo genere di incidenti ci si mettono anche mesi prima di recuperare tutti i dispersi, e ciò non toglie la possibilità che si sia salvato.» Frank soffiò nervosamente su una ciocca scura che gli era ricaduta sul viso, ma quando sua madre gliela spostò dall'altro lato della testa prese a mordicchiarsi l'anellino sul labbro.
«Allora è solo un modo carino di anticiparlo.»
«Non devi darlo per morto, perché non puoi saperlo.» disse con serietà sua madre, allontanando la mano dal suo viso. Era palese che, nonostante tutto, si stesse sforzando di trattenere le emozioni causate dalla scomparsa di Anthony. «Non possiamo pretendere di saperlo. Non mi hanno dato molte informazioni sull'incidente, ma ci sono possibilità che si sia salvato, non aiuta in una situazione così arrendersi subito alla peggiore delle prospettive.»
«Io non voglio che sia morto.» sussurrò Frank, lo sguardo fisso sull'unica lampada accesa nella stanza, offuscata da un tremendo paralume arancione. Dovette mordersi l'interno della guancia fino ad avere una lancinante fitta di dolore pur di fermare il calore che affluiva sempre di più a guance e occhi, a loro volta sempre più umidi. Non voleva piangere di nuovo, per quanto il vuoto nel petto minacciasse di implodere da un secondo all'altro. Che patetico, non sai neanche reggere il discorso. Sbuffò e reclinò la testa all'indietro, lo sguardo puntato su Linda. «Gli voglio bene, mi ha insegnato lui a suonare la chitarra. È stato pensando a lui che ho deciso di frequentare la scuola di musica. Non voglio che lui sia morto.»
«Anche io tengo tanto a lui. Siamo una famiglia.»
«Tu non lo ami più.» asserì, senza rancore.
«Siamo molto legati.» le risposte elusive di sua madre, non le sopportava davvero. Ma non ci si voleva soffermare, anche per Linda era un grande shock e non voleva esserle di peso. «È un uomo forte, davanti al pericolo ha sempre avuto la forza di affrontarlo.»
«Mi manca.» disse dopo qualche attimo di silenzio, un groppo in gola che non accennava a sciogliersi. Era giusto essere tristi, delusi, arrabbiati. Non doveva vergognarsi delle sue emozioni. E non si tirò indietro quando sua madre avvolse un braccio attorno alle sue spalle e lo strinse dolcemente a sé. Ocra, ecco il colore delle luci, come la malinconia di un ricordo fulgente, oramai passato. Il colore delle luci e dell'affetto di una madre che bastava per la tristezza di entrambi.
«Manca anche a me.»

Quella mattina Mikey non c'era. O forse sì, ma Frank non lo aveva visto in cortile arrivando. E non si erano fatti vedere neanche Jamia e Ray, e forse da un lato stava meglio così. Se ne rese conto quando, saliti gli scalini di ingresso, aveva messo piede nel corridoio scolastico, brulicante di studenti svogliati e ronzanti luci al neon. E aveva provato la sensazione di essere un magnete in una scatola di chiodi, come se ognuno avesse puntato il suo sguardo pungente nella sua direzione, dell'emo emarginato. Ed inevitabilmente il cuore gli era accelerato di botto, ma aveva stretto i denti e subito si era incamminato nel corridoio. Probabilmente era un riflesso incondizionato dovuto al fatto che stesse decidendo di esporsi, per quanto gli altri potessero esserne coscienti o meno. Sentiva comunque un pizzicorio alla nuca non dovuto i capelli ed una specie di vuoto nel petto, oltre che un insolito sfarfallio fremente alle ginocchia e alle punte delle dita, che continua a serrare e riaprire ansiosamente nei tasconi della giacca. Quella mattina si era risvegliato già con quella sensazione di nervosismo che lo aveva accompagnato per tutta la mattinata, neanche ascoltare della musica sulla via per la scuola lo aveva aiutato, ora stava cercando di andare avanti senza prestare attenzione all'immotivata sensazione.
Per quanto gli fosse possibile, perché si sentiva fremente di agitazione. Era probabilmente colpa del turbinio di emozioni del giorno precedente, dall'euforia dell'audizione alla rabbia della discussione con sua madre e mille altre che avevano riempito gli spazi vuoti. Ne aveva provate così tante che non gli erano rimaste più per quel giorno. Ma la sua appena acquisita intraprendenza non se n'era andata, anzi, rimaneva ben salda nei pochi pensieri, ed infatti, nonostante la perenne sensazione degli sguardi fastidiosamente puntati su di sé, scrutandolo come se improvvisamente si fosse denudato della sua cappa di vetro nero, camminò senza farsi troppi problemi sugli altri nel corridoio. Comunque nessuno aveva il diritto di ribattere, di intromettersi e giudicarlo, e ciò gli donava un'insolita consapevolezza di sé, anima e corpo, per quanto il petto fosse invece una caverna. E quel vuoto nella cassa toracica, animato soltanto dal metronomo del suo battito cardiaco, era estremamente sbilanciato, un minimo squilibrio e sarebbe sprofondato ed esploso in qualcosa che Frank ignorava. E che, in un certo senso, non vedeva l'ora di ammirarlo divampare.
Sentì un fischio d'ammirazione risuonare in corridoio, ed improvvisamente percepì la sua faccia diventare una maschera di pietra. Li conosceva quei fischi, li aveva sentiti tante volte come melodiose risate di scherno, che mano a mano lo avevano spogliato della sua innocenza fanciullesca, e lo avevano plasmato crudeli sotto il loro soffuso terrore. Non si accorse neanche del suo passo diventare più deciso e veloce, come una marcia marziale, di tutto il suo corpo diventare di pietra, del suo cuore stesso farsi più pesante, della mascella che si serrava come le mani, quietate dal gelo dell'odio. Qualche risata. La sua camminata divenne un incedere. Procedeva a memoria, i suoi occhi non registravano l'ambiente circostante, il cervello concentrato sull'unico pensiero di allontanarsi. E poi qualcosa gli finì tra i piedi e cadde pesantemente a terra.
Era atterrato sul braccio sinistro per attutire l'impatto, ed ora tutto l'avambraccio gli pulsava dolorosamente. In un attimo di confusione si rimise seduto, intento a scrutarsi attorno mentre aveva quasi paura che la caduta avesse potuto intaccare il suo fragile involucro esterno e farlo implodere. Sbatté un paio di volte gli occhi: era sempre così quando cadeva, prima c'era il suolo che si avvicinava sempre più velocemente ed un secondo dopo era accasciato a terra, ma il momento dell'impatto non lo vedeva mai, troppo sfocato. Però si rese conto delle risate, poche ma sprezzanti.
«Carino il taglio di capelli, pansy.» commentò qualcuno. «Te lo ha fatto il tuo ragazzo?»
No, non lo sapeva riconoscere il momento dell'impatto quando cadeva. Però percepì chiaramente la frase colpirgli il petto ed affondargli dentro come un sasso nel lago, di quelli che attaccavano ai piedi dei condannati per annegarli. Sentì la prima ondata irradiarsi nel vuoto tra le costole dove batteva fremente il suo cuore, ed altre risate e prese in giro. La seconda, e l'agitazione di prima intensificarsi, una scarica di freddo fuoco che gli si riversò nei nervi. Passò qualche altro secondo di confusione. Frank aveva il viso rivolto verso il basso, tutto fuori dalle sue orecchie fischiava in silenzio, c'era solo il suo vuoto. Si sentiva proprio come al mare, completamente sommerso nell'acqua, tutto era congelato tranne che per il fioco sciabordio della risacca e la carezza delle onde, costante, una primordiale coperta che lo leniva con il suo andare e venire cauto, come un battito cardiaco. La frequenza sorda e ridondante delle onde che gli si allargavano dal petto, il suo piccolo universo cianotico. Lui sotto la sua cupola di vetro, la sua eterea culla e prigione, un arco cristallino che rifletteva il mondo nelle migliaia dei suoi frammenti, ognuno per una delle bugie che cercava di celare. Per la terza volta, delle onde circolari si allargarono a raggiera dal buco nel suo petto. La cupola esplose, ed il suo vuoto divampò.
In un solo movimento si rialzò e sbatté schiena al muro il deficiente che gli aveva fatto lo sgambetto e lo aveva deriso, bloccandolo con una presa decisa ed implacabile alle braccia. Lo sentiva nelle sue vene, un puro fuoco che lo accecava completamente. Un incendio distruttivo che Frank sentiva bruciare anche nei suoi occhi, quando guardò sprezzante negli occhi l'altro, che si strappò dalla sua stretta con altrettanta foga e gli scagliò il pugno contro il viso. Udì appena un frocio, nello stesso istante in cui sentì il naso cominciare a pulsargli dolorosamente e la narice destra ostruita da quello che probabilmente era sangue, che gli scivolava fin sulle labbra. Non ci prestò attenzione, e con la stessa rabbia con la quale si era rialzato lo riagguantò per le spalle e lo sbatté più forte di prima contro il muro, strappandogli un respiro mozzato. Frank gli affondò con rabbia le dita nella maglietta, stritolando le sue spalle mentre la sua maschera di pietra si contorceva sotto la sua rabbia. E poi anche quella esplose.
