dear psychologist 【 frerard 】

By hxpelessaromantic

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« sai, succede molto spesso che il paziente si innamori del suo psicologo, è un meccanismo involontario. ma c... More

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By hxpelessaromantic

Si dice che i migliori amici si distinguano dagli altri amici in un giorno di pioggia. Mentre se un normale amico ti vede senza ombrello ti sorride e ti fa spazio sotto al suo in modo tale che tu non ti bagni, un migliore amico ti lascerà sotto la pioggia battente a ridere di te sotto l'ombrello. Ecco, da quel punto di vista Bob si era appena guadagnato il titolo di migliore amico, con tanto di lode e bacio accademico. Alla fine della serata per la sua festa di compleanno, su cui era meglio soprassedere, prima di andarsene via gli aveva dato un portadocumenti in plastica colorata in cui era contenuto uno spartito di una canzone da fare con la chitarra, promettendogli che non appena gli avrebbe fatto sentire la canzone suonata correttamente e soprattutto come solo un professionista avrebbe saputo fare gli avrebbe dato il vero regalo, ossia un amplificatore nuovo che aveva già comperato e a detta sua era impacchettato nel suo appartamento ed altro non aspettava che consegnarglielo. Frank avrebbe voluto dirgli che per quanto gli riguardava poteva consegnarglielo pure in quel preciso istante (erano mesi che Frank desiderava un amplificatore nuovo di zecca), ma ormai gli era stata lanciata una sfida e Bob avrebbe potuto benissimo dimenticarsi di darglielo, per cui aveva preso con riluttanza il portadocumenti e si era messo all'opera praticamente dalla sera stessa per lavorarci su. Non gli era servito un genio per capire che il brano in questione era difficile da suonare, proprio per niente. Però già dai primi accordi gli era parso di riconoscere un certo ritmo familiare, per cui aveva provveduto a cercare su internet la successione delle note scritte, dato che Bob da bravo pezzo di merda aveva provveduto ad oscurare titolo e autore con un pennarello indelebile nero, ed aveva trovato qualche risultato. Era abbastanza convinto si trattasse dei Nirvana, doveva aver già sentito quella canzone ma in quei giorni non aveva né il tempo né la voglia di andare a risentirsi tutti i CD che aveva. Aveva di nuovo (e appena) litigato con Gerard, e la cosa lo stava facendo impazzire, perché quella era l'ultima cosa che voleva fare, ossia litigare con lui ed essere costretto a separarsene contro la sua volontà. Il fatto che lui si fosse congedato dalla sua "festa" con un cenno della mano e senza neanche guardarlo dritto negli occhi ave a contribuito a rendere la sezione della sua mente adibita ai filmini mentali ed alle paranoie ancora più efficiente di prima. Si era immaginato almeno una decina di scenari tragici, ed una di quelle finiva addirittura con un'invasione di cani in città. Non che a Frank dispiacessero i cani, tutto il contrario a dire la verità, però immaginarsi una scena che pareva il misto tra The Walking Dead ed una mostra canina lo aveva lasciato più che perplesso. Parlando seriamente Frank sapeva benissimo che nessuna navicella a forma di osso sarebbe mai atterrata in New Jersey ed avrebbe fatto sbarcare migliaia di cani-zombie, però il concetto rimaneva sempre lo stesso: aveva litigato con Gerard, c'era qualcosa di mezzo, un tasto debole probabilmente, forse appartenente al suo passato, che Frank aveva inavvertitamente portato a galla così causando un disagio in Gerard, qualcosa di tanto grave ed oscuro da causargli un atteggiamento da asociale passivo-aggressivo per tutta la serata. E sempre rimanendo sul piano razionale aveva paura che non sarebbero riusciti a chiarire, che magari sarebbe stata la volta definitiva e lui avrebbe finito di frequentarlo. O peggio, Gerard sarebbe diventato semplicemente un personaggio marginale di quel periodo di vita. Se la colpa era sua ne era tremendamente mortificato, avrebbe voluto correre da lui e scurarsi per qualsiasi parola sbagliata avesse detto, ma era perfettamente cosciente del fatto che non avrebbe potuto farlo. Oltretutto non rivedeva il ragazzo da esattamente la sera della sua festa, in quanto gli era stato detto che doveva recuperare alcune lezioni all'università e stava un po' male. Frank sospettava che non fosse del tutto vero, per quanto anche Mikey a pranzo si lamentava sempre di suo fratello raffreddato che tossiva un po' troppo spesso. Forse dopotutto con la scusa dell'influenza sarebbe potuto andare a trovarlo, magari lo avrebbe trovato in casa e lo avrebbe potuto stringere in un abbraccio caldo, confortevole e voluto da entrambi, gli avrebbe potuto chiedere scusa lasciando che le dita gli scorressero inavvertitamente tra quei capelli che l'ultima volta gli erano apparsi fili di seta color neve. A pensare quanto avrebbe desiderato avere il coraggio di farlo e smetterla di incapocciarsi sulle sue paranoie l'amplificatore promesso da Bob sembrava essere diventato una futile graffetta in mezzo al disordine della sua scrivania. Frank carezzò distrattamente le corde della sua chitarra, lasciandole suonare a vuoto. Doveva rimettersi a lavoro se voleva concludere qualcosa con la chitarra. Oltretutto secondo la tabella di marcia che si era scarabocchiato sul diario per quel pomeriggio aveva ancora mezz'ora prima che si sarebbe dovuto mettere a studiare matematica, di cui il giorno dopo aveva una verifica. Teoricamente doveva fare solo alcuni esercizi di rinforzo e magari ripassare le formule, ma non voleva comunque trascurare lo studio.
«Frank, io vado okay?» sua madre aprì la porta e fece capolino con la testa, cogliendo Frank di sorpresa mentre stava ancora facendo scorrere le dita sulle corde. Il ragazzo si girò di scatto; sua madre aveva la giacca indosso. «Mi raccomando, aspetta me ed i nonni per fare qualsiasi cosa. Il loro treno arriva tra poco.»
