dear psychologist 【 frerard 】

By hxpelessaromantic

29.5K 2.5K 1.3K

« sai, succede molto spesso che il paziente si innamori del suo psicologo, è un meccanismo involontario. ma c... More

【 one 】
【 two 】
【 three 】
【 four 】
【 five 】
【 six 】
【 seven 】
【 eight 】
【 nine 】
【 ten 】
【 eleven 】
【 twelve 】
【 fourteen 】
【 fifteen 】
【 sixteen 】
【 seventeen 】
【 eighteen 】
【 nineteen 】
【 twenty 】
just want you to read this
【 twenty one 】
【 twenty two 】

【 thirteen 】

1.4K 104 72
By hxpelessaromantic

«Ehi voi due, smettetela immediatamente!» strillò la professoressa mentre in qualche modo riusciva a farsi strada attraverso il capannello di gente che si era radunato attorno ai due, commentando sottovoce e lanciandosi piccoli cenni con le mani. Frank, ancora ribollente di rabbia, si sforzò di tenere fermo l'avambraccio e di non far cadere il pugno sulla faccia dell'altro ragazzo, che dal canto suo cercava di fare lo stesso ma mirandogli al petto. Il moro prese un profondo respiro e con la testa che gli ronzava fece ricadere il braccio lungo il fianco, cercando di non pensare alle scintille di adrenalina che internamente lo alimentavano come un fuoco, ma provando a concentrarsi sul freddo dolore delle unghie conficcate nel palmo, del taglio che aveva sul labbro o dei pensieri che correvano veloci senza lasciargli l'opportunità di decifrarli. Si impose di riprendere fiato con una velocità normale, e con un immenso sforzo represse tutto l'odio che provava per il ragazzo che gli stava davanti e chiuse gli occhi, voltando la testa di lato. Era vagamente consapevole degli altri studenti che ancora lo guardavano e parlottavano a basso volume come fosse una bestia da circo, ma era ancor più consapevole di tutti i suoi nervi in tensione, del sangue caldo che gli fluiva nelle vene e dello stesso corpo di cui era prigioniero, con i capelli tutti scompigliati, la maglietta spiegazzata e qualche livido sospetto qua e là. Quando trovò il coraggio di riaprire gli occhi, ovvero pochi secondi dopo, Frank si ritrovò la professoressa a scrutarlo con sguardo truce e le mani sui fianchi. Be', non che quello fosse un ottimo incentivo per tornare alla realtà. Si ficcò a forza le unghie nella pelle della mano.
«Si può sapere cosa è successo qui?» domandò quella in tono austero, continuando a spostare lo sguardo tra i due ragazzi. Frank si levò i capelli dalla faccia con un gesto nervoso, sforzandosi di non sbuffare. Guardi, proprio nulla, stavo prendendo il tè con questo coglione qua accanto.
«Ci scusi prof.» azzardò il ragazzo alla sua sinistra alzando gli occhi al cielo, un rivolo di sangue che gli colava giù dalla narice destra, per non parlare delle tumefazioni che di lì a poco gli sarebbero spuntate su torace e braccia, merito dei colpi e delle nocche doloranti di Frank. A riguardarlo in faccia gli veniva voglia di prenderlo ancora a pugni, ma represse l'istinto con un sospiro profondo.
«Questo non mi spiega di certo l'accaduto.» replicò l'insegnante in tono amaro, puntando lo sguardo su Frank. Lui prese a mordicchiarsi l'interno della guancia, tutto pur di non lasciar trasparire la tensione che come un elastico si stava allentando dentro di sé. Incrociò le braccia. «Allora, volete dirmi cosa è successo o devo estorcervelo in maniera meno piacevole?»
«Mi ha provocato.» rispose Frank secco. Verso la fine dell'ora di letteratura inglese quel cretino che aveva accanto a cui sanguinava il naso e tutto il resto aveva avuto la grande idea di scrivere su una quantità indefinita, ma di sicuro molto grande, di bigliettini la parola Pansy, poi li aveva appallottolati e si era messo a lanciarglieli. All'inizio Frank, come di suo solito completamente esente e distaccato dal resto del mondo, era intento a guardare un punto fisso della lavagna col mento poggiato sulla mano e neanche se ne era accorto, ma quando le piccole collisioni avevano cominciato ad intensificarsi lo aveva intravisto con la coda dell'occhio comodamente seduto al banco dietro ridacchiare e strappare pezzetti di carta da un foglio, con tanta euforia e concentrazione che un bambino mentre giocava con le macchinine avrebbe solo potuto ammirarlo. Allora si era limitato ad ignorarlo, pensando che prima o poi avrebbe smesso da solo, ma quando alla fine dell'ora si era ritrovato colpito da una media di cinquanta palline, tutte sparpagliate per terra sotto la sedia, sul banco ed un paio anche nel cappuccio, si era alzato ed allontanato in fretta con solo la direzione per la mensa in testa - tutto pur di uscire da quell'aula seduta stante, inoltre aveva pure appuntamento con Mikey - l'idiota aveva avuto la grande idea di chiamarlo appena fuori dalla classe, di farlo girare e di tirargli un'intera pagina di quaderno appallottolata su cui era scritta col pennarello nero la parola con cui si divertiva tanto ad offenderlo, causando così le risate del resto della classe che aveva assistito con tanta gioia anche al mitragliamento cartaceo. A quel punto Frank non ci aveva visto più e, mosso da un impeto accecante, lo aveva spinto al muro senza tanti complimenti e gli aveva rifilato un colpo in pieno stomaco, che poi era stato corrisposto ed in breve tempo si era trasformato in un vero e proprio picchiarsi. Ma forse da riferire sarebbe stato lungo, lo avrebbe fatto solo se strettamente necessario. Non c'era alcun bisogno di auto-umiliarsi. Inoltre era troppo concentrato ad affondarsi i denti nella carne dell'interno della guancia per aprire la bocca e spiccicare ancora parola.
«Questo non vi dà comunque alcun diritto di prendervi a pugni. La violenza è da evitare in questa scuola.» replicò la professoressa, che nel frattempo aveva allontanato gli studenti ammassatisi attorno a loro, sebbene qualcuno ancora lo guardasse da lontano. «Iero, è la terza volta nel mese che ti vedo coinvolto in qualcosa del genere. Dovrei mandarti dal dirigente, ma per questa, ed ultima, volta chiuderò un occhio. E tu invece,» il suo viso si spostò verso l'armadio a due ante accanto a lui ed assunse un'espressione contrariata. «Vai a farti medicare in infermeria, ti sanguina il naso. Mi auguro di non assistere mai più a qualcosa del genere, anche perché non sarò così indulgente, con nessuno dei due. Non prenderò provvedimenti disciplinari seri, ma questo influirà sulla vostra condotta finale. Ora andate, su.» concluse sbrigativamente, per poi fare dietrofront e andarsene in mezzo a tutti gli altri ragazzi che ammassavano il corridoio. Tra questi Frank intravide anche una testa munita d'occhiali che ben conosceva, per cui si sforzò di non guardarsi indietro e di camminare verso Mikey in modo disinvolto, per quanto glielo consentisse la rigidità degli arti dovuta alla rabbia.