«Adesso basta.» disse, guardandolo fisso negli occhi. Calma, collera e decisione si miscelavano egualmente nella sua voce. E non c'era più nulla se non lui ed il ragazzo che teneva inchiodato al muro, per quanto fosse perfettamente consapevole della vita che continuava immutata, forse solo in parte disturbata, nel corridoio alle sue spalle, un rivolo di sangue che gli colava caldo e lento dalla narice destra ed impiastricciava la sua bocca con il sapore ferroso, forse qualcuno che si era fermato ad assistere alla scena. Ma non gli importava, proprio per niente. «Mi hai veramente rotto il cazzo, tu e la tua combriccola di idioti. Vi divertite veramente a trattare così altri studenti che dovrebbero essere al vostro pari solo per il fatto di essere umani? Be', in tal caso consideratevi pure dei deficienti patentati, perché il vostro è un passatempo irrispettoso, immaturo e soprattutto molto maleducato. Non c'è scritto da nessuna parte che per essere più soddisfatti di se stessi si debba prendere per il culo la prima persona che ti passa davanti. In caso non ve lo abbia mai detto nessuno, è solo la più bassa azione di mancanza di rispetto che tu possa compiere, quella di pretendere la libertà altrui, niente di più. Non si fa una cosa del genere. E non mi interessa delle tue frustrazioni morali, tu adesso la smetti. Ora. In questo momento. Perché io mi sono stufato. I tuoi giudizi scrivili su un foglio, appallottolalo e dagli pure fuoco, per quanto mi riguarda. Ma non voglio più, mai più, che mi veniate a rompere i coglioni. È ora di smetterla con questa scemenza, o giuro che vi faccio smettere tutti quanti con metodi ben peggiori, che non vi convengono per niente, per quanto in tutta onestà non andrei di certo a sprecare il mio tempo per degli idioti come voi. Non me ne frega un cazzo se ti senti superiore o migliore di tutti noi. Perché non lo sei, ed adesso questa storia finisce qui, va bene? Adesso basta.» ripeté in tono glaciale, furioso, prima di tirargli a nocche serrate un pugno in pancia che non avrebbe facilmente dimenticato, imprimendo in quel singolo gesto tutto ciò che aveva represso nei suoi anni di liceo. Lo sentì espirare a fatica e piegarsi appena in due, aumentò di poco la pressione prima di lasciarlo andare, poggiato ad occhi serrati contro il muro. Altri due del gruppetto degli encefalitici pompati avevano assistito alla scena in silenzio, le loro facce mutare gradualmente dallo scherno allo sbigottimento. Frank guardò imperturbabile anche loro, con un'occhiata che non ammetteva repliche. «Spero che il concetto sia stato sufficientemente chiaro.» detto questo girò sui tacchi e se ne andò, con tutta l'intenzione di andarsene nell'aula di storia. Ignorò bellamente le occhiate sbalordite o ammirate delle poche persone che a quanto pareva avevano assistito alla scena. Non gli interessava più di tanto. Continuò a camminare a passo misurato, il braccio sinistro tenuto ben accostato al corpo. Nessuno lo seguì, e non lo avrebbero fatto, segno che il suo atto di ribellione, se così poteva essere chiamata, era servita a qualcosa. In realtà dubitava che il suo pugno gli avesse causato dolore fisico - era un fottuto armadio di muscoli quel ragazzo - ma si era come sentito liberato di un certo peso dopo avergli sputato in faccia quelle parole. Come se si fosse slegato il peso attaccato ai piedi che lo costringeva sul fondo del lago. Ora poteva iniziare a nuotare. E anzi, il discorso gli aveva lasciato un vago senso di euforia che ancora gli permeava ogni terminazione nervosa, ed alimentava un po' quel fuoco che gli divampava metaforicamente dentro. Tuttavia, questa sensazione abbagliante non serviva a coprire il dolore pulsante al polso sinistro, che stava svanendo, e neanche il sangue che continuava a colargli fin sul mento. A ben guardare, Frank notò che un paio di grosse gocce vermiglie gli erano cadute sulla manica della felpa. Estrasse un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e se lo premette contro la narice destra, provocandogli una fitta di dolore sordo a quasi tutto il lato della faccia, senza contare il fazzoletto già bagnato di sangue, che continuava ad imbrattargli la faccia e ad ostacolargli la respirazione. Diminuì la pressione, tamponandosi con cautela il naso sanguinante. Non si era rotto nulla, non era quel genere di dolore, ma comunque sentiva tutto il naso tappato ed il sapore ferroso del sangue che gli colava nella bocca. Forse una controllata non sarebbe stata una cattiva idea, così prese un secondo fazzoletto e mettendolo al posto di quello tutto impregnato di rosso, che gettò nel cestino, si diresse verso l'infermeria, dove era spesso andato per danni ben minori. Raggiunse ben presto l'infermeria, consapevole di essere in ritardo per la prima ora ma altrettanto indifferente, e ne aprì subito la porta, attirando l'attenzione delle due infermiere.
«Ma guarda, è tornato lo scricciolo.» lo accolse Lindsey con un sorrisetto furbo. I suoi occhi castani brillavano divertiti. «Quasi quasi mi mancava vederti sanguinante in ambulatorio.» Kate, dal canto suo, assunse un'espressione esasperata e si alzò dalla sedia, raggiungendolo in breve tempo. Gli pinzò delicatamente il setto nasale tra due dita e fece in modo che la testa di Frank si ritrovasse leggermente inclinata all'indietro, poi la sua mano si sostituì a quella di Frank nel reggere il fazzoletto contro la narice. «Di nuovo? Non importa, ci penso io.» sospirò paziente, per poi mettergli una mano sulla spalla e dirigerlo verso il suo piccolo reparto. Prima di abbandonare la saletta Frank lanciò uno sguardo obliquo a Lindsey, comodamente appollaiata su una sedia in controluce a scartabellare con alcuni fogli, delle ciocche corvine che le erano scivolate fuori dai codini ed ora le pendevano sul viso tornato concentrato. Era davvero una bella ragazza. E la ex del suo ragazzo. Chissà se lo sapeva, che Gerard aveva allentato la loro relazione proprio perché gli piaceva Frank. Lui sospettava che lei avesse intuito qualcosa - in fondo era stata Lindsey a prendere la situazione in mano - ma non credeva sapesse che fosse proprio lo scricciolo ad aver confuso a tal punto Gerard. E comunque ora Gerard stava con lui, il che qualcosa voleva dire. Però non poté negare il nervosismo che lo aveva assalito quando si era reso conto dell'intera faccenda, nella sala. Intanto era arrivato nel piccolo ambulatorio di Kate, per cui guidato dalla ragazza raggiunse il lettino e si sedette, poi sotto sua richiesta le spiegò a grandi linee cosa era successo, mentre lei era indaffarata a prendere garze e cotone da un armadietto.
«Ecco, tieni.» disse, porgendogli un batuffolino, che Frank si mise contro il naso per assorbire il poco sangue che continuava ad uscire. «Dovresti fare più attenzione.»
«Va bene così.» ribatté lui, sempre tenendo la testa lievemente inclinata. «Mi sono stufato. Ho detto loro di smetterla.»
Kate, che stava armeggiando con due salviette sotto il rubinetto, si girò, il viso che esprimeva una sincera sorpresa. «Finalmente, sono contenta che tu ci sia riuscito.» esclamò, piazzandogli le due salviette una sul collo e l'altra sulla fronte. Rivoletti di acqua fredda gli colavano sotto il maglione e sulla faccia, causandogli dei brividi. «È dovuto a qualcosa questo tuo cambiamento? E non mentirmi Frank, lo riesco a capire che dentro di te si è attivato qualcosa. In senso positivo, e ne sono contenta.» e lo sapeva che in fondo lei ne era veramente contenta, era una delle poche persone che gli aveva parlato nella sua vita liceale, era sempre pronta a scambiare due chiacchiere quando lui si presentava mal conciato in infermeria, ed ogni volta lo spronava a farsi avanti. Quasi quasi si dispiacque di non essersi più fatto mandare in infermeria, per il fatto di non essere più stato in sua compagnia. Non c'era motivo di nasconderle nulla. Oltre al fatto che lui non voleva più nascondersi lei era una persona con la quale si trovava a proprio agio parlando, quindi non aveva proprio ragioni.
«Ho fatto un'audizione per entrare nella New York Music Academy.» spiegò. E lo trovò anche strano, parlare di sé e del suo, nella migliore delle ipotesi, futuro, seduto su un lettino in un liceo di Belleville con un batuffolo pressato contro il naso. «Ieri. Ci pensavo da molto, a farla, e a come mi sentissi riguardo ciò. Ed in realtà non so bene cosa sia successo, ma... Già prima, sono successe altre cose e la mia vita è cambiata moltissimo nell'ultimo periodo, però è scattato qualcosa durante l'audizione, e ora non ho voglia di nascondermi agli altri o di lasciare che mi mettano i piedi in testa. Mi sono pure tagliato i capelli, è una rottura con me stesso.»
«Lo vedo, ti stanno bene.» sul volto della rossa aleggiava un sorriso. «E di' un po', come è andata l'audizione?»