Come ogni anno in quel periodo i suoi nonni arrivavano da Newark e stavano con loro fino alla festa del Ringraziamento. A Frank i suoi nonni piacevano, erano una compagnia piacevole ed il fatto che non fosse sempre perennemente a stretto contatto con loro rendeva quelle visite periodiche ancora più piacevoli. Era contento di rivederli dopo che era passato tanto tempo. Il ragazzo annuì in risposta alla madre, passando lentamente le dita sulle corde metalliche della chitarra.
«Vai tu da sola?»
«E' meglio così, almeno per stavolta.» Linda fece una smorfia e guardò fisso la finestra della camera di Frank, tutta punteggiata di minuscole gocce di pioggia che cadevano incessantemente col loro fruscio caratteristico rendendo annebbiata la vista del cielo plumbeo. Be', il freddo stava decisamente marciando verso Belleville. «Non voglio che tu prenda un malanno. Ripeto, non toccare nulla, sarò di ritorno per l'ora di cena con i nonni. Ho preparato le lasagne vegetariane. E non stare tutta la serata a ciondolare con la chitarra. A dopo.»
«Non sto ciondolando.» borbottò lui, ma sua madre si era già richiusa la porta alle spalle. Frank sospirò e pescò uno Skittle dal pacchetto aperto e semivuoto sul comodino, poi si portò il confetto sulla lingua ripassando mentalmente gli accordi fin dove era arrivato. Quando sentì la porta di sotto chiudersi riprese in mano la chitarra e se la mise a tracolla, per poi alzarsi e portare immediatamente la mano sinistra sulla paletta. Doveva ammettere che suonare in piedi era confortevole, non gli dispiaceva affatto. Se prima voleva provarci dopo cinque minuti già gli facevano male le braccia, ora che invece poteva tenere la chitarra a tracolla era tutto molto più semplice. E sì, si sentiva anche parecchio realizzato. Doveva ringraziare solo Ray, Mikey e Jamia per il regalo che gli avevano fatto. Jamia. Con lei non ci aveva ancora parlato. Almeno, si erano scambiati dei saluti a scuola quando si incrociavano per i corridoi o quando andavano a lezione insieme, ma lei sembrava essere più distaccata e tendeva a nascondersi dietro i capelli come se fossero una protezione. Frank aveva paura di sapere il motivo di tale comportamento, eppure si augurava che Jamia non avesse frainteso tutto quando lui una settimana prima non l'aveva respinta sulla soglia di casa. Insomma, lo aveva baciato o qualsiasi cosa fosse quel misero sfregamento di labbra. Sicuramente non era qualcosa di non intenzionale, però anche lei aveva bevuto un po' di birra quella sera, forse lo aveva fatto senza neanche pensarci. Frank si trovò ad augurarsi che fosse così, che veramente Jamia non si illudesse che qualunque cosa stesse cercando di fare ciò sarebbe stato ricambiato. Frank non aveva mai capito perché la gente usasse il termine "farfalle nello stomaco" per indicare una situazione di tensione o comunque riferito ad un contesto romantico. Con Gerard mica aveva sentito le farfalle nello stomaco. Si era sentito leggero, privo di ogni forza gravitazionale o legame o qualsiasi altra lo tenesse ancorato al suolo, aveva sentito tutte le terminazioni nervose andare in fibrillazione e mandare questo impeto leggero di scioglimento da ogni vincolo di sinapsi in sinapsi nel sangue diventato pura, fluida energia e nelle ossa, attraverso i suoi polmoni, diventati improvvisamente minuscoli ed incapaci, fino al suo cervello. Era una sensazione soffice e come di fresca elettricità statica, come quando d'estate ti si rovescia addosso un secchio d'acqua fredda quando tu stai bruciando al sole. Era quel brivido freddo mentre i raggi ti riscaldavano pigramente la faccia e scioglieva i deboli legami delle molecole, facendoli ben presto diventare aria e donandoti una sensazione di vivido e piacevole calore, un morbido piumone sotto il quale rifugiarsi a Gennaio mentre fuori le intemperie davano pieno sfoggio di sé e sotto cui leggere o creare contesti assurdi e sognati godendosi quel lieve tepore che mano a mano ti scioglieva la tensione e ti faceva sorridere senza ragione. Quello era stato bello, fantastico a dir poco. Frank conservava gelosamente quel ricordo, ed associava tutto ciò al luogo comune delle farfalle nello stomaco. Eppure in quell'altro contesto non aveva sentito queste fantomatiche farfalle battere freneticamente le loro alucce sfiorandogli la pelle e rendendolo tanto sensibile, anzi, al massimo aveva sentito uno sciame di vespe ronzare pigramente in tutte le sue cavità mandando un sordo allarme a tutto il corpo, un allarme che segnalava un difetto nel sistema. Non sapeva cosa avrebbe potuto significare quel gesto per Jamia, ma per Frank era solo una prova in più a sostegno della sua più ferma convinzione. Che le labbra di Gerard gli erano piaciute da matti. Si accorse di essere rimasto per parecchio tempo sugli stessi tre accordi e si vergognò di se stesso. Mordendosi il labbro staccò le mani dalla chitarra per poi ricominciare tutto daccapo, stavolta con più forza, con tutta la forza di oppressa ribellione che aveva sempre dentro di sé nei confronti di ciò che gli si rivoltava contro in quel piccolo mondo. Che Jamia fosse cosciente o no di ciò che stesse facendo gli aveva fatto un regalo molto utile, del quale ora che ci si fermava a pensare neanche la aveva ringraziata. Avrebbe potuto farlo per messaggio, ma sarebbe stato davvero patetico. La fascia gli era tanto utile, la teneva sempre attaccata. Sicuramente era più utile della finta lezione morale di Bob con tutta la storia dell'amplificatore e del brano. Che poi gli stava facendo venire in mente una nuova melodia tutta sua che poco c'entrava con tutto il resto, ma in quel momento non si mise alla rincorsa di quel filo disperso nel flusso di pensieri. Sorrise di sé quando fece un passaggio un