«Possibile che tu non riesca a stare neanche un giorno senza fare a botte con qualcuno?» gli domandò non appena fu abbastanza vicino da poterlo sentire. Frank sbuffò e si issò per bene lo zaino pesante sulle spalle, seguendo l'altro verso la mensa. «Insomma, non tanto, ma neanche un giorno.»
«Ieri non è successo.» replicò, notando che la sua voce si era fatta roca e seccata.
«Ma l'altro ieri sì.» effettivamente non poteva dargli torto da quel puto di vista, ma non era mica colpa sua se improvvisamente quello che gli pareva metà istituto avesse riscoperto la gioia di rompere le scatole a Frank Iero. Erano praticamente due settimane che la gente aveva ripreso a lanciargli commenti acidi o ad attaccarlo fisicamente, lanciandogli i palloni a ginnastica quando invece si stava giocando a pallavolo o tornando ad appellarlo femminuccia o debole. E così Frank, già dal canto suo composto per il 70% non da acqua, bensì da ansia, tensione, in pratica una miccia impregnata di benzina, non faceva altro che cedere improvvisamente e dare sfogo alla sua ira fisicamente. Era come se fosse sul costante punto di esplodere, tutte le preoccupazioni accumulate fino a quel periodo erano probabilmente giunte ad un livello massimo di sopportazione, ed anche un minimo squilibrio nell'ambiente riusciva ad innescare una reazione spropositata. Era qualcosa che rasentava i suoi attacchi di sconforto che ormai non lo trovavano più impreparato, perché il processo era simile: la stessa incapacità di focalizzarsi su un pensiero diverso, la stessa impressione che tutto gli si stesse restringendo addosso che provocava una conseguente claustrofobia ai polmoni, la stessa voglia di prendersi la testa fra le mani e di urlare di smetterla, il respiro grosso, il battito accelerato ed un riflesso che lo costringeva a far scattare qualcosa, una gamba od una mano, in quel caso sulla faccia di qualcuno. Ricordava molto ciò che gli accadeva prima, ma le due azioni erano ai totali antipodi. Questa forza strana, invece di ancorarlo al fondo sudicio di un pozzo nero colmo di disperazione ed umido di lacrime represse, lo allettava su e lo costringeva ad arrampicarsi a mani nude col dolore che vibrava nei nervi, graffiando di sangue le mura e alimentando col fuoco della rabbia le stesse energie che gli facevano stringere i denti ed andare avanti. Era un invito a farsi avanti e reagire, un pistone che veniva compresso improvvisamente, facendo agitare tutte le molecole presenti nell'aria di un moto confuso ed irrazionale. E Frank aveva perso l'autocontrollo di accantonare il pensiero. Non lo subiva più, ora lo prendeva per la testa e gli tirava una ginocchiata in faccia.
Cosa che poi si rifletteva spesso su chi lo aveva provocato: dell'altro giorno aveva ancora dei leggeri lividi sulle braccia, ma lui non si era mai fatto nulla di serio. Scendendo le scale per arrivare al piano di sotto si portò due dita alla bocca, e se le ritrovò coperte da un velo rosso e viscoso. Si morse il labbro ed il sapore ferroso lo accompagnò per il resto della camminata verso la mensa. Con Gerard non aveva parlato dei suoi repentini scatti d'ira, che fossero dovuti a qualcuno che lo provocava o che fossero totalmente immotivati, con lui aveva cercato di non farne parola. Ormai con Gerard le cose stavano andando esattamente come sarebbero dovute filare dall'inizio tra psicologo e paziente: si vedevano un paio di volte a settimana e Frank mano a mano lo introduceva alla sua vita confusionaria e monotona, gli parlava del suo rapporto con gli altri ed il peso che sentiva si scioglieva poco per volta, aiutato dal calore del sorriso e dei gesti dell'altro quasi fosse stato fatto di cera. Si stava cominciando ad abituare alla sua vista come solo psicologo e nulla di più, e andava benissimo così. Gerard lo ascoltava con attenzione e seguiva attentamente i suoi gesti e le parole che diceva, intervenendo poche volte e dandogli alcuni consigli mirati per tentare di farlo interagire con qualcuno di diverso da Mikey, Ray e Jamia. Gli aveva detto di non aver paura di farsi avanti, che la maggior parte dei pensieri e delle congetture che si faceva erano un riflesso delle sue ansie da adolescente ed era normale averle, esattamente quanto era normale che fossero totalmente assurde quanto fuori contesto. Doveva solo superare quella minima barriera tra pensare ed agire, cosa che generalmente si riusciva a fare agendo d'istinto. E Frank d'istinto ci stava agendo, però forse in una maniera un tantino diversa da quanto Gerard si immaginava. Che poi cosa Gerard pensasse di lui non ne aveva la minima idea, e spesso se lo chiedeva, anche se stava entrando in pace con l'idea che di lui non dovesse pensare nulla di così particolare, come si era prefissato era solo il suo psicologo ed andava benissimo così. Non avevano più parlato né della volta in cui Frank aveva consolato Gerard né del bacio alla fiera d'arte, ormai un'inaccessibile ricordo di sabbia, ma per il moro non era un così grosso problema. Probabilmente se durante una delle sedute si fosse rimesso a pensare al fatto che quelle labbra sottili, proporzionate e di un rosa tanto chiaro che sembravano colorate con un pastello a cera erano state sulle sue per qualche secondo di un tripudio autunnale, e gli avevano trasmesso con quel minimo contatto al sapore di lacrime e caffè tante di di quelle emozioni che al solo pensare di elencarle gli sarebbe ribattuto il cuore o venute le vertigini, insomma, se si fosse messo a pensare a tutto questo o ai suoi capelli che gli scivolavano freschi tra le dita mentre lui dormiva quietamente poggiato su di lui, così perfetto e distante, avrebbe totalmente sbroccato, altro che risse occasionali a scuola, sarebbe sbroccato psicologicamente. Non voleva neanche pensarci, era meglio reprimere tutto in un angolino buio che poi scattava improvvisamente nei momenti meno opportuni sotto forma di rabbia violenta. Già, era meglio così.