«Bene, credo. Non mi hanno detto nulla di particolare e non saprò i risultati prima di gennaio, ma sono fiero di quello che ho fatto.»
«Questo è l'importante.» Kate diede un'occhiata all'orologio che portava al polso, e fece una smorfia. «Meglio se ci sbrighiamo, non posso farti perdere tutta la giornata.» Buttò le due salviette umide nel cestino, si assicurò che avesse smesso di sanguinare e gli sistemò il viso, poi gli diede anche una controllata al braccio, assicurandogli che il dolore sarebbe passato prima di sera. Alla peggio gli sarebbe venuto un livido. Non che gli interessasse, in fondo. Era strano quel senso di disinteressamento, eppure non poteva fare a meno di provarlo.
«Ah, Frank.» stava già sul punto di uscire, ma la ragazza lo bloccò, porgendogli un biglietto. «In caso dovesse andare bene, per l'audizione, ricorda che ho degli amici a New York che studiano lì. O se ti va semplicemente di fare due chiacchiere, a me fa piacere. Non mi interessi in quel senso, non pensarlo nemmeno, a me i ragazzi nemmeno interessano a dirla tutta, comunque se ti va ci possiamo mantenere in contatto, che ne dici?»
Frank rimase titubante, il busto ancora rivolto verso la porta dell'ambulatorio, ma lo sguardo fisso sul sorriso della ragazza ed il bigliettino bianco appena scarabocchiato. Se la scena fosse avvenuta solo un paio di settimane prima, sarebbe stato tanto in imbarazzo da non parlare neanche e farsi sopraffare da mille paranoie, da declinare il tutto e lasciare che la vita gli scivolasse addosso come acqua su tela cerata. Anzi, probabilmente tutto il dialogo non sarebbe mai avvenuto. Però ora non era più così. Non poteva impedire che i pensieri gli scorressero alla consueta velocità portando la loro marea di e se, ma tutto ciò non avrebbe più influito con la sua vita, costringendolo invece di liberarlo nel mondo. Con un sorriso, prese il bigliettino tra le dita.

Frank aveva avuto ragione, nessuno dopo l'evento in corridoio aveva tentato di seguirlo. Neanche nella mensa, si era limitato a ricevere un paio di occhiate guardinghe da alcuni del gruppo che lo aveva preso di mira, m non gli si erano avvicinati, e lui aveva pranzato in tranquillità seduto al tavolo con Ray, il quale, oltre a non aver notato nulla di diverso in lui, aveva cominciato a blaterare su numeri triangolari e successioni numeriche. In realtà Frank aveva anche provato a seguirlo, ma dopo la spiegazione della formula per ricavare i numeri in posizione dispari aveva lasciato perdere e si era messo a spiluccare il suo pasticcio di verdure annuendo quando più consono, ancora gioendo dentro di sé per la sua piccola vittoria. Era solo un tassello rimesso apposto in un mosaico deteriorato dal tempo, ma finalmente aveva lo schema delineato davanti agli occhi. E così, per quanto tutto sommato la sua giornata fosse stata grigia, se ne stava tornando tranquillamente a casa, non prima di essere passato dal negozio di musica in città per un disco che gli mancava dei Guns 'n Roses. Anzi, più che altro Panz 'n Roses, viste le sospette forme sferiche che stavano assumendo Axl e Slash. La musica lo avrebbe aiutato a passare il pomeriggio. Quando sentì il telefono squillargli nella tasca del giubbotto era ormai quasi arrivato a destinazione, tuttavia estrasse il cellulare e guardò lo schermo. Gerard. Con un sorriso spontaneo accettò la chiamata.
«Ehi, Gerard?»
«Ciao Frank» rispose dall'altro capo della linea la voce del ragazzo, lievemente roca e senza rumori di sottofondo. «Come va?»
«Bene, credo. Perché mi hai chiamato? Non che mi dispiaccia sentirti.»
«Me lo auguro. Magari avevo solo voglia di sentirti, che dici? E magari di vederti
«Non sono stato io a ridurre le visite a una volta ogni due settimane.» commentò lui. Gerard, dall'ultima volta in cui era stato nel suo studio da psicologo, aveva deciso che ormai sarebbe stato necessario vedersi lì dentro non più di un paio di volte al mese Quasi quasi gli mancava la vista della scrivania sommersa da libri, fogli, disegni e quant'altro.
«Non dovrebbe darti fastidio. Non è un cattivo segno. E poi non sono solo il tuo psicologo. Sono anche il tuo ragazzo.» come ogni volta in cui Gerard glielo faceva notare, Frank sorrise, sentiva sempre quell'emozione irradiarglisi dal cuore in tutto il petto, come una timida candela dalla cera rossa che faceva guizzare la sua fiamma, che lambiva con il suo calore tutto i suoi nervi. Gli piaceva davvero tanto Gerard.
«Mi dà solo fastidio vederti di meno.»
«Ma se ci siamo visti l'altro giorno!» esclamò Gerard, suscitando il divertimento del ragazzo. «Anche se, devo ammettere, non mi dispiacerebbe vederti tutti i giorni
«Le cose possono cambiare anche in due giorni.» disse Frank. «Non serve per forza tempo.»
«Ti riferisci all'audizione?»
«Più o meno, ma di quello voglio parlarti faccia a faccia.» esitò un attimo. «Mi sono tagliato i capelli.»
«Davvero?»
«Sì, lo ho fatto senza neanche pensarci in realtà.»
«L'importante è che piacciano a te.» il sorriso non abbandonò le sue labbra. Qualunque cosa lo coinvolgesse, Gerard si accertava che ad esserne soddisfatto fosse lui, non gli altri. Che a stare bene per primo fosse lui. E sapeva che era abbastanza maturo da poter agire di testa sua quando voleva.
«Direi di sì. Vorrei potessi vedere.»
«Ecco, volevo parlarti proprio di questo
Il cuore di Frank fece un piccolo sobbalzo. «Dimmi.»
«Vorrei uscire con te domani pomeriggio. Insomma, non siamo mai usciti insieme nel vero senso della parola ed ecco, mi piacerebbe andare fuori domani sera. Vorrei portarti da una parte. Allora, ti va?»
«Gerard Way, è per caso un appuntamento?» replicò Frank, senza tuttavia riuscire a nascondere la sua felicità, neanche attraverso il tono di voce. Si immaginò le labbra sottili di Gerard piegarsi in un mezzo sorriso, due tagli color ciliegia sul suo viso pallido.
«Puoi considerarlo un appuntamento, se ti fa piacere. Quindi è un sì?»
«Te lo concedo.» rispose, con una risatina imbarazzata, continuando a camminare sul ciglio del marciapiede come gli piaceva fare. Tenne lo sguardo basso sulle sue scarpe. Delle converse consunte su un marciapiede consunto e calpestato nel grigio cittadino. Però c'era ossigeno in quell'aria grigia. «Mi farebbe piacere, sì.»
«Allora ti passo a prendere domani alle sei a casa, va bene?»
«Certo. A domani, allora.»
«A domani.» ci fu una pausa, per la prima volta un silenzio insolito, come lo spazio bianco lasciato da una cancellatura di gomma. Gerard sembrava come sul punto di aggiungere qualcosa, ma poi attaccò e chiuse la linea. Frank si infilò il telefono in tasca, con la sensazione di poter leggere i graffi lasciati dalla matita ormai cancellata. Ed ora quello spazietto bianco sembrava più grande di prima, ma il silenzio pareva parlare da sé. E Frank, che stava finalmente imparando a camminare sui suoi passi in mezzo ai cocci di vetro, non aveva ancora il coraggio di prendere la matita a scrivere sul suo spazio bianco, sul loro spazio bianco, due parole in una grafite del nero più scuro ed indelebile che le loro menti confuse potevano immaginare.

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Frank non aveva mai avuto qualcuno con cui uscire per un semplice incontro, figurarsi un appuntamento. Era uscito un paio di volte con Jamia, certo, ma non erano considerabili degli appuntamenti, non per lui almeno. Con Gerard era diverso, come sempre, era la più bella giornata di autunno che potesse vivere, e sotto quei deboli fasci di luce dorata, immersi nelle infinite sfumature di verde e porpora, lui stringeva una mano pallida, che lo reggeva come se fosse un pennello intriso di vernice fresca. Lo faceva sentire in modo strano Gerard, era un bozzetto di prova venuto male, accartocciato e buttato in un angolo polveroso della sua stanza, ma lui lo svolgeva e lo dispiegava, donava nuova luce a qui tratti di mattia tutti sbavati e sfumati, e poi lo colorava. Le sue dita, sempre sporche di tempera ed acquerello, lo coloravano anche dentro, il suo tocco non era mai qualcosa di carnale e basta. Lo raggiungeva a livelli abissali, più profondi, che lui stesso aveva chiuso sottochiave. Una stretta di mano, ed ecco che si riempiva dell'azzurro innocente di un cielo di marzo. Delle parole bastavano a farlo sentire blu, come un caldo piumone sulle gambe quando si torna a casa d'inverno e si è provati, stanchi. Uno sfiorarsi di labbra, ed il bacio si rispecchiava nel rosso fluido, vivo, del suo sangue, lo stesso colore delle rose appena sbocciate al mattino. E la sua voce era bianca, non un bianco accecante, ma quello delle lenzuola che ti avvolgono quando, ancora sonnolenti, si aprono gli occhi nel dormiveglia. Carta, nuvole, marmo, tele, neve, crisantemi, tutti i colori che si trasmettevano dalle sue mani alla sua anima concentrate in un'unica tonalità.