po' complicato quasi perfettamente. Mentre Bob aveva fatto il migliore amico da giornata di pioggia con raffreddore assicurato, sua madre la mattina dopo lo aveva fatto risvegliare con un pacco regalo incartato ai piedi del letto. Poco ci mancava che lo risvegliasse intonando chissà quale canzoncina di compleanno, eppure si era come evoluta da madre formato Harry Potter, briciole di popcorn e tuta di due taglie in più per star comodi ad una donna in carriera orgogliosa del figlio che cresceva. Gli aveva regalato un cappotto di buona fattura, blu scuro e molto caldo. Lo aveva definito un "regalo da grandi", che avrebbe comunque potuto continuare ad usare negli anni a venire e per lungo tempo. Gli piaceva quel cappotto, per quanto le maniche fossero un po' troppo lunghe per lui, però era bello, comodo e caldo, inoltre il pensiero era carino. Linda aveva anche accennato al fatto che quell'inverno gli sarebbe potuto essere utile, visto il freddo che stava facendo. Si diceva anche che avrebbe nevicato attorno alla festa del ringraziamento, cosa alquanto improbabile in un normale anno, ma Frank cominciava ad accettare quell'ipotesi. Insomma, sua madre gli aveva regalato un indumento utile e confortevole che lo avrebbe protetto dalla morsa del freddo, invece per quanto riguardava l'altro ramo della discendenza... Zero totale. Suo padre non lo aveva neanche contattato per fargli gli auguri. Dentro di sé era arrabbiato con lui per averli lasciati così, senza alcun preavviso o monito, come se loro non contassero nulla. Era infuriato più che arrabbiato, gli voleva bene e lui si comportava in quel modo, prima programmava un divorzio all'interno della famiglia e poi se ne andava. Spariva. E non dava più notizie di sé. E per questa apparente noncuranza Frank lo odiava. Insomma, avrebbe almeno potuto mandargli un telegramma o qualcosa del genere per il suo compleanno. Gli sarebbe bastata un'e-mail con un messaggio. Nulla. Da suo padre aveva ricevuto il silenzio. Ricordava che gli anni precedenti per quanto a volte si ritrovasse impegnato col lavoro gli faceva recapitare una lettera o lo chiamava. Sua madre aveva accennato ad una missione e ad alcune simulazioni di massima importanza, ma due minuti per suo figlio se li sarebbe comunque potuti ritagliare, no? Sbagliò di nuovo due accordi e per la rabbia staccò le mani dalla chitarra, fermandosi un attimo ad ascoltare il soffuso ticchettio delle gocce che precipitavano contro il vetro. Le punte delle dita stavano diventando insensibili, almeno quanto la scorza superficiale dell'apparenza di suo padre. Non doveva pensarci. C'erano sicuramente dei motivi alla base di questo comportamento. Ne era sicuro. Ci doveva essere qualcosa, sebbene ciò non lo giustificasse minimamente. Si sentiva impotente ed odiava quella costrizione. Odiava non poter fare nulla, eppure in quel momento non riusciva neanche a capire i problemi che stavano alla base che dovevano essere risolti. Prima che la situazione potesse prendere il sopravvento si sfilò di dosso la chitarra e scostò la sedia dal tavolino. Invece di sedersi là sopra si appollaiò sul bordo del tavolo e prese un respiro profondo, autoconvincendosi che non fosse successo nulla, che era tutto nei parametri. Aspettò pazientemente che il battito sordo del cuore si calmasse e che la sua mente non elaborasse altri pensieri nocivi alla sua stabilità in quel momento, poi guardò la chitarra poggiata sul letto. A quel punto era inutile continuare, e poi il giorno dopo avrebbe avuto la verifica, non poteva continuare a rimandare il momento in cui avrebbe cominciato il ripasso. Con un'insolita calma tirò fuori dallo zaino libro e quaderno e si mise a copiare alcuni esercizi sulla carta. A mente fredda ragionava meglio, ed infatti era quasi riuscito a finire il terzo esercizio quando vide dalla finestra là accanto una macchina parcheggiare di fronte casa sua. Era sicuramente quella di sua madre, infatti poco dopo ne uscirono sua nonna e la donna in questione, che li aiutò a prendere le valige dal portabagagli. Si mise a scrivere i numeri più velocemente possibile finché il rumore della porta d'ingresso che si apriva non gli fece poggiare la penna d'istinto.
«Frank, dove sei finito caro? Non ci vieni a salutare?» la voce di sua nonna lo chiamò dal piano di sotto, per cui il ragazzo si stampò un sorriso in faccia ed uscì dalla porta di camera sua, andando verso le scale dalle quali poteva intravedere sua madre che portava a fatica due valige mentre il nonno contemplava con occhio critico un piatto messo sulla tavola apparecchiata. Sua nonna invece lo aspettava in piedi in mezzo al salotto con le mani puntate sui fianchi. Sua nonna era una persona veramente particolare per la sua età: era quel tipo di nonna che in macchina non si faceva problemi a fare infrazioni a destra e a manca, portava con tutta tranquillità la spesa da sola ed era anzi una persona molto attiva. Sempre sorridente, sempre lì a spronare chiunque avesse accanto. Non si avvicinava al classico stereotipo di nonna, per niente. Innanzitutto non sapeva cucinare, odiava i centrini in pizzo con tutta se stessa e cosa più spettacolare quando le capitava tra le mani uno dei CD di Frank non commentava. Anzi, una volta Frank le aveva fatto ascoltare In Utero dei Nirvana, il suo CD numero uno, e le erano pure piaciuti. Per citare le sue parole, hanno grinta quei ragazzi. Le piacevano per giunta i tatuaggi del nipote.
«Frank, vieni qua che voglio salutarti per bene.» lo esortò lei, avanzando spedita verso di lui e trascinandolo in un abbraccio stritolatore. «Mi è mancato così tanto mio nipote, sono contenta di rivederti. Ed ora hai pure diciotto anni, quanto cresci in fretta. Mi ricordo io, alla tua età, che litigavo con mamma e papà perché non volevano farmi fare la patente. E tu la patente ce l'hai?»