Erano arrivati alla mensa in ritardo, per cui per i due fu difficile riuscire ad immettersi nella coda per ritirare il pranzo, decisamente spropositata quel giorno nonostante il tutt'altro che piacevole odore di cotoletta fritta stantia che aleggiava nell'aria viziata. La fila oltretutto si muoveva lentamente, per cui passò almeno un quarto d'ora prima che potessero raggiungere il bancone e prendere una cotoletta scongelata (che Frank affibbiò gentilmente a Mikey dopo che la cuoca lo aveva costretto a prenderla) e un po' di pasticcio di verdure, una delle poche cose decenti in quella mensa. Tenendo il vassoio tra due mani riuscirono ad avvistare un tavolo vuoto nell'angolo, così ci si buttarono praticamente sopra di peso, solo per notare che c'era un'enorme chiazza d'umido sul soffitto, proprio in corrispondenza della testa di Mikey, il quale stava guardando con estrema riluttanza il piatto che aveva davanti.
«Non fare quella faccia.» lo riprese Frank, rimestando il pasticcio di verdure con la forchetta. L'altro gli lanciò un'occhiata glaciale.
«La dici facile tu, mi ha affibbiato la tua cotoletta. E queste cose sono unte quanto la morte.»
«La morte non è unta.»
«Era tanto per dire.» sospirò e si decise a mangiarla. «Resta comunque il fatto che tu me l'abbia deliberatamente mollata nel piatto.»
«Diritti vegetariani.»
«Vegetariano un corno, sei aggressivo quanto un leone in gabbia.» Frank stava per prendere la bottiglietta d'acqua dallo zaino, ma si fermò a metà del gesto. Guardò Mikey con la fronte corrugata. «Ma sì, ti saresti dovuto vedere prima. Sei saltato addosso a quell'armadio senza neanche pensarci due volte, e lui neanche ha provato a reagire. Sembravi veramente una furia.»
Ecco spiegato perché Frank si era fatto poco e niente, se si potevano trascurare le mani intorpidite ed il taglio sul labbro che aveva finalmente smesso di sanguinare. Evidentemente si era incazzato così tanto da attaccare e basta, però se provava ad immaginarsela la scena sarebbe risultata veramente strana: lui, minuto ed irascibile, che saltava addosso ad un tizio di almeno un metro e ottanta e lo riempiva di pugni. Frank si morse il labbro.
«Guarda che io...»
«Ehi Frank, Mikey.» una voce femminile lo interruppe, così Frank alzò lo sguardo e vide accanto a Mikey Jamia e Ray in piedi coi vassoi in mano. Lei gli sorrideva. «Vi dispiace se ci sediamo qui?»
«No, anzi.» rispose l'altro scrollando le spalle, così che Jamia poté scivolare nel posto libero accanto a Frank, mentre Ray si mise sulla panca accanto a Mikey. Per qualche strano motivo iniziò a fissargli la forchetta.
«Stavamo pensando» disse la ragazza, sfilandosi la giacca di dosso e portandosi con un gesto nervoso la treccia corvina sulla spalla sinistra, mentre i suoi occhi si guardavano intorno cauti per poi fissarsi su Frank, che finalmente riuscì a tirare fuori dallo zaino la boccetta d'acqua. «Il trentuno è il tuo compleanno, ormai manca poco. Dovremmo organizzare qualcosa.»
«È il tuo compleanno?» chiese Mikey alzando un sopracciglio. Frank sospirò ed annuì. Non amava particolarmente il giorno del suo compleanno, soprattutto perché coincideva con la festività di Halloween quindi le feste che tentava di fare da bambino finivano inevitabilmente col trasformarsi in feste di Halloween. Che poi non veniva quasi nessuno alle sue feste, altro motivo per cui preferiva passare il suo compleanno in casa a mangiare dolci guardando vecchi film horror con sua madre in brodo di giuggiole per il suo pargolo che cresceva. Preferiva non pensarci, o gli calava ancora addosso lo sconforto. Bevve qualche sorso d'acqua fredda giusto per cacciare il pensiero di mente qualche secondo.
«Sarebbe comunque giusto fare qualcosa, non trovi? Insomma, compi pure diciotto anni.» Jamia alzò le mani. «Io e Ray perlomeno pensavamo così. Vero, Ray?»
«Posso prenderla?» chiese lui a Mikey, indicando la sua forchetta che non aveva smesso un attimo di fissare. Il ragazzo guardò confuso prima Ray, poi il suo dito puntato per qualche secondo, neanche avesse davanti qualche rara specie mutante di alieno. Annuì impercettibilmente e l'afro gli prese di mano tutto soddisfatto la forchetta, che cominciò a cercare di incastrare per i denti con la sua.
«Sì.» aggiunse, superando il lieve cigolio metallico che procuravano le due posate. Evidentemente Jamia era abituata a scene del genere, perché tornò a guardare Frank in tutta tranquillità.
«Insomma, per te andrebbe bene?»
«Non lo so.» ammise non senza difficoltà, evitando di guardare dritto negli occhi Jamia tutta intenta a rivolgere occhiate scettiche a Ray, che stava ancora facendo un casino infernale con quelle forchette. Non moriva dalla voglia di fare una festa per il suo compleanno. Era tanto che non faceva qualcosa per il suo compleanno, ed aveva paura di come sarebbe potuto essere qualcosa organizzato. Probabilmente non sarebbe venuto nessuno, e la sola prospettiva di illudersi per poi ricevere una batosta lo faceva stare male.
«E dai, ti prego.» lo supplicò Jamia, neanche si trattasse della sua, di festa «Almeno lasciaci provare, Frank. Siamo tuoi amici, lasciaci tentare.»
Amici. Aveva detto che erano suoi amici. Era la prima volta che li sentiva definirsi in quel modo. Guardò Jamia dritto nei suoi occhi scuri e lei annuì, come a ribadire il concetto. Poi si soffermò su Mikey, che ancora notevolmente preoccupato per la sua forchetta gli abbozzò un sorriso ed infine su Ray. Sorprendentemente quello sbuffò e lasciò cadere le forchette sul tavolo, per poi piantare le mani sul tavolo e puntare il viso contro il suo.
«Sì Frank, siamo tuoi amici. Non so se tu abbia una totale indifferenza per l'umanità o cose del genere ma riflettici, qui siamo tutti un po' problematici. Siamo adolescenti alla scoperta del mondo, scapestrati e spesso strani, ma prima di tutto siamo amici tuoi. Per una volta metti da parte le paranoie e gli scrupoli e lasciati andare, fidati di noi. Ci proveremo a farti passare un compleanno decente, va bene?» Nessuno si aspettava che improvvisamente Ray diventasse così serio, soprattutto dopo che si era messo a incastrare due forchette tra loro. Sembrava veramente convinto di ciò che diceva e cercava di trasmettere il messaggio a Frank con così tanta convinzione che lui quasi si vergognò di averne dubitato. Erano suoi amici. E che cazzo, poteva pure concederselo per una volta. Ray aveva addirittura smesso di giocherellare con quelle forchette per dirglielo, e gli altri due della combriccola erano un misto tra confusi (Mikey aveva la probabile espressione del primo uomo ad aver visto un ornitorinco nel lontano Ottocento) ed in parte orgogliosi del discorsetto dell'afro. Frank si abbandonò contro il muro alle sue spalle come fosse stato lo schienale di una sedia.
«E va bene.» concesse, alzando un angolo della bocca. «Vediamo cosa si può fare.»