E proprio perché Gerard era così speciale si sentiva tremendamente in ansia, per quanto stessero insieme da già quasi due settimane e lo riempiva sempre di baci e di attenzioni quando stavano in compagnia l'uno dell'altro. Ma gli aveva chiesto di uscire, un vero appuntamento, una sera solo per loro e nessun altro, non per i grigiori della città e nemmeno per i fantasmi che lo trascinavano verso il basso con le loro polverose, inconsistenti mani. Insomma, aveva un appuntamento con Gerard.
Ed era, per l'appunto, tremendamente in ansia.
Il pensiero lo aveva distratto per tutta la giornata, non ricordava un singolo secondo delle lezioni a cui aveva assistito se non il fatto che avesse guardato fuori dalla finestra tutto il tempo, ogni tanto spostando lo sguardo verso il libro aperto ad una pagina a casaccio e tracciarci qualche pigro disegnino a matita. Non gli aveva neanche detto dove sarebbero andati, e Frank, su ciò che lo attirava, era irrimediabilmente curioso per natura. Eppure gli piaceva quella sensazione, di inconsueta felicità, ansia e distrazione che gli procurava il pensiero dell'appuntamento. Aveva avuto letteralmente la testa tra le nuvole tutto il santo giorno, ed ora che si stavano avvicinando le sei, dentro di sé stava dando di matto.
Oltretutto, non aveva alcun indizio su dove sarebbero andati, quindi non sapeva come prepararsi. Dopo aver rivoltato l'armadio da cima a fondo ed essersi scervellato su come presentarsi e cosa mettersi, era andato a farsi una doccia sperando che l'acqua gli avrebbe schiarito le idee.
Peccato che così non fosse stato. Anzi, mentre si stava godendo il confusionario turbinare dei vapori tiepidi e profumati contro la pelle, aveva chiuso gli occhi e la sua mente aveva iniziato a vagare. Ed ecco che la porta si apriva cautamente, per poi richiudersi con uno scatto soffocato, allora Gerard gli avrebbe sorriso, poco più di una macchia sfumata di bianco e nero oltre la condensa e la luce soffusa, e si sarebbe velocemente spogliato dei vestiti per poi aprire la porticina di vetro della doccia. Ma Frank non avrebbe avuto il tempo di sentire alcun brivido di freddo, perché l'altro se la sarebbe subito chiusa alle proprie spalle e gli avrebbe fatto da guscio al mondo esterno con il proprio corpo. Avrebbe lasciato che le mani scivolassero sulla sua pelle bagnata, dalla posa tesa delle spalle lungo la linea della clavicola appena accennata, giù per il petto ed il ventre, come le goccioline che rotolavano implacabili su di loro, e Frank con le ciglia scure pregne di queste perle di cristallo lo avrebbe appena guardato, mentre invece lo sguardo nocciola di Gerard sarebbe stato sempre fisso su di lui, come le sue dita, la poca vernice incrostata sotto le sue unghie avrebbe lasciato pallide tracce di colore. Poi lo avrebbe stretto a sé, cautamente, i palmi che scivolavano sulla sua schiena grazie all'acqua che continuava a piovere su di loro in un calmo scroscio, e avrebbero alternato questo suono allo schiocco dei loro baci, le labbra sempre più desiderose ed i corpi sempre più avvinghiati, le gambe intrecciate ed i cuori che battevano l'uno contro il petto dell'altro. Poi Frank si era riscosso e, con le guance arrossate non solo a causa dell'acqua calda si era velocemente risciacquato, era scivolato fuori dalla doccia e si era avvolto in un asciugamano, prima di tornare in camera ancora più confuso di prima. I mucchi di vestiti sul letto erano praticamente solo felpe e jeans, nulla di adatto per un appuntamento. Non sapeva dove sarebbero andati, cosa avrebbero fatto, ed aveva un'assurda paura di sbagliare tutto. Si sentiva i nervi come uno sciame di farfalle impazzite, eppure al contempo non riusciva a muovere un solo muscolo. E mancava mezz'ora, era troppo tempo e al contempo troppo poco. Frank emise uno sbuffo e si buttò sul letto, noncurante dei capelli ancora umidi che bagnavano il cuscino. Ciò che non sopportava della vita erano i momenti di stallo, quegli spazi vuoti tra un punto ed un altro di pura attesa. Erano una continua tortura, non passavano mai ed erano sempre troppo veloci, li sentiva letteralmente fluire via dal suo corpo. Tempi morti, inutilizzabili, erano come la linea che collegava gli alti ed i bassi di un elettrocardiogramma, quelli in cui il cuore non batteva. E la cosa più triste era che alla fin fine la vita era principalmente composta da quei momenti di stallo. In più, a causa dei pensieri che si accavallavano, la testa gli faceva un male tremendo, improvvisamente si rivedeva le immagini di ciò che si era immaginato seguite dal viso di suo padre, il dolore per la cui mancanza ancora non era stato completamente sedato. Non era sicuro di sentirsi tanto bene, non a causa dell'imminente incontro con Gerard, ma per la situazione in generale. C'era qualcosa di fondo che stonava con il resto e gli dava un senso di disagio ed inadeguatezza continuo, ma non era un semplice tratto di matita ad essere sbagliato. In quel caso si trattava di strappare completamente il foglio e ricominciare daccapo. Ed eccolo che tornava, il desiderio di fuga dalla realtà circostante, che gli stava come una vecchia maglietta di quando era piccolo, dai colori diversi da ciò che ora apprezzava e le cuciture che stringevano sul suo petto, ostacolandogli il respiro. Non poteva dire di lamentarsi, in fondo aveva una camera in cui si sentiva al sicuro, una casa spaziosa, una madre presente ma non oppressiva che gli voleva bene, pochi ma fidati amici, il tempo per dedicarsi alle sue passioni ed una persona che lo faceva sentire a posto con il resto. Ma in fondo, un ronzio assordante accompagnava il tutto, e lo soffocava. Si alzò di scatto, deciso a non lasciare che la malinconia prendesse il sopravvento, perché sapere che poi non lo avrebbe lasciato più andare. Cacciò tutti i pensieri dalla testa e andò in bagno, dove prese un telo bianco e si frizionò i capelli quel tanto che bastava per asciugarli. Fortunatamente aveva solo le punte un po' bagnate, inoltre il nuovo taglio gli consentiva di asciugarli più in fretta. Posò l'asciugamano accanto al lavandino e si concesse un attimo per guardarsi allo specchio, il ciuffo scuro che gli ricadeva sul viso e donava ombre e luci agli zigomi appena sporgenti, le labbra rosee semidischiuse e gli occhi nocciola dallo sguardo pungente ed al contempo assente che lo caratterizzavano. Si morse il labret per il nervosismo della situazione. Era strano guardarsi allo specchio con la consapevolezza che poco dopo lo avrebbero guardato allo stesso modo un paio di occhi che lui amava. Si riscosse al pensiero e tornò in camera, riflettendo pochi secondi prima di prendere dall'armadio un maglione nero ed un paio di skinny grigi che infilò in meno di un minuto, poi lanciò uno sguardo al riflesso nella finestra. Quel maglione gli stava bene, sperava solamente che l'idea di appuntamento di Gerard non comprendesse una cena al lume di candela alla stregua dei peggiori film romantici, ma non ne era il tipo. Poi lo sguardo gli cadde oltre il vetro, verso il paesaggio di una Belleville caoticamente monotona, il cielo di un intenso blu ceruleo con pochi faci di luce dorata all'orizzonte, dove il sole era appena tramontato, qualche stella che già si affacciava timida sull'arazzo blu del cielo. Belleville era comunque una città, per quanto piccola, e le stelle erano soffocate dalle luci urbane, quindi apparivano come puntini bianchi che emanavano solo un fioco bagliore, rendendo la vista ancora più sconfortante di quanto non fosse già. Diede le spalle alla finestra e si infilò le scarpe, poi prese la giacca e scese in cucina, dove la radio accesa gli dava un po' di compagnia, visto che nemmeno sua madre era in casa per lavoro. A lei aveva detto che sarebbe uscito con i suoi amici. Non se la sentiva ancora pronto di dirle che si era messo insieme alla persona che, teoricamente, avrebbe dovuto solamente aiutarlo a farlo sentire meglio. Cosa che in realtà Gerard faceva costantemente, per quanto dubitasse che ogni rapporto psicologo-paziente comprendesse tutti i baci che loro si davano. Mentre alla radio trasmettevano delle vecchie canzoni anni '80, Frank si versò un bicchiere d'acqua, che sorseggiò con la testa altrove, canticchiando distrattamente le sinfonie, fin quando il telefono non gli vibrò in tasca. Lo tirò fuori velocemente, controllando il nome sul display. Era Gerard. Esitò un attimo prima di rispondere.
«Gerard?» disse, portandosi il cellulare all'orecchio, la mano già sulla giacca poggiata sul tavolo.