Anche io ci litigo con i miei, ma non per ciò che pensi tu, nonna.

«I polmoni nonna, ti prego...» riuscì invece a dire, trovando quella stretta un po' troppo invasiva per quanto altrettanto affettuosa. Fortunatamente sua nonna capì subito e lo mollò all'istante, sorridendogli gioiosamente.
«Scusami, hai ragione, è che sei mio nipote ed è difficile trattenersi. E poi stai diventando proprio un bel ragazzo.»
Probabilmente agli occhi di sua nonna sarebbe apparso bello anche con un sacchetto dell'immondizia addosso ed un birillo in testa, ma gli faceva piacere il calore con cui lo aveva salutato. Poco più in là, suo nonno si stava sistemando gli occhiali sulla punta del naso mentre analizzava da vicino il piatto di ceramica. Suo nonno era così. Stacanovista come pochi, mite, pacato, un tranquillo ruscello in mezzo alla campagna. Aveva lavorato come oncologo praticamente fin quando non lo avevano cacciato dall'ospedale a calci, dove poco dopo aveva fatto il suo ingresso speciale la figlia Linda. L'hobby post-pensione di suo nonno era diventato uno ed uno soltanto. Guardare, guardare tutto e trovare le minime differenze ed imperfezioni del quadro generale, che se erano relative a qualche macchia in casa o ad un paio di granelli di polvere provvedeva immediatamente a cancellare con stracci e spruzzino. Suo nonno e sua nonna erano l'uno l'opposto dell'altra e si completavano a vicenda quasi perfettamente. Erano un bel modello di coppia per Frank. Per lui anche i suoi genitori erano così. Be', almeno lo credeva.
«Linda, hai lavato i piatti con il sapone, le pagliette, la spugna e l'acqua corrente fredda?» domandò sospettoso per poi alzare lo sguardo dalla tavola. Sua madre alzò preoccupata la testa dalla borsa in cui stava cercando con ogni probabilità le chiavi della macchina per prendere le restanti borse.
«Le ho messe in lavastoviglie papà.»
«E ce le ha le pagliette la lavastoviglie?»
«Thomas, la lavastoviglie lava i piatti. Tranquillo, non ci sono germi.» lo riprese la moglie corrugando la fronte come faceva sempre quando suo marito si fissava con qualcosa. «Non morirai per soffocamento da batteri, puoi starne certo.»
«Sì, ma la lavastoviglie ha le pagliette o no?»
«La lavastoviglie non ha le pagliette.» intervenne Frank. Suo nonno si girò verso di lui e gli sorrise affabilmente, aggiustandosi gli occhiali sul naso con un gesto che gli ricordò Mikey.
«Come va a scuola, Frank?»
«Non c'è male.» ammise, avanzando verso di lui e salutandolo con un breve abbraccio. Sapeva che sotto sotto suo nonno gli voleva bene, a prescindere che andasse bene o meno a scuola. Rispose ad un paio di domande sull'andamento generale della sua vita mentre dietro di loro la nonna aveva cominciato a rimproverare Linda perché stava cercando di portare da sola di sopra le loro valige senza che lei la permettesse di aiutarla.
«Non sono una carcassa decrepita, Linda. Dammi la borsa.»
«Mamma, ti prego, vai a sederti con gli altri a tavola, vi raggiungo in due minuti...»
«Io ti ho generata, io porto la borsa.»
«Non fare la difficile, per me è un piacere e basta. Ehi voi, intanto sedetevi, ora riscendo.» concluse sua madre, per poi essere sostituita dal rumore delle sue scarpe sugli scalini. Frank si sedette di fronte a suo nonno, cominciando a giocherellare pigramente con la forchetta.
«Tua madre è una zuccona.» asserì sua nonna sedendosi là accanto. Guardò fisso suo marito che aveva ripreso a fissare il piatto. «Thomas, cosa fai?» lui alzò lo sguardo verso quello della nonna con una serietà impassibile.
«Poi voglio vederla, questa lavastoviglie.»

La cena trascorse in un bel clima di tranquillità. La nonna ed il nonno chiesero loro molte cose, ma alla maggior parte delle domande rispose sua madre, mentre Frank si limitò a godersi in santa pace la sua porzione di lasagne vegetariane intervenendo poche volte nel discorso. Né lui né sua madre fecero accenno a Gerard. I nonni avrebbero potuto ricevere l'informazione nel modo sbagliato, come effettivamente tutto il resto delle persone. Non avrebbero potuto effettivamente sapere quale legame si stesse formando tra i due, avrebbero potuto giudicare quelle visite occasionali come una conseguenza di chissà quale strana malattia mentale di Frank, mentre lui non faceva altro che giovarne da quelle visite. Gerard lo aiutava veramente tanto, e gli piaceva almeno altrettanto, aveva trovato una persona che anche all'infuori di un contesto forzato avrebbe potuto aiutarlo, o qualcuno con cui condividere dei momenti di vita, figura che a Frank mancava. Aveva paura del giudizio della gente riguardo a ciò, per quanto molte persone a Belleville fossero andate prima o poi da Way Senior. Non voleva essere giudicato e basta, voleva tenerlo solo per sé. Voleva tenerlo solo per sé quanto finalmente si sentisse come se una corda attorno alla sua vita si fosse stretta per sostenerlo in caso di caduta e quanto Gerard gli piacesse, come il primo raggio di sole a filtrare tra le nuvole in un'umida mattinata di Febbraio.
«Frank, dimmi un po'» fece sua nonna, richiamando la sua attenzione. Poggiò con cautela la forchetta sul bordo del piatto e guardò sua nonna accanto a lui. «La suoni ancora la chitarra elettrica?»
«Sì, mi esercito praticamente ogni giorno.» ammise, per poi prendere il bicchiere d'acqua davanti a lui. «Perché?»
«Tu sai suonare bene, mi chiedo, perché non provi ad entrare ad un'accademia di musica? Guarda che tu faresti carriera.» Frank praticamente si strozzò con l'acqua quando sentì le sue parole. Ad un'accademia di musica, lui? Era e sarebbe sempre stato un sogno, ma assolutamente no. Sogno era e sogno sarebbe dovuto rimanere.
«Io? Ma no, non sono abbastanza bravo e...»
«Non mi interessa, dovresti provarci. Se non ci provi nella musica io non so seriamente in cos'altro potresti provarci.»
«Ma no, sul serio. Sto ancora al liceo, poi dovrei andare all'Università.»
«Ti accettano anche se hai diciotto anni.» sua nonna si ficcò una mano in tasca e ne tirò fuori un paio di opuscoli, che piazzò davanti al piatto di Frank senza troppe cerimonie, mentre sua madre guardava attentamente la scena. «Vedi? La New York Music Academy è molto interessante sotto questo punto di vista, e se la musica è la tua passione dovresti andarci. Le audizioni sono aperte tra due settimane fino a Natale, mica prendono tutti, ma sono sicurissima che ti prenderebbero senza neanche fiatare.»
Frank allungò una mano e prese il primo opuscolo che gli capitò sotto mano, stampato in blu e rosso su carta bianca. C'erano foto del campus e alcuni testi relativi alle lezioni e alle offerte che l'Accademia offriva. Aveva sotto le mani un qualcosa che avrebbe potuto cambiargli la vita. Forse non così radicalmente, ma per la prima volta riusciva a vedersi in un futuro da qualche parte a tentare di fare qualcosa. Percepì immediatamente il desiderio di andarci, di correre là subito ed entrare a farne parte. Aveva un'opportunità e non voleva farsela scappare di mano, ora che finalmente gli era capitata davanti un'occasione del genere, che gli piacesse e gli suscitasse delle emozioni così forti e destabilizzanti da far volare via tutto pur di andare avanti lui da solo con la sua chitarra. Poi intercettò lo sguardo di sua madre e le emozioni scemarono un po'. Sapeva quanto lei in realtà volesse che conseguisse degli studi tali da donargli la prospettiva di un futuro stabile, e sicuramente il musicista non rientrava in questa categoria. Però non poteva rimanere neanche tutta la vita costretto negli schemi che gli altri prospettavano per lui.
«Ci penseremo mamma.» disse secca sua madre. «Per ora, volevo parlare con te i quella cosa relativa a Newark...»
Per il resto della cena Frank rimase in silenzio al suo posto, ascoltando distrattamente ciò che si dicevano gli altri tre seduti a tavola. Ogni tanto l'occhio gli scappava sui fogli ancora aperti là davanti. Ora la verifica di matematica gli era del tutto passata di mente. Una cosa però era certa. Quella sera, quando era finita la cena ed era tornato in camera sua per finire il ripasso e poi mettersi a letto, aveva stretti in mano gli opuscoli, impossibili da leggere visto che era notte fonda e la lampada era spenta. Tuttavia Frank li ripose nel cassetto del comodino, e si prima di addormentarsi si ripromise di non lasciarsi sfuggire quell'opportunità di decidere per una buona volta dove direzionare la sua vita.