Il pomeriggio passò velocemente, avendo solo un paio d'ore di fisica piuttosto leggere considerato che il professore doveva interrogare chi aveva preso l'insufficienza al compito, mentre Frank aveva preso una B- di cui andava fiero che gli avrebbe permesso di starsene tutta la lezione distratto a copiare vecchie frasi di canzoni sul quaderno. Quando uscì da scuola si sorprese però di trovare la macchina di sua madre parcheggiata dall'altro lato della strada, così attraversò fermandosi solo pochi secondi a guardare Lindsey che usciva dalla scuola, chiedendosi per un attimo se anche lei stesse male per quanto successo con Gerard.

«Ehi Frank, come è andata?» gli chiese sua madre quando aprì la portiera si sedette sul posto del opasseggero. Disse un tutto bene increspando leggermente le labbra mentre sua madre partiva. Per una parte del tragitto rimasero zitti, Frank guardava distrattamente le gocce di pioggia che colavano lungo il finestrino, inseguendosi e scivolando sul freddo vetro come la prima volta in cui aveva visto Gerard. Poi sua madre parlò.
«Tra poco è il tuo compleanno.» commentò, lanciandogli solo una breve occhiata. Frank poggiò la testa al finestrino freddo.
«Lo so.»
«Immagino.» Linda sospirò. «Mi sembra ieri che ti portavo in braccio perché ti sbucciavi le ginocchia. Ed ora...» scosse la testa. L'allarme nostalgia prese a risuonare nella testa di Frank con tanto di luci ad intermittenza. «Sei cresciuto, sei il mio figlio cresciuto. Santo cielo, mi sento vecchia. Comunque non te l'ho neanche chiesto, fai qualcosa per il tuo compleanno?»
Frank era già pronto ad usare la risposta stereotipata no mamma, sai bene che non faccio nulla, non ho neanche qualcuno con cui farlo quando si ricordò del discorso a pranzo con Jamia, Mikey e Ray. Lanciò un'occhiata allo schermo del telefono, dove continuavano ad apparire messaggi dei tre. A quanto pareva avevano creato un gruppo per l'intera cosa. Che idioti. Gli sfuggì un sorriso.
«Non lo so. Forse.» ammise, notando che sua madre era rimasta piacevolmente sorpresa dalla risposta.
«Allora ti lascio casa libera per la sera del trentuno, ti va? Tanto con i turni notturni non ho ancora finito. ma per la sera del trenta mi prendo un giorno libero, ne ho già parlato col capo reparto. Insomma, una sera per mio figlio me la potrò pure concedere.» Linda ridacchò, spegnendo la macchina già parcheggiata davanti casa. «Vedi Frank? Non sei del tutto solo a questo mondo. Qualcuno hai, altrimenti mi avresti risposto di no, che non ci sarebbe stato nulla per i tuoi diciotto anni. E poi c'è Gerard, con lui puoi parlare di tutto.» Frank si morse il labbro quando pronunciò il suo nome, ma continuò ad ascoltare le parole di sua madre. In un certo qual modo lo interessavano. «È ci sono io, che sono tua madre e ti voglio un bene dell'anima. E... Be' certo, anche se non fisicamente tuo padre per te c'è. Poi come al solito verranno i nonni la settimana prossima, e resteranno con noi fino al ringraziamento. Vedi? Non sei totalmente solo, non pensarlo. Noi per te ci siamo, accettalo. In qualunque momento ci sarà sempre almeno una persona disposta a stare con te, devi solo trovarla. Non si può vivere da soli, ma fortunatamente tu solo non sei. Hai trovato degli amici, hai Bob, Gerard, la tua famiglia. Hai tutti noi.» sua madre sorrise. Aveva ragione, a Frank un po' costava ammetterlo ma razionalmente, lucidamente aveva ragione. Non era così solo dopotutto, le cose si stavano lentamente riaggiustando. La mano di Linda gli carezzò con cautela il braccio, con una maternità così intensa che anche se Frank avesse avuto trentacinque anni, una moglie e tre figli il gesto non sarebbe mai sfigurato. «Hai tutti noi, Frank.»