«Ehi, io sarei... sono qui fuori, sotto casa tua. Ci sei?» domandò Gerard. In un certo senso lo sollevò, sentire che anche la voce di Gerard era un po' tesa.
«Sì, sì certo.» espirò e poggiò il bicchiere sul bancone. «Arrivo subito.» chiuse la chiamata e si infilò la giacca, per poi andare alla porta di casa ed uscire. Di fuori faceva davvero freddo, se solo ci fossero state delle nuvole Frank avrebbe pensato che da un momento all'altro avrebbe potuto iniziare a nevicare. C'erano stati degli sprazzi di neve nei giorni precedenti, ma nulla di consistente, non come la tempesta che aveva bloccato lui e Gerard in casa per cinque giorni. Bastò il ricordo di quell'evento per stampagli un sorriso sulla faccia, quindi corse verso la macchina scura parcheggiata di fronte, l'aria fredda che gli pungeva le guance scoperte e trasformava il suo fiato in nuvolette.
Spalancò la porta del passeggero e si fiondò nella macchina, al fianco di Gerard. «Si gela di fuori, letteralmente.» disse, tremando ancora per l'esposizione al freddo, per quanto minima. In realtà nell'abitacolo si stava piuttosto bene, era illuminato vagamente dalla luce dorata dei lampioni e l'aria era piacevolmente tiepida. Volse il viso verso Gerard, regalandogli un sorriso. «Ciao.»
«Ciao anche a te.» replicò lui con un sorriso divertito. Aveva una giacca di pelle scura che gli fasciava incredibilmente bene le spalle, aperta su una maglia di David Bowie che dimostrava almeno dieci anni. Alle gambe, degli skinny che accentuavano la curva leggera, imperfetta ma affascinante, delle sue cosce. I capelli erano come al solito scompigliati ad arte, assieme all'illuminazione esterna creavano un gioco di luci ed ombre con gli angoli del suo viso. Sotto quella luce, anche i suoi occhi apparivano più scuri. Frank si sporse per baciarlo. «Mh, mi piacciono i tuoi capelli così.» mormorò Gerard contro le sue labbra, lasciando andare il volante per accarezzargli la guancia. «Potrei perfino pensare di dipingerti.»
«Quindi l'uscita di stasera prevede una gita alla cartoleria più vicina?» ipotizzò scherzosamente Frank, suscitando la risata di Gerard. Sfiorò le sue labbra una seconda volta prima di puntare lo sguardo sulla strada ed accendere la macchina.
«Per ora non è nei programmi.»
«E dai, mi puoi dire dove stiamo andando?» gli chiese con un tono da cucciolo ferito, cercando di mascherare la paura che lo assaliva ogni santa volta che stava in macchina con lui. Era in costante distrazione, lui ed il suo mondo pieno di arte all'interno del suo cranio. Ricordava ancora la prima sera, quella in cui si erano conosciuti, quando poi lo aveva riaccompagnato a casa in macchina e aveva rischiato di rimetterci la pelle tre o quattro volte. Però era già riuscito a fare manovra senza sbandare, il che era un buon segno.
«Newark.» rispose lui, avviandosi per la strada. «Ma non ti dirò il posto preciso, voglio che sia una sorpresa, che mi auguro ti piaccia. E guarda che la giacca puoi anche levartela, si sta bene.»
Frank si sfilò la giacca, ma non demorse. «Non mi vuoi neanche dare un indizio?»
«Assolutamente no.» la curiosità di Frank era davvero tanta, ma già dall'abbigliamento di Gerard poteva dedurre che non si sarebbe svolto in un luogo formale, e per ciò ringraziò mentalmente il cielo. Forse lo avrebbe portato a cena fuori da qualche parte, a fare una passeggiata o a vedere un film. Nella o peggiore delle ipotesi, si immaginava già a caracollare su una pista di pattinaggio in un disperato tentativo di non perdere l'equilibrio. Ma non era una cosa da Gerard, che era più invece tipo da mostra e Netflix and cuddles. Effettivamente non sapeva bene cosa aspettarsi. Si girò a guardare Gerard, il cui viso era puntato sulla strada davanti a loro, il profilo raffinato appena delineato dalla luce dei lampioni che si susseguivano velocemente l'uno all'altro, facendo sembrare la curva del viso di Gerard uno svolazzo dorato su un foglio di carta nera. Lui non si girò a ricambiare il suo sguardo, e Frank neanche si accorse di starlo semplicemente guardando, senza pensare a nulla, per una buona volta in balia del presente. Solo quando dovette girare ad un incrocio si accorse di lui, e Frank, in imbarazzo, si affrettò a distogliere lo sguardo, il cuore che gli batteva come un'ora prima, sotto la doccia. Fortunatamente, qualcosa poggiato sui sedili posteriori catturò la sua attenzione.
«Un cestino da picnic?» chiese, non poco sorpreso. «Hai intenzione di fare un picnic sotto le stelle?»
«Fa fottutamente freddo di fuori.» lo riprese Gerard, usando le sue stesse parole di prima. «E poi avremmo anche potuto farlo a Belleville, in caso. Perché non vuoi smetterla di farmi domande? Sai che non ti risponderò.»
«Non è giusto.»
«Però ti piaccio lo stesso.» asserì lui, fermandosi ad un semaforo è voltandosi a guardarlo per poi rivolgergli un sorrisetto sghembo, che ricambiò. Il battito del suo cuore alterò leggermente. Sembrava assurdo, ma gli pareva riduttivo dire che Gerard gli piacesse e basta. Era strano, la sentiva come una situazione più grande di lui, sicuramente diversa da ciò che gli era mai capitato. Con lui stava bene, lo aveva visto piangere e ridere, si erano scoperti a vicenda dal telo di ombre che li offuscava, e non potevano più fare a meno l'uno dell'altro. Come se Gerard combaciasse con lui, come se fosse la sua persona. Ed il suo cuore assumeva un ritmo diverso quando stava con lui, che solo loro due potevano sentire, batteva con la vita che aveva paura di aver perso. Eppure non si azzardava a dare una definizione diversa. «Lo sai, ti sta davvero bene questo taglio.»
«Oh, ehm, grazie.» Frank distolse lo sguardo mentre Gerard ripartiva con la macchina. «Non ci ho neanche riflettuto su tanto, a dire la verità. Ho agito d'impulso. Però mi ci sento a mio agio.»
«L'importante è questo, che tu ti senta bene con te stesso, e lo sai. Quando li hai tagliati?»
«Domenica, dopo l'audizione.»
«Mi vuoi dire come è andata questa benedetta audizione o dovrò scovarmelo da solo ricercando nei file dell'FBI?» al che Frank scoppiò a ridere, suscitando una risatina anche da Gerard, il quale stava - stranamente - proseguendo in linea retta. Di fuori, il cielo blu era punteggiato di stelle, che fuori dalla città risaltavano come polvere di diamante su velluto color cobalto. «Guarda che poi me la paghi tu la cauzione.»
«Bene, almeno spero. Non mi hanno detto nulla di particolare, solo qualche domanda di circostanza, le mie esperienze scolastiche e musicali, poi mi hanno chiesto di suonare...» al che, Frank si fermò, di nuovo in balia della sua testa.
«E...?» incalzò Gerard, riempiendo il vuoto lasciato dalla frase interrotta a metà. Frank sbuffò. Era così, gli leggeva praticamente dentro. Si abbandonò contro il sedile, lasciando vagare lo sguardo di fuori.
«Non lo so, io... È come se mi fossi lasciato prendere dalle emozioni del momento, o da tutte quelle che si erano accumulate anche prima. Ho lasciato che prendessero il sopravvento.»
«Ma non è andata male.» disse Gerard in tono cauto, facendola sembrare un'affermazione piuttosto che una domanda.
«Non lo so, non te lo so dire. Erano loro ad espormi, mi sono lasciato andare e non ho più voluto recuperare il controllo. Ho lasciato che come al solito fosse la musica a parlare per me, ed è stato come se tutto si fosse convertito nella canzone che ho suonato, tutto quello che mi era rimasto dentro e non voleva più uscire, è praticamente esploso. È stato un momento quasi strano, non ti so dire bene cosa sia successo. C'eravamo solo io e la mia chitarra, null'altro. Ho suonato il mio pezzo, e poi me ne sono andato.» Frank fece cadere la conversazione, volgendo il viso al finestrino. L'eco del turbinio di emozioni che lo avevano letteralmente mandato in confusione gli turbinava ancora dentro. Ma lui non aveva la minima intenzione di soffocare quelle fiamme, per niente. Voleva alimentarlo, dargli tanta di quella energia da mandare a fuoco se stesso e tutte le fondamenta distrutte sulle quali poggiava i piedi, per dimostrare che le stelle bruciano vivendo. Ma ancora non sapeva come convincerci, per quando gli piacesse la sensazione delle fiamme che scioglievano i suoi frammenti rotti, per poi plasmarli in una nuova creatura, si sentiva bene, però era qualcosa di nuovo. L'accettazione ed il ritrovamento di se stessi.
«Sei andato bene, posso dirtelo con certezza.» asserì Gerard, dopo un minuto di silenzio. Frank si girò a guardarlo con un'espressione interrogativa.
«Cosa intendi?»