La NYMA in qualche modo lo accompagnò per tutta la giornata a venire. Nonostante il compito che avrebbe avuto dopo pranzo la NYMA e tutte le preoccupazioni che ne conseguivano occuparono uno spazio non indifferente nella sua mente. Dalla mattina mentre faceva colazione all'ora di biologia in terza mentre cercava di autoconvincersi a prendere nota della spiegazione del professore ma era come al solito troppo distratto. Persino a ricreazione, in quel quarto d'ora in cui poteva ritrovarsi con il trio più uno di scapestrati vicino alle macchinette dell'ingresso, si ritrovò ad inciampare un paio di volte su quel pensiero, chiedendosi con semplice e trepidante curiosità cosa avrebbe fatto di quegli opuscoli e di quella strana, insensata voglia di farlo. Persino quando Jamia si fermava ad osservare qualche secondo di troppo il suo viso, indugiando sulle labbra che per chissà quale motivo aveva baciato, persino se stava cercando di trovare una risposta al perché Jamia lo avesse baciato. Persino quando Mikey, dopo la pausa pranzo, riversava la sua ansia su di lui.
«Ti prego, non avere un attacco d'ansia in mezzo al corridoio. Sai bene che non so come gestirli.» disse Frank lievemente spazientito mentre assieme ad un Mikey visibilmente in agitazione varcava la scuola per raggiungere l'armadietto. L'altro sbuffò, ma si vedeva da come stringeva i libri tra le mani, quasi morbosamente, che era tesissimo.
«E se ci chiede cose che non abbiamo studiato?» domandò Mikey per poi tirare su col naso, seguendolo verso l'armadietto. «E se prendo una F?»
«Tu non prenderai mai una F.» decretò Frank in risposta, svoltando nel corridoio laterale e evitando vari ragazzi che camminavano nella direzione opposta chiacchierando allegramente tra di loro. Mikey, fradicio di raffreddore come uno straccio caduto nell'acqua, era del tutto nel panico per l'imminente verifica di matematica che si sarebbe tenuta da ì a pochi minuti e aveva supplicato Frank di dargli alcuni degli appunti che gli aveva prestato. Il problema era che Frank li custodiva nel folder. Ed il folder stava nell'armadietto. Ed essendo l'armadietto in corridoio ci volevano la tredicesima e la quattordicesima fatica di Ercole per raggiungerlo agli ultimi minuti di ricreazione, ora di punta nei corridoi scolastici.
«E se mi capita il compito più difficile?»
«I compiti sono a fila unica, Mikey.»
«Va bene, ma se non ho i fogli o mi si scarica la penna?»
«Te li presto io.»
«Le formule ce le hai tutte?»
«Sì, stanno tutte sugli schemi.»
«Ma se sbatto la testa contro lo spigolo del banco?»
«Perché dovresti sbattere la testa contro lo spigolo del banco?»
«Che ne so, magari inciampo e vado in coma e devo recuperare il programma di tre anni in una sola verifica.»
«Se ora non fai un bel respiro e ti calmi ti faccio sbattere io la testa contro lo spigolo.»
Fortunatamente erano riusciti ad arrivare all'armadietto di Frank, che non ne poteva più delle manie ansiogene dell'amico. Che poi rischiava pure di attaccargli il raffreddore, e sinceramente non sarebbe andato in visibilio alla vista di due settimane a base di fazzoletti e vitamina C. Si sbrigò ad aprire l'armadietto e a pescare ciò che gli occorreva dal fondo dell'armadietto. Quel portadocumenti faceva un continuo andirivieni tra casa e scuola. Ci ficcava dentro schermi, mappe concettuali e pagine di appunti. Un po' disorganizzato, ma aiutava un sacco in caso di ripasso. Si girò per passarlo a Mikey, ma probabilmente l'ultima volta che lo aveva usato non aveva richiuso per bene gli anelli, per cui alcuni fogli si sfilarono dalla cartellina e caddero a terra frusciando. Frank dovette prendere un grosso sospiro per calmarsi. Gli ci mancava solo quella. Si inginocchiò e raccolse alla rinfusa i fogli sparpagliati sul pavimento. Anche Mikey si era chinato e lo stava aiutando, prendendo alcuni dei fogli ed impilandoli per bene. Tuttavia, quando Frank finì di raccogliere quelli caduti e li ebbe rimessi al loro posto si accorse che Mikey si era fermato a guardare un foglio. Si era persino calmato.
«Mikey, si può sapere che stai facendo?»
«Frank, questo non è uno scherma.» asserì il ragazzo girandosi verso di Frank e sventolando il foglio che teneva stretto fra le dita. L'espressione seria che Frank intravedeva attraverso gli occhiali lasciava intendere che il ragazzo fosse serio. Frank si chinò e gli prese di mano il foglio, che sembrava una lunga lettera scritta a mano. In quel momento non gli importava neanche granché, non appena fosse arrivato a casa gli avrebbe dato un'occhiata.
«Sì okay, ricorda che ora abbiamo il compito.» ribatté Frank prendendo tutti gli schemi, lasciando a Mikey solo quelli che gli occorrevano per poi chiudere l'armadietto e correre verso la classe di matematica. Non poteva sapere che su quella lettera c'era scritto qualcosa che, in un certo senso, lo avrebbe segnato a lungo andare.