---

Immaginò che avrebbe dovuto prendere una sedia, altrimenti avrebbe continuato a saltare come un canguro ritardato per il resto della sua vita. Maledicendo quello stupido festone e la sua altezza andò in cucina per prendere una delle sedie messe attorno al tavolo. Sua madre aveva tanto insistito perché decorasse un minimo la casa, nonostante stesse compiendo diciotto anni e non nove, per cui aveva appeso a tradimento alcune decorazioni di qua e di là, ed ora Frank stava cercando accuratamente di levarle tutte prima che si facessero le otto, ora in cui era previsto l'arrivo dei suoi amici. Ancora gli faceva strano chiamarli così, ma non gli dispiaceva. Gli provocava una piacevole stretta alla gola, calda e confortante. In fondo era contento di passare il compleanno con qualcuno oltre che sua madre, con la quale il pomeriggio prima aveva fatto una maratona di Harry Potter dal quinto al settimo parte seconda, rimanendo tutta la serata incollati al divano con pizza, popcorn e dolci sul tavolino di fronte. In più Linda si era rivelata non solo una madre in fibrillazione per il figlio che cresceva, ma anche una fangirl disagiata e sclerata; in pratica non aveva fatto altro che dire ad Harry che senza Hermione sarebbe stato un poveraccio e che lei avrebbe dovuto per una buona volta tirare la Coppa Tassorosso in testa a Lavanda, testuali parole. Però era un bel ricordo, lo avrebbe conservato, come gli piaceva fare con tutti i bei ricordi che aveva, tutti belli impilati in un angolino illuminato della mente come i suoi dischi sulle mensole vicino al letto in camera sua. Certo, immaginare che la vista di sua madre in pantaloni della tuta ricoperta di briciole di popcorn che sembrava parte attiva del film fosse accanto a quella di Gerard di fronte a lui, immerso in un paesaggio ocra e porpora era strano ed imbarazzante, sicuramente più imbarazzante che altro, ma non ci diede peso. Prese la sedia e la trascinò in salotto, esattamente sotto al festone, ci salì sopra e lo staccò, poi lo lasciò ricadere a terra. Sceso dalla sedia, lo raccolse e lo nascose nella libreria là accanto con un gesto rapido e trepidante. Erano anni che non festeggiava il suo compleanno, ed era un po' nervoso. Già non andava mai alle feste che altri suoi compagni di scuola organizzavano, adesso poteva addirittura essere il protagonista di qualcosa. Il pensiero lo metteva in agitazione, forse addirittura a disagio. Non voleva in realtà essere il protagonista di qualcosa e ritrovarsi così ad essere al centro dell'attenzione, se poi fosse andato tutto male? E se poi non si fossero presentati? Dovette prendere un respiro profondo per calmarsi e ripetersi varie volte che non sarebbe successo nulla di che, era una serata con della gente che conosceva, non sarebbe mai finito solo o sbranato da un coccodrillo, sebbene non sapesse come gli fosse finito in mente un pensiero del genere. Non sarebbe successo nulla, erano solo stupide congetture che si faceva per forza dell'abitudine. Si sedette un secondo sul divano, sforzandosi di calmarsi. Avrebbe combinato un disastro, se lo sentiva. Si premette le mani sugli occhi respirando con forza, prendendo grandi respiri come faceva quando fumava per calmarsi un po', eppure continuava a sentire quella sgradevole sensazione serrargli la gola. Non bastava ripetersi che non era solo. Tirò un pugno al cuscino su cui era seduto e richiuse gli occhi, contorcendo la faccia in una smorfia di dolore. Smettila, è tutto nella tua mente. Il campanello squillò improvvisamente. Frank scattò letteralmente in piedi e corse alla porta, sforzandosi di sorridere prima di aprirla e ritrovarsi davanti Ray e Jamia. Lei aveva un leggero trucco a tema Halloween sul viso che in un certo qual modo le faceva risaltare il sorriso che gli rivolse.
«Auguri Frank!» esclamò, porgendogli una bustina di carta che teneva tra le mani. «Da me, Ray e anche Mikey. Nulla di che, solo un pensiero. Possiamo entrare?» Frank annuì e prese imbarazzato il regalo, per poi scostarsi e lasciarli entrare nell'ingresso. Ray era vestito normale e si guardava intorno con circospezione. Frank richiuse la porta alle sue spalle. Okay, il regalo non se l'aspettava per niente, però improvvisamente gli si era risollevato l'umore. Seguì i due in cucina e si sedettero attorno al tavolo, sul quale c'erano un paio di bottiglie di Coca-Cola e qualche ciotola con patatine, Popcorn e Skittles. Ray si gettò sulla ciotola di patatine come un orso sulla preda, e Frank divertito lo lascò fare. Dopo poco arrivò anche Mikey che stava letteralmente rabbrividendo dal freddo. Si sfilò il berretto grigio non appena ebbe varcato la soglia e si scompigliò i capelli castani, poi ficcò le mani in tasca e guardò fisso Frank.
«Buon compleanno Frank.»
«Ehm... Grazie.» replicò lui, interdetto dal tono guardingo che aveva usato. «Come va?»
«Fa troppo freddo per i miei gusti, ma poco importa. C'è già qualcuno?»
«Ray e Jamia, sono arrivati poco fa.» dopo l'affermazione la posa di Mikey si rilassò impercettibilmente, per quanto stesse ancora tremando. Prese a guardarsi intorno.
«Bella casa, anche se non ti chiederò perché c'è una sedia in mezzo al salotto.» scrollò le spalle e si diresse verso la cucina, dove fece un cenno di saluto a Ray e Jamia. Frank si affrettò ad accostare la sedia al muro come se fosse un pezzo di tappezzeria e tornò in cucina. Spostò dal tavolo le bibite e la torta che sua madre gli aveva preparato (al cioccolato, semplice ma Frank la amava, e poi era ricoperta di zucchero a velo) sul piano cucina per fare spazio, anche se teoricamente mancava solo Bob. Ma lui era affetto da ritardo cronico, per cui era inutile aspettarlo. Decisero di ordinare subito delle pizze che tanto sarebbero arrivate in un po' di tempo, e ci fu un breve battibecco tra Ray e Jamia perché lui voleva ordinarne tre solo per sé, così Jamia lo aveva minacciato di mandarlo allo zoo e lui continuava ad insistere sulle tre pizze che voleva mangiare.
«È inutile Ray, non ti lascerò mangiare tre pizze.» asserì lei quando chiuse la chiamata con la pizzeria. Ci sarebbero voluti all'incirca venti minuti, ma ne valeva pienamente la pena. Frank, seduto a gambe incrociate mentre si scambiava occhiate divertite con Mikey, amava quella pizzeria italiana. «L'ultima volta che hai mangiate tre pizze ti sei sentito male.»
«Ma io voglio tre pizze, ho fame.»
«Non sei un forno, Ray! Datti un contegno.»
«Per questo ho chiesto tre pizze invece di cinque.» Jamia si abbandonò sulla sedia con aria sfinita mentre Ray aveva assunto uno sguardo torvo e prendeva grandi manciate di popcorn dalla ciotola. La radio che avevano acceso di sottofondo mandava una canzone degli Oasis, il cui ritmo era tamburellato pigramente dalle dita di Mikey sul tavolo. «Ehi Frank, che ne dici se apri il regalo? Voglio vedere se ti piace.» fece Jamia, indicando con un cenno della testa il pacchetto che giaceva accanto a lui. Tre paia di occhi si puntarono improvvisamente su di lui mentre si sporgeva per prenderlo e se lo portava vicino. Il pacchetto non era nulla di che, una semplice busta di carta nera con un fiocco di nastro rosso apposto in un angolo per decorazione. Assieme al fiocco era stato spillato un bigliettino su cui c'erano le firme di Ray, Mikey e Jamia. Smise di fissare il pacchetto e lo aprì, ammettendo a se stesso di essere parecchio curioso. Si ritrovò a chiedersi chi lo avesse comperato, chi impacchettato e chi avesse avuto l'idea. E tutti avevano volontariamente contribuito per fare un regalo a lui. Nascose un sorriso e ficcò una mano nella bustina che fece un rumore di carta tremendo, per cui si affrettò ad afferrare ciò che sembrava una striscia di tessuto e a portarla di fuori per vederla meglio. Era veramente una striscia di tessuto, di un colore nero intenso con le cuciture rosse. A dire la verità sembrava un misto tra una cintura e lo spallaccio di uno zaino, inoltre nella bustina c'erano ancora alcuni cosetti in metallo di cui non riusciva a spiegarsi la funzione. Un'idea sulla natura dell'oggetto la aveva, ma non ne era sicuro.
«È una cintura?» domandò stupidamente. Mikey si sforzò visibilmente di nascondere una risata, mentre Jamia alzò un sopracciglio divertita.
«Cosa te la regaliamo a fare una cintura?» chiese con un tono che rispecchiò la sua espressione. «No, certo che no. Serve per reggere la chitarra a tracolla quando suoni, dato che a te piace suonarla.»
Oh. Allora la sua idea era giusta. Con rinnovato interesse si rigirò la striscia di tessuto tra le mani. Era morbida e resistente, di buona fattura. Gli venne una voglia improvvisa di correre di sopra ed attaccarla alla chitarra per suonare un po', ma oltre al fatto che non sarebbe stato gentile da parte sua poi probabilmente gli altri gli avrebbero chiesto di suonare davanti a loro invece che da solo in camera sua, e ancora non voleva esporsi così tanto.
«Grazie, davvero.» disse, arrotolandola con cura per poi rimetterla nella bustina, promettendomi che avrebbe passato il pomeriggio seguente a suonarla. Gli piaceva, davvero. Il campanello suonò di nuovo, interrompendo nel bel mezzo una canzone dei REM. «Vado io.» fece alzandosi. A quanto pareva le pizze erano arrivate subito, per cui afferrò dei soldi che sua madre gli aveva lasciato sul piano cucina per pagare le pizze e lasciò in cucina Ray a discutere con Jamia sulle due pizze mancanti e Mikey, che intanto aveva ripreso a tamburellare nervosamente le dita. Ora che ci pensava gli andava proprio una bella pizza calda con il formaggio filante, per cui si sbrigò ad aprire la porta già con l'acquolina in bocca. Tuttavia, non appena vide chi stava là davanti, gli parve di sentire il suo stomaco sprofondare e cadere giù, come se potesse attraversare il suo corpo e finire sottoterra. Quella non era assolutamente una pizza.