«Hai suonato con qualcosa. Avevi delle emozioni forti da esternare e comunicare, ed essendo la musica una forma d'arte hai assolto il suo scopo, quello della trasmissione dei sentimenti. Hai detto che poi non hanno espresso alcun giudizio?»
«Già, non hanno detto nulla.»
«Perché li hai impressi. Credo che tu li abbia colpiti; non hai soltanto talento, Frank, hai qualcosa da dire, con quella che è la tua lingua, la musica. Ed ormai se ne vedono poche di persone così, per non parlare di te, che sei unico. Non c'è da biasimarli, posso solo immaginare come sia stato.»
«Non esageriamo.» lo interruppe Frank, lievemente in imbarazzo. «È stata solo un'audizione.»
«Però ha fatto scattare qualcosa di benigno in te, come un accendino, e la fiamma brucia ancora. Non solo hai comunicato qualcosa ad altre persone, ma anche a te stesso, e deve essere stato qualcosa di davvero forte.» per un secondo, gli occhi nocciola di Gerard guizzarono verso di lui, rivolgendogli uno sguardo intenso. «Non devi sottovalutare le tue potenzialità. Non devi spegnerti, okay?» la mano di Gerard si staccò dal volante e si tese verso la sua. Per quanto Frank temesse la sua guida con due mani, figurarsi con una, non poté fare a meno di sorridere a quel gesto, così intrecciò le dita con le sue, dita affusolate, mezzelune delle unghie macchiate di tempera rossa, da artista, alternate a dita piccole spesso serrate su sei corde, che si reggevano le une alle altre.
«Non lo farò.» non furono necessarie altre parole per enfatizzare il discorso, fu loro necessario mantenere il ponte delle loro mani intrecciate sempre aperto, e scoprire quanto si potesse effettivamente comunicare con solo un minimo contatto fisico. Non tornarono più sull'audizione nello specifico, nei dieci minuti di guida che li separavano dalla loro destinazione ci furono tuttavia pochi attimi di silenzio. Frank si era accorto con quanta cura Gerard scegliesse le sue, di parole, evitando concetti riguardanti suo padre, l'esercito o qualsiasi cosa potesse avere a che fare con l'incidente. Era il suo modo di comunicargli che voleva che stesse bene quella sera. E Frank, sentendosi anche in colpa, stava bene, a suo agio, probabilmente era uno di quei momenti che avrebbe etichettato per il resto della sua vita come migliori. Non era per i ricordi amari ed i ripensamenti, semplicemente per lui e Gerard. Aveva comunque colto il messaggio implicito. Se vuoi, parlane, sono qui per ascoltarti. Ma lui non voleva, e l'altro non lo forzava, quindi continuarono a stare bene insieme, concentrati solo sul presente che stavano vivendo a mani intrecciate. Frank aveva appena intravisto il segnale d'ingresso a Newark, così cominciò a prestare attenzione alla guida di Gerard, cercando di capire la destinazione finale, ma non era passato neanche un minuto che lui svoltò in una stradina sterrata sulla sinistra. Se c'era stato un cartello segnalatore non aveva fatto a tempo a notarlo, ma le buche di quella maledetta strada, sul quale si affacciavano ad intermittenza pesanti cancelli di ferro, le stava notando eccome. In poco, Gerard arrivò alla fine del vialetto, dove la strada sembrava allargarsi in una pianura, alla cui imboccatura si trovava una casupola. Si mise in coda dietro ad altre due macchine, e nonostante Frank avesse ricominciato con il terzo grado non ottenne alcuna risposta, per quanto gli si stesse formando un'idea in mente. Alla casupola Gerard comprò un biglietto, sul quale era specificato il posto macchina, così proseguì lungo il vialetto, e quando svoltò finalmente a destra le ipotesi di Frank vennero confermate. Si trattava di uno di quei cinema all'aperto, allestito come un parcheggio di modo che ognuno potesse guardarsi il film dalla sua macchina. La piccola radura era ricavata da uno spiazzo in un bosco di pini, sulle cui chiome si innalzava un telo indaco sorretto da pali, che creava un'atmosfera accogliente. Poche lampade colorate, come le lucine di Natale ma più in grande, correvano sui rami degli alberi, i più bassi, che davano direttamente sul parcheggio, in cui non ci dovevano essere più di una ventina di macchine. Gerard posteggiò velocemente e spense la macchina. In sottofondo, il ronzio di poche cicale e qualche motore ancora acceso, ma null'altro.
«Ti piace?» chiese Gerard, poggiando le braccia incrociate sul volante. Frank sorrise, non riuscendo a smettere di guardarsi intorno.
«È bellissimo, non sono mai stato in un posto del genere. Credevo fossero aperti solo d'estate.»
«Oh sì, generalmente lo sono, ma questo rimane aperto tutto l'anno con orari anticipati in inverno, tranne quando nevica o piove troppo forte. Per ora non si prevedono rovesci tali, non come la bufera di due settimane fa, quindi qualche serata in più se la può permettere.»
«Cosa c'è in programmazione per stasera?» domandò Frank, puntando lo sguardo su Gerard, che a sua volta stava ricambiando. Dietro di loro, le lampadine colorate sullo sfondo scuro sembravano i desideri che i bambini esprimevano alle 11:11, che si accendevano colorati verso il cielo.
«Giovani ribelli. Mai visto?» quando Frank scosse la testa, perplesso, gli occhi di Gerard si illuminarono. «È uno dei miei preferiti, devi assolutamente vederlo. Non ti spoilero nulla, però.»
«È bello?»
«Davvero tanto. Ha la sua profondità, se la sai cogliere.» diede un'occhiata al suo orologio, e rialzò la testa. «Ma dato che prima delle sette non inizia, possiamo prenderci tutto il tempo.»
«Per cosa?» domandò Frank, mentre Gerard si sedeva in modo tale da avere il busto rivolto verso di lui. Si sporse e lo baciò, indugiando a lungo sulle sue labbra carezzandogli distrattamente una guancia. Frank ricambiò, lentamente, come se invece di venti minuti avessero tutto il tempo del mondo, assaporò quel contatto e lo strinse a sé cingendogli il collo con le braccia, come tante volte si era immaginato di fare. Sentiva il suo respiro leggero contro il suo, e quando Gerard si staccò, aperti gli occhi, intravide il suo sguardo nocciola puntato sul suo viso. «Pensavo a questo, tu che ne dici?»
«Credo che sia una buona idea.» e fece di nuovo incontrare le labbra con le sue, come se nulla potesse esistere all'infuori di loro. Quella macchina, sebbene scomoda, era diventata la loro realtà ristretta, la dimostrazione che ad importare non fosse tanto il luogo ma le persone. E le altre vetture parcheggiate accanto a loro, le due città tra le quali avevano viaggiato, le luci, le persone, le preoccupazioni, le cicale che canticchiavano, null'altro esisteva. Frank lo sapeva, che era puro egoismo desiderare che il suo presente si riducesse a quel momento, vissuto solo da loro due, ma voleva davvero che quel desiderio egoista lo alimentasse e lo appagasse con le sue sensazioni agrodolci. Frank non sapeva dire bene quanto tempo dopo, comunque ad un certo punto la stretta di Gerard si fece meno intensa e si staccarono, così si rimise seduto composto sul sedile - che sembrava una stracazzo di incudine per quanto era scomodo - mentre l'altro si sporgeva sui sedili posteriori per prendere il cestino da picnic.
«Ho portato qualcosa da mangiare.» posizionò il piccolo cestino in precario equilibrio tra loro due. «Insomma, con il picnic ci avevi azzeccato, peccato che tanto sotto le stelle non sarà.» aprì lo sportellino della cesta prima di guardarlo. «Hai fame?»
«Un po', non tanto.» ammise, per poi aiutare Gerard a sciogliere i nodi di lacci che tenevano chiuso il cestino. Frank inarcò le sopracciglia. «Qualcosa da mangiare hai detto?»
«Non è così tanto.» replicò Gerard, guadando con un'espressione corrucciata i popcorn, le patatine e le due bottiglie di birra, poggiate accanto ad una torta al cioccolato. «La ho persino cucinata io, quella torta.»
«Ho paura ad assaggiarla.»
«Guarda che so cucinare bene, ti ho nutrito per ben cinque giorni e non ti è successo nulla.»
«Ci credo, per la maggior parte erano pizze surgelate.» proseguì Frank, senza la vera intenzione di offenderlo. L'altro intanto aveva preso un coltello di plastica e stava tagliando una fetta di dolce.
«Ripeto, tanto ti piaccio lo stesso.» gli porse la torta su un tovagliolino di carta. «Su, mangiala, voglio sapere com è.»
«Mi farai diventare grasso.» si lamentò Frank, che prese comunque la fetta dalle sue mani.
«Non sarà una fetta di torta a cambiarti. E poi sei perfetto, scricciolo come sei.»