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«Frank, noi stiamo andando va bene?» domandò sua madre infilandosi il cappotto mentre il ragazzo rimase seduto in santa pace sul divano a leggere, affondato tra i cuscini. Quella sera sua madre ed i suoi nonni sarebbero andati a cena fuori e poi a vedere uno spettacolo o un film o robe del genere che Frank non aveva capito più di tanto. «Frank, perlomeno rispondimi.»
«Sì, ho capito.» mormorò, per poi tirare su col naso. Maledizione a Mikey alla sua ansia ed al raffreddore che con ogni probabilità gli aveva attaccato.
«E soffiati quel naso.»
«Lo ho già fatto.»
«Almeno copriti, santo cielo. Guarda che poi ti ammali e stai a casa in quarantena.»
Frank alzò gli occhi al cielo annoiato dall'eccessiva apprensività della madre. Se a lavoro era un'infermiera mica voleva dire che anche a casa si doveva comportare da tale. Girò una pagina e infilò per bene le mani nei polsini della felpa per tenerseli al caldo, mettendosi più comodo con la schiena contro i cuscini del divano. In quel momento, col caminetto a bioetanolo acceso e il divano stracomodo era la stanza in cui preferiva stare, nonostante sua madre stesse facendo un casino con le chiavi cercando quelle di casa ed in mezzo a tutto quel tintinnio Frank non riusciva a leggere e rilassarsi. Magari si sarebbe potuto fare una cioccolata calda. Frank girò la pagina e continuò indisturbato a leggere finché sua madre non si diede pace con la borsa ed anche i suoi nonni la raggiunsero. Lo salutarono e finalmente uscirono di casa. Frank richiuse immediatamente la porta, tremando per il freddo improvviso che era entrato in casa. Tornò ad accoccolarsi in un angolo del divano, riprendendo Addio alle armi tra le dita e sfogliando per tornare alla pagina dove aveva terminato. Nonostante il caldo crepitio della fiamma e la calma dettata dai toni soffusi dell'ambiente circostante mancava qualcosa. Dai cuscini del divano pescò il telecomando ed accese il televisore già impostato su MTV Music, la mise ad un volume basso e sospirò. Gli piaceva passare le serate in quel modo quando si sentiva rilassato ed in pace con se stesso. Sorridendo beato si accoccolò ancora di più tra due cuscini e riprese a leggere, soffermandosi poco dopo su un pensiero. Effettivamente, mancava qualcosa. Frank si disse da solo di darsi pace, però si girò verso la cucina e prese di nuovo in considerazione l'idea della cioccolata calda. In fondo nessuno in quel momento avrebbe potuto dirgli di no, con sua madre ed i nonni in giro per la città. Si alzò ed andò in cucina, pescando la bottiglia di latte dal ripiano del frigo e versandone un po' in un pentolino, per poi metterlo sul fornello acceso. Il vero problema arrivò quando gli toccò arrivare alla credenza dove stava il cacao, ma in un modo o nell'altro riuscì a prendere sia il barattolo del cacao che quello dello zucchero, che mise insieme in una tazza pescata dalla credenza lì vicino. Aspettando che il latte si riscaldasse si sedette sul bordo del tavolo, tamburellando col le dita il ritmo di Wake Me Up When September Ends che risuonava dal salotto. Erano quelli i momenti della sua vita che preferiva. Quando non c'erano pensieri negativi a disturbarlo e punzecchiarlo, con della musica di sottofondo e la calma che gli scioglieva i muscoli e le tensioni, facendolo sentire finalmente in pace. Non succedeva spesso, ma quella sensazione di tiepida tranquillità lo colmava e lo riempiva, assopendolo. Se avesse dovuto dargli un colore sarebbe stato l'arancione. L'arancione della prima alba a Maggio, degli aranci appena nati che crescono carezzati dal sole, l'arancio delle zucche intagliate a lanterna al cui interno danzava allegra una fiamma. L'arancio gli scendeva dal sorriso fino alle punta delle dita e cancellava per un po' il nero. Il rumore squillante del campanello cancellò per un attimo le note della canzone proveniente dal salotto. Frank sbuffò. Se c'era una cosa che invece detestava era essere disturbato in quei momenti. Si staccò dal ripiano in legno e spense il fornello prima di andare verso la porta d'ingresso. Probabilmente era sua madre che aveva incasinato troppo le chiavi l'una con l'altra oppure gli stava portando un libro intitolato Come soffiarsi il naso per bene, cosa che Frank non avrebbe mai e poi mai imparato a fare. Invece, quando si alzò in punta di piedi e scrutò attraverso lo spioncino vide un ragazzo dai capelli neri che si stringeva nel suo cappotto, con le guance arrossate ed un portadocumenti in carta sottobraccio. Okay, cosa ci faceva Gerard fuori dalla porta di casa sua in una normale serata come quella?