«Buon compleanno, Frankie.» Gerard aveva i capelli bianchi. Gerard aveva i capelli bianchi e sembrava un angelo. Quel colore tanto puro e limpido che ricordava la limpidezza dei cristalli di sale gli donava una particolare morbidezza al viso, soprattutto in quella luce polverosa. Indossava una specie di giacca da parata nera con le rifiniture argento, e del trucco da scheletro, anch'esso nero, risaltava sulla sua carnagione lattea e rendeva il suo sguardo nocciola ancora più pungente, soprattutto per il color carbone che gli ornava le palpebre. Gerard era davanti a lui alla sua quasi festa di compleanno e sembrava un angelo.
«Io... Ehm, ciao Bob.» disse Frank in imbarazzo, cercando di non guardare Gerard fisso negli occhi. Era stato un colpo basso venire a tradimento proprio quella sera, ed ora il cuore gli sfarfallava in petto, mosso da un'ansia viscerale. Bob, che stava dietro l'altro, lo salutò con la mano. Indossava la stessa giacca da parata di Gerard. Proprio lui gli sorrise in quel modo così particolare, con solo un angolo deella bocca alzato. Frank inspirò e si passò la lingua sulle labbra secche. «E tu Gerard? Cosa ci fai qui?»
«Volevo fari gli auguri, Mikey non ti ha detto che sarei passato?» Frank scosse la testa, perplesso. Gliel'avrebbe fatta pagare. Gerard alzò gli occhi al cielo, i capelli chiari scossi da una leggera brezza. Chissà quante volte se li era tinti, l'ultima volta che l'aveva visto allo studio li aveva neri. Provò un immotivato moto di pietà per quei poveri capelli. «Se sono di troppo me ne vado, non ti preoccupare.»
«No, no, entra pure.» lo interruppe con foga, scostandosi dall'uscio della porta per farlo entrare; lui gli sorrise e lo sorpassò. Frank si dovette sforzare di non fissarlo mentre si incamminava verso il salotto (quella giacca gli fasciava in un modo incredibile le spalle, poteva intravedere il loro movimento fluido mentre camminava), per cui si morse il labbro e ringraziò Bob che intanto gli aveva fatto gli auguri. si accorse che in una mano stringeva i manici di una busta di plastica del supermercato, e solo quando chiuse la porta si accorse che dentro c'erano delle bottiglie di birra.
«No birra, no party.» disse il biondo in risposta al suo sguardo, camminando davanti a lui. «Tranquillo, il regalo te l'ho portato comunque, sono tipo tre anni che non festeggiamo un tuo compleanno insieme per colpa dell'università.» si voltò e gli lanciò un'occhiata critica. «Sei comunque rimasto scricciolo.»
«Stronzo. E se mia madre trova quelle bottiglie lascio che ammazzi te.»
«Mi prenderò le mie responsabilità.» quello sospirò in modo teatrale ed entrò in cucina, poi si sedette attorno al tavolo esattamente come tutti gli altri. Per grazia divina ci stavano tutti, per cui si misero a chiacchierare del più e del meno con la radio che intanto mandava una canzone dietro l'altra finché non arrivarono le pizze. Jamia fortunatamente ne aveva ordinata una in più per Bob che se la divise con Gerard, seduto accanto a Mikey da un lato del tavolo. Per un certo verso Frank era sollevato di non stare seduto accanto a lui, aveva l'impressione che sarebbe stata una situazione imbarazzante e piena di tensione, per quanto il nodo alla gola di prima si fosse finalmente sciolto. Mangiarono le loro pizze in santa pace e Ray per vendetta ne rubò due o tre fette a Jamia, che lo inseguì per tutta la cucina brandendo una bottiglia vuota a mo' di clava. Frank rise alla scena sorseggiando un po' della birra che teneva in mano e scambiando delle occhiate con Mikey, con il quale aveva pure dimenticato di essere arrabbiato. Poteva pure passarci sopra, in fondo era contento che Gerard fosse lì con lui assieme agli altri. Per qualche ragione quando fu costretto, con tanto di bottiglia-clava, a soffiare con immenso imbarazzo e Tanti auguri a te di sottofondo sulla candelina che Bob aveva avuto la geniale idea di portarsi dietro e di mettere sulla torta, fu lui l'ultimo su cui si soffermò il suo sguardo, col viso ora illuminato dalla morbida luce arancione della piccola fiamma. Anche lui gli sorrise, e forse era colpa della luce ambigua della candelina o dell'atmosfera serena e rilassata che si era creata, ma quel sorriso gli parve diverso dal solito, come se fosse provvisto di una dolcezza tutta sua che non aveva nessun altro sorriso rivoltogli prima d'ora. Esprimi un desiderio. Quando chiuse gli occhi e soffiò sulla candelina per spegnerla, fu lui l'unica immagine che vide dietro le palpebre.