Ignorando il battito che gli era accelerato al commento finale e si mise un boccone di torta in bocca. Era davvero buona, ed altrettanto soffice. Praticamente non ebbe il tempo di esprimere alcun giudizio, perché le luci si spensero in quel momento, e sullo schermo davanti a loro si stava proiettando un fascio di immagini. Frank si sedette a gambe incrociate continuando a mangiare in pace la sua fetta di torta, e quando sentì la mano di Gerard cercare a tentoni la sua, nel buio, gliela strinse forte, al che Gerard disse che poteva stare benissimo cercando le patatine, ma Frank lo zittì con un bacio, prima che la loro attenzione venisse catturata dal film. Si sentiva sereno, lieve come il balugino delle stelle in quella notte dicembrina, e con le dita intrecciate a quelle di Gerard assisté ai primi fotogrammi del film che si susseguivano veloci sullo schermo.
E a fine serata avrebbe dovuto dare ragione a Gerard su due cose. Primo, che sapeva cucinare, perché in totale quella era la sua terza fetta di torta. Secondo, che il film era bello. Gli stava piacendo, e neanche poco, era una storia di arte, intrecci, ed anche amore. Ed i protagonisti erano due ragazzi, entrambi con i loro ricordi ed i loro obiettivi, speranze folgoranti o ridotte ad un'ala spezzata. Nel momento in cui - finalmente - si baciarono, Frank si voltò senza neanche pensarci a guardare Gerard, per scoprire che anche lui aveva compiuto lo stesso gesto. Il suo viso, contornato dai capelli scuri, era dipinto con le ombre della notte ed il riflesso della luce dello schermo, che danzava allegra nell'abitacolo. Frank sentì due mani fare presa sulla sua vita e poi Gerard che si sporgeva per baciarlo. Un cinema all'aperto, torta al cioccolato e tanti baci, era questo il sapore del loro primo appuntamento. Frank lo strinse a sé in un goffo abbraccio, affondandogli le mani nei capelli mentre le labbra di Gerard si schiudevano contro le sue. Sapeva di cioccolata. Frank si staccò, sentiva le guance bruciargli così come una strana sensazione che gli si stava espandendo nel petto, nel cuore, nella gola, color rosso sangue. Per una volta, lui ed il suo corpo erano una cosa sola, ciò che voleva poteva esternarlo con un semplice gesto, la realtà non era più la sua prigione. Si mise in ginocchio sul sedile, per poi fare leva sulla presa che aveva sulle spalle di Gerard e mettersi a cavalcioni su di lui e riprendere a baciarlo. Sentiva la sua presa ferma sui fianchi, le dita piantate nella sua carne e la bocca contro la sua, il bacio che si stava trascinando da solo in qualcosa di più. La sua mente sembrava non funzionare, era in balia delle sue emozione, delle braccia con cui lo stringeva, del buio che li proteggeva e li avvicinava l'uno all'altro. Era bloccato tra il suo petto che si alzava e si abbassava in un ritmo lento ed il volante che gli premeva sulla schiena, per presto rimpiazzato dalle sue mani. Frank fece scivolare le dita giù dalle serici ciocche nere lungo la linea della mandibola, per il collo, sfiorare l'appena accennata linea delle clavicole, disegnando nell'oscurità il suo corpo, il suo essere, lo cercava come se fosse tutto ciò di cui aveva bisogno. Poi le sue mani si infilarono sotto la giacca di pelle, senza smettere di baciarlo, percependo appena il lembo del maglione venire sollevato per consentire alle dita di Gerard di vagare sulla sua pelle nuda. Si sentiva come un nodo caldo all'altezza dello stomaco, tutto tra torace e ventre era in un subbuglio rosso, viscerale, tanto scuro da sembrare quasi nero. Ma era colore, era vita, e quel nodo si attorcigliava sempre di più, si espandeva a tutto il suo corpo, alle gambe strette attorno al suo bacino come a chiedere un ulteriore contatto, alla testa che era in un caos in cui stranamente riusciva a capirci qualcosa, per quanto fosse in realtà nella confusione più totale e stava così bene, il cuore gli batteva forte e Gerard lo stringeva altrettanto forte a sé.
«Sai» sussurrò appena, sfiorando le sue labbra mentre componeva le parole, in un attimo di pausa, in cui tutto sembrava essersi fermato - anche i loro corpi, la loro frenetica, intensa ricerca - «non si intende esattamente questo con ti va di vedere un film stasera?»
«Divergenze di prospettive.» replicò Gerard, lo sguardo nocciola che rifletteva il film ancora in scena. Le sue iridi scivolarono lungo il suo viso, sulle sue labbra che sentiva calde e di cioccolata, giù lungo il collo, dove poi si fermò e dove si posò la sua bocca, lieve come una falena su un fiore notturno.
Era tutto come un'esperienza extracorporea, il respiro calmo che sentiva fluire fin dentro i polmoni, la sensazione estatica delle labbra di Gerard sulla vena pulsante del collo e poi di nuovo sulle sue, imploranti ed implacabili, le fiamme che si erano accese due giorni prima abbassarsi e spegnersi, diventando tizzoni ardenti di un tramonto sanguinante nel suo petto. Sentiva tutto, tutte le sensazioni attraverso tutti i sensi, come se ora potesse avere il controllo, finalmente era riuscito ad infilarsi l'involucro di carne che era il suo corpo ed il cuore gli batteva veramente. Lo sentiva battere, lo sentiva nella testa, nel suo respiro, rimbombare nella sua cassa toracica. Doveva esserci un nome per tutto ciò. Frank lo conosceva, ma come sempre, non poteva ancora pensare che si trattasse di amore.

Quando sullo schermo erano cominciati  a scorrere i titoli di coda, Frank era ancora rannicchiato contro il petto di Gerard, che a sua volta lo cingeva quasi distrattamente con le braccia, tenendogli le mani abbandonate in grembo. Era in un momento di relativa pace, con la mente quieta ed il corpo rilassato, indaco, per quanto gli pareva di aver perso la concezione di fisicità. Esisteva solo la stretta di Gerard attorno al suo corpo e la dalla contro la quale aveva abbandonato la testa, il petto che respirava contro la sua schiena ed il battito cardiaco che percepiva rimbombare come il suo, ora entrambi lenti. Almeno l'ultima mezz'ora del film erano riuscita a seguirla, per quanto, avendo perso un pezzo del corpo centrale, alla fine non era riuscito a capirlo tutto. Gli era piaciuto però, si era ripromesso che il giorno seguente se lo sarebbe riguardato a casa, da solo e senza distrazioni. Comunque non poteva di certo lamentarsi per aver avuto un contatto tanto intenso con Gerard, al contrario, per quanto lo avesse lasciato con non poca confusione. Confusione rossa, che ancora si riversava nel suo corpo miscelata al sangue.
Tuttavia la loro serata era finita, e Gerard stava guidando lungo la strada che procedeva verso Belleville. Erano riusciti ad uscire relativamente presto dal parcheggio, e nonostante i primi minuti di tragitto fossero stati animati una discussione leggera riguardo al film, apprezzato da entrambi, ben preso la conversazione era ricaduta nel silenzio. Un silenzio calmo e piacevole, che non richiedeva di essere spezzato da parole, come un lenzuolo candido, caldo di due corpi sdraiati l'uno di fianco all'altro. Gerard guidava con prudenza, e Frank con la testa poggiata contro il vetro freddo aveva lo sguardo puntato di fuori, per quanto fosse in realtà preda dei suoi pensieri. Non si sentiva stanco, più intorpidito in realtà, e continuava a rievocare il fantasma, ancora consistente, del corpo di Gerard contro il suo, sentiva ancorala pressione della sua bocca. Le sue labbra sapevano ancora di cioccolata.
Improvvisamente il motore si spense, e Frank uscì bruscamente dal suo stato di torpore, guardandosi intorno. «Siamo già a Belleville?»
«No, ancora no.» rispose Gerard, prima di mettergli una mano sugli occhi. «Prima voglio mostrarti una cosa.»
«Ma cosa... Gerard!» esclamò, quando lui spalancò la portiera ed uscì dalla macchina, facendo entrare una corrente d'aria fredda che lo investì, stordendolo e facendolo rabbrividire all'istante. «Cosa stai facendo?» cercò di mettere a fuoco il paesaggio oltre il finestrino, ma il buio non permetteva di distinguere nulla. Solo pennellate di blu su blu, quelli che sembravano alberi incappucciati dal manto argenteo della luna.
«Sht, lasciami fare.» replicò, aprendo la portiera alle sue spalle e facendolo alzare, per poi richiudere la porta e poggiargli le mani sugli occhi, impedendogli per una seconda volta di vedere. «Ti fidi di me?»
«Sì, ma non vedo cosa c'entri ora, dove siamo?»
«Vieni con me. Tranquillo, reggiti a me, non ti faccio cadere.» Frank, che stava ancora tremando per il freddo che si sentiva fuori dalla macchina, mosse appena un passo quando sentì Gerard spingerlo dolcemente. «Frankie, fidati. Voglio mostrarti una cosa.»
E forse era il suo tono sicuro, o il semplice fatto che fosse Gerard a chiederglielo, ma mosse un altro passo ed iniziò a camminare, guidato dai movimenti del maggiore alle sue spalle. Tirava un forte vento che gli soffiava in faccia, scompigliandogli i capelli e pungendo gli le guance. «Siamo appena fuori Belleville, non più di dieci minuti di guida da casa tua.» mormorò Gerard al suo orecchio, il timbro della sua voce roco e suadente. Sotto i piedi sentiva di star schiacciando foglie e rametti, come se stessero camminando nel sottobosco, il che non faceva che aumentare la paura di cadere. Ma la presa di Gerard era sicura, e continuava a farlo avanzare con passo misurato, così decise di fidarsi e di continuare ad avanzare, un vago odore di pino che gli soffiava fresco sulla faccia assieme a quello della notte.