«Perché sei qui?» gli chiese, facendo scattare in chiavistello ed aprendogli la porta in modo tale che potesse entrare in casa. La corrente fredda lo investì, proprio come lo sguardo degli occhi nocciola del ragazzo sulla soglia, ricolmi di gratitudine.
«Adesso te lo spiego e... Ehm, posso entrare? Si gela un po'.»
Frank si accorse di star bloccano lo spazio aperto dalla porta, per cui mormorando una scusa si scostò di lato lasciando entrare Gerard, i cui capelli erano tornati neri come la notte più buia. «Allora, me lo dici perché sei qui?» formulando la domanda Frank cercò di nascondere lo stupore dovuto a quella visita improvvisa. Non lo vedeva da giorni e si erano separati con freddezza, invece ora si ripresentava a casa sua come se nulla fosse successo, con le gote adorabilmente rosse e gli occhi che si guardavano veloci attorno, cercando di inquadrare chissà cosa. L'ultima volta in quel corridoio ci stavano litigando, ora ci si stavano scambiando dei sorrisi imbarazzati appena accennati.
«Be', mi sono accorto che al tuo compleanno mi sono presentato senza portare nulla, e quindi mi sono ripromesso di...» con un certo impaccio prese il portadocumenti in cartoncino da sotto la manica e lo porse a Frank. «Di darti questo, non appena avessi avuto il tempo.»
Oh. Frank ci mise qualche secondo a metabolizzare le parole ed il loro significato. Gerard gli aveva appena portato un regalo per il suo compleanno, nonostante non fosse per niente obbligato a farlo. Si sentiva una traccia di raffreddore nel suo tono di voce, però non si era fatto problemi a venire e fargli una sorpresa. Una calda sensazione gli si irradiò dal centro del petto a tutto il corpo. Allungò una mano e afferrò la cartellina, fredda al tatto.
«Io, cioè, grazie.» borbottò, confuso dalla situazione e da Gerard che lo osservava tranquillo. «Ti va, non so, di fermarti un po'? Posso offrirti qualcosa se ti va, o anche no... Vuoi fermarti?»
«Mi farebbe piacere.» Gerard accettò con un sorriso che gli illuminò tutta la faccia, anche le guance che lentamente stavano riacquisendo il loro naturale colore. Frank gli sorrise e con un gesto lo invitò a seguirlo mentre andava verso la cucina. Il latte fumava ancora dal pentolino.
«Vuoi qualcosa? Un tè, oppure una cioccolata calda?» propose, levando il pentolino dal fuoco mentre Gerard si toglieva il cappotto e lo poggiava sullo schienale di una delle sedie attorno al tavolo. Frank sporse un braccio verso la superficie di legno per poggiare la cartellina e prendere la sua tazza. Gerard si era seduto e si stava sistemando i capelli scuri dietro le orecchie, poi spostò lo sguardo su di lui.
«Hai del caffè?»
«Del caffè? A quest ora?» per poco Frank non si rovesciò il latte bollente sulla mano.
«Fidati, potrei bere il caffè anche alle quattro di notte.» commentò l'altro mentre lui gli si sedeva di fronte, circondando con le mani la tazza di cioccolata calda che emanava un piacevole tepore. Borbottò un caffeinomane che lo fece ridere leggermente.
«Allora, posso averlo questo caffè o devo stare qua a farmi insultare?» disse Gerard in tono divertito. Frank accennò un sorriso e si alzò per prendere la caffettiera ed una tazza in più dalla credenza. Era strano. Tutte le preoccupazioni per il suo futuro erano sparite in quel momento, perché in qualche modo si era aggiunto un mattone alla costruzione che riguardava la sua vita. Il mattone era quella scena lì: sì, ci si vedeva seduto attorno ad un tavolo davanti a Gerard, ai suoi capelli scuri e le labbra sottili che lo pregavano di fargli un caffè. In una casa calda, confortevole, in una sera tranquilla e a ridere con lui, che era tanto adorabile quando spontaneamente si lasciava andare ad un gesto tale, come se tutti i fili che mantenevano la sua rigida armatura esterna si allentassero per un attimo e lo lasciassero respirare. Era strano ma ci si vedeva, anche in un futuro più o meno prossimo.

Pochi minuti dopo, quando Gerard ebbe ottenuto la tanto agognata tazza di caffè ed i due si erano alzati per andare in soggiorno, Frank si sentì in imbarazzo. L'angolo destro del divano era costellato di fazzoletti appallottolati che si era dimenticato di buttare, e sul bracciolo giaceva il libro mezzo aperto di Hemingway. Si morse il labbro. Avrebbe potuto almeno dare una pulita.
«Hemingway?» notò Gerard con curiosità, avvicinandosi per osservare il libro più da vicino. «Stai leggendo Addio alle armi per un compito scolastico?»
«Veramente lo sto rileggendo.» puntualizzò lui sedendosi sul divano in modo da nascondere i fazzoletti abbandonati sui cuscini. Gerard – anche lui raffreddato, con ogni probabilità – lo guardò incuriosito, per poi sedersi accanto a lui stringendo la tazza fra le mani. Frank la poggiò sul tavolino lì accanto.
«Quindi lo hai già finito?» Frank annuì, guardando distrattamente i video musicali mandati dalla televisione. «E quale dei quarantasette finali preferisci?»
«Tutti e quarantasette.»
Una ruga sottile si formò tra le sopracciglia di Gerard, che si girò a guardarlo, il profilo appena lambito dalla tiepida luce del camino. «Cosa intendi?»
«Che mi piacciono tutti e quarantasette.» spiegò, raccogliendo le gambe vicino al busto. Prima di proseguire, prese un sorso di cioccolata calda. «Non riesco ad immaginare il libro completo con uno solo dei quarantasette finali, ma solo con tutti e quarantasette mi sembra finita. E' ciò che la rende particolare. E solo con tutti si riesce ad avere una visione completa del libro e dei suoi messaggi.»
Gerard parve soppesare le sue parole. Frank lo notò dal suo sguardo apparentemente assente ma allo stesso tempo concentrato, dalla linea sottile tra le sue sopracciglia e dalla bocca rosa chiaro appena piegata di lato. «È una riflessione molto interessante. Quanto a me, preferisco il finale in cui... Posso prenderlo?» Gerard accennò al libro e Frank annuì, prendendolo e porgendoglielo. Nel prenderlo dalle sue mani gli sfiorò inavvertitamente le dita. «Dovrebbe... Eccolo, il numero trentacinque.» indicò il numero stampato in nero sulla carta color avorio. «"So che di notte non è come durante il giorno; che le cose della notte non si possono spiegare durante il giorno perché non esistono, e la note può essere terribile per le persone sole una volta che hanno iniziato a essere sole..."»
Frank pensò che Gerard aveva una bella voce da lettura. Oltre al timbro melodico e particolare che aveva di natura era bravo a leggere. Era scorrevole, scandiva per bene tutte le sillabe ed in più riusciva a canalizzare nelle sole parole i sentimenti che probabilmente lo stesso autore voleva rimanessero impressi nella carta per essere comunicare con le lettere. Aveva quel tipo di cadenza che potevi ascoltare per ore senza stufartene. Aveva veramente una bella voce. Dapprima Gerard lesse tutto il trentacinquesimo finale, ma poi proseguì e lesse anche il trentaseiesimo. A Frank non disturbava né annoiava, rimase attento per tutti i finali e li ascoltò, come se su di loro si fosse gettata una nuova luce. Verso il quarantaduesimo finale senza neanche accorgersene poggiò la testa sulla spalla di Gerard, sentendo il morbido tessuto della felpa accarezzargli la guancia. Gerard aspettò due secondi in più del necessario per proseguire con la lettura del quarantatreesimo, ma quando Frank lo incitò con un lieve cenno del capo, lui voltò il viso verso il libro. Le pupille gli si erano un po' dilatate e le guance leggermente arrossate, ma Frank non ci fece caso e rimase in vigile ascolto degli ultimi finali, accompagnando la voce con la lettura delle parole, potendo anche lui vedere il libro. Quando anche il quarantasettesimo finale venne letto, non alzò la testa. Stava bene così, stava veramente bene, l'arancio si era trasformato in rosso, non rosso sangue o rosso fuoco, ma di un rosso intenso e denso, era diventato del rosso dei capelli di Gerard nei suoi ricordi, un rosso dal quale poteva anche farsi soffocare.
«È strano.» rifletté Gerard ad alta voce dopo qualche minuto, tenendo il libro tra le mani, Voltò la testa di lato in modo che le ultime parole fossero pronunciate contro i capelli scuri di Frank. «Io non dovrei stare così bene così.»
«Cosa intendi?» Frank chiuse gli occhi mentre la testa di Gerard si poggiava sulla sua, ed i due si abbandonarono l'uno contro l'altro.
«Non dovrei stare così bene con te, Frank. Io non riesco più a capre cosa stiamo facendo. Eppure è bello, è stupendo.»
Frank sfilò la testa dalla spalla di Gerard e si girò a guardarlo. Una mano gli salì alla sua guancia e gliela carezzò con lentezza, godendosi la morbidezza di quella pelle bianca, appena lambita dal fuoco basso. Di nuovo quella sensazione rossa gli andò fino alla punta delle dita. Gli occhi di Gerard, le sue pupille dilatate dello stesso colore dei capelli che gli ricadevano disordinati attorno al viso, erano di un pungente nocciola in quell'ambigua illuminazione serale, tutto gli stava mandando in estasi i sensi. La vicinanza di Gerard, le dita che appena gli toccavano la guancia, la sua voce da lettura ed il fiato che aveva un vago aroma di caffè. Sentiva che non erano solo vicini fisicamente, in un qualche modo stavano riuscendo ad essere connessi ad un altro livello, qualcosa di più intimo ed irraggiungibile. Gerard gli stava smuovendo qualcosa dentro che Frank da tempo credeva rotto, malfunzionante, fossilizzato. Gerard aveva preso quello scarabocchio accartocciato che era e stava riempiendo gli spazi vuoti con dei colori, con mille di tutte quelle sfumature che spaziano dai quattrocento ai settecento nanometri. Lo stava rendendo un'opera d'arte.
«E ti dispiace?» domandò a bassa voce, abbassando suo malgrado lo sguardo sulle sue labbra. Ora gli era difficile immaginarselo come psicologo e basta. Gerard abbandonò il viso contro la mano semiaperta di Frank, desideroso di averlo tutto per sé quel viso. Sentì un sorriso formarsi contro le sue dita.
«Proprio per niente.»