La torta era davvero buona come si aspettava, aveva pure una farcitura alla vaniglia al suo interno che la rendeva ancora più saporita. Dopo il dolce si spostarono in salotto e sistemarono il divano e le poltrone in modo che potessero stare tutti in cerchio. Frank capitò tra Mikey e Jamia esattamente come stavano sul tavolo della cucina, e ad un certo punto lei ebbe la grande idea di tirare fuori una matita per il trucco nera e di girarsi verso Frank mentre Bob raccontava a Ray la storiella della cassetta dei vicini (che ormai non sarebbe mai passata di moda) e Gerard rideva piegato in due. Sembrava spensierato, con le ciocche bianche che gli ombreggiavano leggere la fronte, e proprio perché era intento a guardarlo che gli venne un colpo quando improvvisamente si ritrovò davanti Jamia che brandiva una matita per il trucco nera.
«Posso truccarti?» chiese d'improvviso in tono supplicante. Dietro di lei Gerard stava ancora ridendo assieme a Bob e Mikey, che aveva chiesto se potevano raccontare la storia anche a lui. Nessuno prestava attenzione a loro, neanche Ray che masticava pensieroso la sua quarta fetta di torta. «Ti prego.»
«Stai scherzando?»
«No.» lei scosse la testa. «Ma non voglio mica truccarti da femmina, tranquillo, solo che è pur sempre Halloween. Qualcosa in tema. Allora, posso?»
Jamia sembrava veramente desiderosa di sfogare la sua vena artistica sulla sua faccia, quindi acconsentì. Lei allora spostò la sedia accanto alla sua e gli prese con entusiasmo il viso tra le mani, tracciando dei segni brevi e precisi sulle sue guance con la matita. I suoi occhi lo scrutarono attenti per tutto il tempo in cui era intenta a "truccarlo", fissandosi solo una volta nei suoi per un breve istante. Eppure Frank avrebbe voluto che quegli occhi fossero nocciola e di un'altra persona.
«Jamia, cosa stai facendo esattamente?» domandò Mikey a braccia conserte quando lei stava ultimando il suo lavoro. In breve tutte le facce si girarono verso di lui, tra cui anche quella di Gerard, diventata improvvisamente leggermente turbata. Frank lo guardò di sfuggita.
«Non lo sto molestando, non preoccuparti. Lo sto solo truccando da scheletro.» commentò, rivelando finalmente cosa stesse facendo con quella matita sulla sua faccia. Be' l'idea era carina, chissà come gli sarebbe stato. La ragazza tirò il suo viso più vicino per delineare meglio un paio di contorni sullo zigomo e gli bisbigliò velocemente «Devo parlarti, dopo.» all'orecchio prima di lasciarli andare il viso ed esclamare un Finito! che fece di nuovo rigirare tutti verso di lui. Frank invece guardò Jamia, il cui sguardo gli fece capire che aveva inteso benissimo. Nessuna allucinazione uditiva. Gli voleva veramente dire qualcosa.
«E si può sapere perché l'hai fatto?»
«Perché così siamo tutti mascherati.» rispose lei come se fosse ovvio, alzando entrambe le mani. Gerard però scrutava ancora Frank. Lui ricambiò lo sguardo con altrettanta intensità, riflettendo per un attimo sul fatto che avessero lo stesso trucco. «Ehi, mai sentito parlare di Halloween?»
«Non siamo tutti mascherati.» controbatté Mikey. «Né io né Ray lo siamo.» asserì soddisfatto e guardò con solidarietà l'afro, che però tirò fuori dal tascone della felpa una maschera da Scream e se la mise in faccia. Mikey rimase indignato, guardando gli altri con fare accusatorio. «Però così non vale!»
Jamia allora si alzò e con leggerezza prese un cappellno da festa a forma di cono poggiato là accanto (dannazione, si era scordato di levare di mezzo quei cosi), andò da Mikey e glielo mise in testa in modo tale che il cono di carta gli stesse sulla fronte.
«Ecco fatto, ora sei un perfetto unicorno.»
«Non voglio essere un unicorno.» commentò lui, guardando lo sfavillante cono di carta fucsia sulla sua fronte, mentre Jamia alzava gli occhi al cielo e tornava al suo posto.
«Oh, invece sì che lo vuoi.» replicò Gerard sogghignando, spostando finalmente lo sguardo via da Frank e lasciando così che nodo venutogli allo stomaco si sciogliesse. «Da piccolo volevi un unicorno domestico. Te ne avrò disegnati centinaia.»
«Gerard, per favore.» Mikey, diventato improvvisamente bordeaux, si coprì la faccia con entrambe le mani. «Non peggiorare la situazione.» per tutta risposta Gerard fece un sorrisetto beffardo e cominciò a rievocare tutti gli eventi dell'infanzia di Mikey che potessero essere etichettati imbarazzanti. Nonostante le iniziali lamentele di quello il clima si distese subito, e dopo un po' riuscì persino a ridere delle sue stesse mattate da bambino. Rimasero seduti a parlare per un bel po' di tempo, almeno fin quando Ray non si alzò senza dire nulla ed infilò nello stereo un disco dei Green Day, al che Jamia e Mikey scattarono in piedi e si unirono all'afro nell'ascoltarsi a tutto volume le tracce. Frank aveva la bocca secca, per cui pensò bene di approfittarne per andare a bere un po' d'acqua. Si alzò e cercò di andare senza farsi notare in cucina, dove si versò dell'acqua ghiacciata in un bicchiere che bevve a piccoli sorsi, muovendo leggermente la testa al ritmo della canzone che si sentiva per quanto attutita anche di là in cucina. Quando ne uscì non tornò subito in salotto, ma si fermò in corridoio a vedere la sua faccia riflessa nello specchio là appeso. Jamia aveva fatto un bel lavoro, sembrava quasi un vero teschio. Nella semioscurità del corridoio si avvicinò un po' di più, girando il viso a destra e sinistra per guardarsi meglio. Il trucco da scheletro era a contrasto con i capelli scuri che gli ricadevano qua e là disordinatamente sulla fronte, tracciando ombre morbide sui segni fatti a matita sulla sua pelle chiara. Ci stava bene.
«Vedo che ti piace guardarti allo specchio.» disse Gerard alle sue spalle, osservandolo a meno di un metro di distanza con le mani in tasca. Frank lo aveva visto arrivare, per cui non si spaventò. Si girò e gli rivolse un mezzo sorriso; anche lui ci stava bene nella penombra col trucco da scheletro. «Sai che fai delle facce buffe?»
«A quanto pare.»
«Come stai?» chiese, facendosi leggermente più vicino. Quella minima variazione cominciò a pesare sul torace di Frank, che non riusciva a smettere di guardare negli occhi Gerard. Non era normale che lo guardasse in quel modo, ma era più forte di lui. Batté le palpebre e prese un lungo respiro, respingendo tutti i ricordi dei giorni precedenti e dei compleanni passati.
«Bene, immagino. Perché?»
«Educazione.» scosse la testa come per minimizzare la cosa. I capelli di quel colore così bianco riflettevano le luci ed il buio di ciò che li circondava. «E poi magari ti senti... Non so, diverso. Hai compiuto diciotto anni. È una barriera importante.»
«Se lo dici tu.»
«Non ti piacciono i compleanni?» domandò incuriosito, aggrottando la fronte. Forse, se si fosse fatto un po' più vicino, avrebbe anche potuto percepire quel vago sentore di caffè e di grafite. Forse. Di là gli altri continuavano a divertirsi a ritmo di musica, mentre loro due erano uno di fronte all'altro in quel corridoio stretto e a malapena illuminato, confinati tanto fisicamente quanto emotivamente in un'altra piccola realtà.