Era strano camminare senza vedere dove stava andando, sentiva come di essere in un baratro e di star cadendo ogni secondo di più, ma in realtà stava muovendo i passi sul sottobosco. E privato della vista, tutte le altre sensazioni parevano accentuate. L'udito, il tatto, l'olfatto, sembravano stigmate e ravvivate in quel buio fittizio. Con uno schermo nero davanti agli occhi era cosciente di ogni movimenti del suo corpo, dalla respirazione alla camminata insicura, alle mani di Gerard poggiate sul suo viso, morbide e leggermente concave. In un certo senso il freddo gli stava facendo acquistare lucidità, ma non sapeva dire se fosse a causa del momento o della cecità, si sentiva ancora in un mondo-bolla color notte tutto suo, con gravità, luce e percezioni diverse, l'udito che pareva accentuato coglieva ogni respiro di Gerard che gli smuoveva appena i capelli, ed i passi soffocati dalle foglie e dall'erbetta coperta di brina, e tutti i rumori notturni, che insieme creavano un silenzioso concerto. Ed in quel mondo bolla anche il tempo era diverso, ne aveva perso la concezione, perché quando finalmente i passi di Gerard si fermarono, sarebbe potuta essere passata un'ora come meno di un minuto. Le mani scivolarono via dal suo viso, reclinando glielo verso l'alto e lasciando che il vento potesse soffiargli sul viso. Frank sbatté un paio di volte le palpebre, poi lo sguardo gli andò involontariamente verso il cielo.
Dopo il buio, ora stava ammirando la notte.
Rimase letteralmente senza fiato, cercando di alzare la testa ancora più su per ammirare la moltitudine di stelle che brillavano come miliardi di diamanti nel cielo. Gruppi, scie e costellazioni di lucciole siderali che chiazzavano quella tela di un blu colore dell'infinito. Una volta era stato all'osservatorio quando era piccolo, ed in un grande cinema circolare aveva visto proiettate sulla cupola del soffitto tutte le stelle dell'universo. Ma in quel momento era diverso, non aveva un tetto sopra la testa, e non era solo un'altra delle costruzioni artificiali dell'uomo. Il vento gli soffiava freddo sulla faccia, e la mano di Gerard era scivolata nella sua. Era la natura, quelle stelle erano vere, nessuna immagine contraffatta. Brillavano sparse nel cielo terso, così in alto che nemmeno il suo pensiero avrebbe potuto raggiungerle. Erano libere, lassù, ed era uno spettacolo magnifico, l'immensità dell'universo e la sua incondizionata libertà. A pensarci Frank si sentì minuscolo, impotente in confronto alle stelle, una persona come tante, al cui presenza o assenza non avrebbe cambiato nulla. Ma non gli dava alcun senso di sconforto tutto ciò.
«È un punto panoramico, lo ho scoperto quando avevo undici anni e sono venuto in campeggio nelle vicinanze, l'estate in cui Mikey ha rischiato di finire in ospedale a causa della sua momentanea ossessione per le api.» disse Gerard. Frank abbassò un attimo il viso per guardarlo, anche lui con il naso rivolto verso il cielo ed un sorriso di vento dipinto sulle labbra color ciliegia. «E sa di vita, quella che tanti di noi abbiamo dimenticato. Non avevo previsto di portarti qui, ma poi ti ho visto con la testa abbandonata contro il finestrino e mi è tornato in mente, così ho deciso di fare una piccola deviazione. È un posto stupendo, e sicuramente non sarò l'unico a conoscerlo. Ma non l'ho mai mostrato a nessuno. Le vedi le stelle, Frank? Guardale, quanto sono libere, quanto brillano e bruciano, sembrano degli schizzi di vernice. E a noi dà speranza vederle così, perché siamo minuscoli e nonostante tutto, ci sentiamo come se non fossimo mai abbastanza. Ma le stelle non si vedono tra di loro, sta alle persone alzare lo sguardo verso il cielo e trovare lo spettacolo della notte, quando ogni altra luce va via. Siamo come delle stelle, non ci vediamo brillare nell'universo, perché è da noi che guardiamo ciò che ci circonda, e non ne facciamo parte. Siamo spettatori. Le altre stelle in cielo ci vedono, alcune ci vedono parte di altre costellazioni, altre della loro, c'è chi ha relativamente vicino troppe stelle meno luminose per notarci. Le stelle bruciano, le persone ardono di vita, consumare se stessi per illuminare il buio che ci circonda.» Gerard parlò con voce misurata ed assorta, che sembrava venirgli da qualcosa di più profondo delle corde vocali, senza mai distaccare lo sguardo dalle stelle. Per qualche ragione, Frank pensò che le sue canzoni, quando suonava, avessero un suono simile alla sua voce. «Bruciamo nel buio. E tu le vedi le stelle, Frank?» Gerard reclinò il viso, orientandolo verso di lui. I capelli scuri erano mossi dal vento, schizzi di inchiostro che lo incorniciavano, e la luce argentea della luna che incappucciava i pini circostanti e donava riflessi astrali alle ciocche, al viso, uno stupendo ritratto d'argento ed ossidiana. Gli occhi, scuri nella semioscurità, erano puntati su di lui, le labbra schiuse in un leggero sorriso parevano riflettere la libertà del cielo della quale avevano appena parlato, come se ne conservassero l'essenza. Guardandolo, Frank provò qualcosa di strano, come se fosse bello come quel cielo sopra di loro. Blu tanto intenso da sembrare nero, stelle che bruciano come fuochi fatui di vita. Ma gli occhi di Gerard erano solo per lui, quella persona che era uno svolazzo di luce notturna, irreale, astrale, nel buio della realtà, lo stringeva per mano. Si accorse che nei confronti di quel cielo limpido e di Gerard provava le stesse sensazioni, completamente coinvolgente e rinvigorente come un soffio notturno, che quasi si sentiva vivo. Per l'ennesima volta nella serata, cercò un suo bacio, la pressione leggera delle labbra contro le sue, le stelle che continuavano a brillare lassù. Pareva tutto così irreale.
«Credo di poterle vedere, sì.» ammise, staccandosi da lui senza smettere di guardarlo negli occhi. Di nuovo nella magia del buio, riusciva ad ammirare le stelle. Non gli serviva la vista per avere coscienza di se stesso, la scintilla era scattata e stava bruciando, per il semplice fatto di essere vivo. E Gerard aveva ragione, guardando il cielo, o la società, non si era mai sentito parte di tutto ciò, non vedeva luce attorno a sé. Ma lui bruciava, e di conseguenza stava illuminandosi la zona di buio a cui apparteneva. Tuttavia, se riusciva a vedersi, era solo perché qualcuno era riuscito a mostrargli la luce invece di accecarlo. Bruciare, come una stella infuocata, lasciare che la combustione ti consumi per sfolgorare nel buio della notte. Voleva essere vivo, essere luce, magari anche annientarsi un giorno, ma non prima di essere bruciato anche lui. Non era più buio. Ed accanto a lui, Gerard era ancora una creatura siderale di ombre e luce argentea, con la mano stretta alla sua, e gli faceva battere il cuore come la notte. E tu le vedi le stelle, Frank?
Ti vedo, Gerard. «Gerard.»
«Sì?»
«Credo di essermi innamorato di te.»




















a/n
✨✨✨✨✨✨✨✨✨✨
lunghetto, n'est pas? oh be', come ho detto prima, per ovvie ragioni, non ho potuto dividerlo. ma va bene così, credo, sono successe tante cose che non starò qui a raccontare e boh, non so da dove ho ritirato fuori la forza di scrivere ma poi mi è improvvisamente tornata ed eccomi di nuovo qui, con un capitolo che non ho nemmeno ricontrollato - che quindi sarà eww e full of typos, li correggerò a tempo debito - che ho completato ora, canticchiando life on mars? come una pura deficiente
dunque, arriviamo al punto. in tre o quattro capitoli finisce la storia, e mi dà uno strano pensiero tutto ciò. ma intanto è arrivata a 10k ed io boh, non immaginate neanche quanto vi sia grata, davvero, non lo potete immaginare. è un'emozione stupenda, sorrido al solo pensarci e al vedere che la leggete e che ad alcuni di voi piace pure, grazie, davvero tanto

mboh, vi volevo mettere un disegno frerardoso ma ho il 3g con le disabilità quelle serie e non me lo carica, che due palle. thnx per aver letto, spero vi sia piaciuto, e anche a life_for_books che mi ha fatto vedere giovani ribelli e lo ho amato, u r my star
oh be', vi ho annoiato abbastanza, ed ora che arriva l'estate se posso darvi un consiglio, una sera, andateci davvero fuori città a vedere le stelle, lasciate che l'arte vi prenda da dentro e vi colpisca, diventate blu come un cielo stellato e non spegnetevi mai //hxpelessaromantic

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