Rimasero così, semiaccucciati sul divano per un periodo indefinito, entrambi a chiedersi perché tutto ciò stesse accadendo, mentre il fuoco nel piccolo caminetto mano a mano svaniva e si spegneva e fuori il buio si intensificava sempre di più. Non si dissero nulla, solo ad un certo punto Gerard prese la sua mano ed intrecciò le dita con le sue, stringendogliela forte. Frank ricambiò la stretta con altrettanto desiderio, altrettanta forza. Si stava lentamente assopendo, cullato da quel torpore risultato dalla presenza di Gerard accanto a lui che lo scombussolava tanto dolcemente, quasi come una pila di foglie autunnali si disfaceva e ricadeva a terra quando una corrente di vento leggero le passava sopra. E si creava un mosaico di colori stupefacenti sui toni del giallo del sole e del porpora autunnale. Gerard lo faceva sentire così. Ma il tempo donato loro non era infinito, per cui anche Gerard dovette andare via a un certo punto. Frank lo accompagnò alla porta a cuor leggero. Sembrava come se il suo cuore battesse all'interno di un guscio d'ovatta che attenuava tutto e lo rendeva più sicuro, più puro.
«Allora... Ci vediamo prossimamente, va bene?» fece Gerard, voltandosi a guardarlo un ultima volta. Frank annuì e non perse neanche un secondo a smettere di guardarlo, le dita che stingevano nervosamente i cordoncini del cappuccio ed il nero profondo della giacca. Ancora quell'attaccamento profondo che lo vincolava a lui. Poi aprì la porta, ed il freddo improvviso in qualche modo contribuì a far perdere un po' del magico a quell'istante.
«Io vado.» disse, esitando solo per un attimo con quegli occhi nocciola sul viso di Frank prima di sporgersi e pressare per pochi istanti le soffici labbra sulla sua guancia. Prima che potesse rendersi conto di aver appena ricevuto da lui un bacio sulla guancia Gerard si era già voltato e se n'era andato. Chiuse la porta per poi portarsi una mano alla guancia, vaghi e disordinati fotogrammi della serata che facevano a gara nella sua mente per rievocargli per primi dei ricordi: la tazza di cioccolata bollente fra le dita, il freddo pungente del vento che lo aveva accompagnato all'entrata, le guance tinte di un rosa appena accennato, il finale numero trentacinque, il tepore, lo spigolo della clavicola contro la tempia, la cartellina portadocumenti.
La cartellina portadocumenti. Gerard gli aveva portato un regalo e lui se l'era persino scordato. Si era fatto tardi e Frank cominciava ad avere sonno, ma tornando per il salotto prese le tazze dal tavolino e le portò in cucina, lasciandole nel lavandino con un po' d'acqua a sciacquarle. Poi focalizzò la cartellina in cartoncino abbandonata sul tavolo. In un angolo c'era scritto in un bel corsivo Per Frank. Null'altro, solo il destinatario. Frank si sedette e mosso dalla curiosità sfilò l'elastico che la teneva chiusa, poi la aprì. Dentro c'era un solo foglio di un bianco panna. Con un fruscio Frank lo girò, riconoscendo a primo impatto la figura. Sussultò. Quel pomeriggio lo ricordava bene. Ricordava bene anche quello. La carta portava ai bordi i segni di un'esposizione non troppo prolungata all'umidità ed i tratti neri erano un po' eccessivamente sfumati, ma era praticamente lo stesso. Come dimenticarlo

Tra le dita stava stringendo il suo ritratto a carboncino.


















A/n
Ecco a voi la vostra Frerard c: che poi in realtà dovevano litigare alla fine ma ho deciso di mantenerla così. Non chiedetemi come mi sia saltata in mente sta cosa di Addio alle armi ma l'ho letto quest estate, mi è piaciuto e non so perché lo ho messo senza neanche accorgermene. E sì, ha veramente quarantasette finali diversi.
Ho saltato una pubblicazione, lo so, ma già per pubblicare ora ho dovuto fare un casino, perché il router Wi-fi è finito, io avevo la bozza sul computer (che non ho neanche controllato eww perdonatemi per gli strafalcioni) e non sapevo come passarla al telefono senza connessione santocielo. Godetevi il capitolo che nonostante un paio di accenno riguardanti il futuro della storia è calmo. Tra un po' arrivano le bombe.

Per chi fosse interessato: è stata aperta su Instagram la pagina @/thecornfake, è un'idea bellissima riguardante uno spazio comune per esprimersi senza paura di giudizi. Passateci se volete. Alla prossima //hxpelessaromantic

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