«Non credo che una persona possa crescere da un giorno all'altro. Non si cresce di botto, ma poco per volta nella vita.» Gerard parve soppesare la sua risposta. Frank abbassò lo sguardo sulle sue All Star nere, rese consumate dall'eccessivo uso. Perché quando non si trattava dei suoi problemi lui e Gerard non riuscivano mai ad avere una normale conversazione? Finiva sempre che uno dei due si fermava, come se ci fosse un sottile vetro invisibile che li fermava e li separava, qualcosa a tenerli distaccati, per quanto almeno uno dei due non volesse affatto ciò. Frank si morse l'interno della guancia per recuperare lucidità. La bottiglia di birra che aveva bevuto prima distrattamente gli stava mandando un po' alla rinfusa i ragionamenti, per quanto fosse ancora perfettamente coi piedi per terra. Ora che ci pensava Gerard era l'unico a non aver bevuto neanche un goccio quella sera. Quelle dita che ora stavano ficcate in tasca mentre lo sguardo era altrove non avevano mai stretto una bottiglia quella sera.
«Non hai bevuto per niente?» chiese con forse troppa spontaneità, in quanto la domanda colse Gerard di sorpresa, il quale parve riprendere contatto con la realtà come se ce lo avessero rispedito a randellate. Lo vide mordersi il labbro sottile.
«No Frank.» improvvisamente parve essersi incupito. Il labbro era ancora stretto tra i denti. Era una sua impressione dovuta alla scarsa luminosità o lo stava mordendo un po' troppo forte? Forse era tutto un gioco di luce, dello stesso bagliore che si rifletteva nei suoi occhi. O forse stava diventando pazzo.
«Sicuro che non vuoi nulla?» quando ne aveva l'occasione prendeva sempre qualcosa da bere, ma non tanto perché fosse un alcolizzato o roba del genere, più perché gli piaceva il sapore in generale. E poi l'alcool lo reggeva bene. Non si immaginava Gerard come un astemio.
«Credimi Frank, è meglio di no.»
«Va tutto bene? Non te l'ho chiesto prima.» azzardò titubante il moro, visto il repentino cambio d'umore di Gerard. Si ritrovò a sperare vivamente di non esserne la causa, anche se in fondo non aveva fatto nulla per turbarlo. Oppure aveva detto qualcosa di sbagliato? Gli venne un'improvvisa voglia di saltargli addosso ed abbracciarlo, di stringerlo forte e di lasciarsi stringere a sua volta. Voleva sentire il leggero peso della sua testa sulla spalla, poter inspirare il pesante sentire di caffè col naso affondato tra quei capelli che sembravano incredibilmente morbidi, come dei fiocchi di neve a Febbraio. Voleva guardare i fiocchi di neve attraverso una finestra abbracciato a lui dentro casa, voleva sentirlo stretto a sé e dargli un bacio sulla guancia, per poi sussurrargli un va tutto bene con le labbra ancora a lambirgli la pelle, anche se tutto bene non andava. Voleva fare tutto questo, e la consapevolezza lo investì come un pugno in piena pancia. «Mi dispiace se...»
«No, non scusarti. Non devi. Non è colpa tua.» lo interruppe l'altro con lo sguardo velato. «Non è successo nulla.»
«Gerard, puoi dirmelo.»
«Davvero, non è successo nulla.»
Frank percepì un'improvvisa ondata di collera riversarglisi dentro. Quella scena era solo un dejà-vu di un pomeriggio ormai facente parte del passato. Un patetico dejà-vu in cui Gerard si apriva a lui e si faceva accompagnare invece di essere il solo a guidarlo. Uno stupido, patetico dejà-vu in cui loro due si guardavano senza imbarazzo e Frank asciugava le sue lacrime, in cui il pudore si era fatto da parte e Gerard gli si era addormentato sopra, rilassato e stremato. Un assurdo dejà-vu che gli faceva male ricordare, perché era passato, e a lui ci teneva. In modo immotivato, morboso magari, ma ci teneva così tanto che gli parve di aver ricevuto un secondo pugno in pancia.
Gerard era bloccato, per quanto qualche tempo prima non si fosse fatto fermare e gli si fosse abbandonato contro, con lo stesso meccanismo del gioco della fiducia. Invece ora lo guardava assente. E gli pareva quasi un ritratto della realtà fatto col gesso, della polvere dai toni intensi sfumata e depositata su un cartoncino nero, un ritratto fedele ed assurdamente bello. Ma quella polvere di gesso era distante e volatile, un respiro di troppo e sarebbe scomparsa. Era un ritratto di gesso polveroso che lo guardava assente, mentre Frank sentiva quella rabbia fluirgli nelle vene e fargli stringere le mani con forza, per poi farle scattare sulle spalle del maggiore. Quello trasalì, confuso.
«Gerard, per favore, dimmi se ho sbagliato a fare qualcosa. Dimmelo. Come credi che possiamo parlare civilmente senza neanche confrontarci? Tu dici tanto di tenerci, be' sappi che ci tengo anche io. Si può sapere cosa ho detto di sbagliato?» gli disse dritto in faccia animato da un coraggio che chissà da dove gli era uscito, puntando con sicurezza gli occhi nei suoi per quanto lo sguardo di Gerard si fece gelido. Gli prese il braccio e provò a liberarsi da quella stretta, ma quando Frank sentì le dita serrarglisi attorno al braccio percepì solo un'improvvisa fitta di dolore tale da farlo sussultare. Aveva un livido esattamente in quel punto, dovuto alla rissa di qualche giorno prima e la stretta, per quanto leggera, gli stava facendo riaffiorare un dolore sordo.
«Frank, cosa succede?» fece lui cambiando ancora atteggiamento e rilasciando la presa sul braccio del minore, il quale si sforzò di non prendersi il braccio con l'altra mano e trattenne un gemito di dolore solo mordendosi l'interno della guancia. Rabbia. Ancora rabbia.
«Nulla. Non ho nulla, come hai detto tu.» sputò acidamente le parole, con dentro la stessa rabbia di quando stava alla fiera, un attimo prima che le loro labbra si sfiorassero.
«Frank...»
«Ehi ragazzi, io vado.» Gerard fu interrotto a metà frase da Jamia, appena comparsa in corridoio con la giacca tra le mani ed un'espressione confusa in viso. Frank in parte le era grata per aver interrotto ciò che sarebbe sicuramente sfogato in un ennesimo litigio. «È arrivata mia madre e... Insomma, devo andare.»
«Ti accompagno alla porta.» le rispose, volendosi allontanare subito dal corridoio. Un migliaio di pensieri confusi gli ronzarono nella testa, ma lui si limitò a sorpassare Gerard voltando leggermente le spalle e a farsi seguire dalla ragazza lungo in corridoio. Era inutile, se a separarli non c'era la scrivania del suo studio non riuscivano a non darsi sulla voce. Come due magneti della stessa carica, scagliati con forza l'uno contro l'altro che finiscono inevitabilmente per respingersi con tanta forza quanta è stata data loro inizialmente. Eppure, se era appena entrato in collisione con Gerard, perché avvertiva quella punta di dispiacere al pensiero di separarsi da lui o di litigarci, proprio lì alla base della gola?

Sì, stava decisamente impazzendo.
È solo il tuo psicologo, smettila.

«Grazie per la serata.» mormorò Jamia in piedi davanti alla porta d'ingresso. In qualche modo si erano fermati là davanti e lei si era già infilata la giacca, ora probabilmente aspettava un saluto o qualcosa del genere per cui Frank si riscosse mentalmente e forzò un sorriso. Sì, forzò, perché nonostante nel complesso la serata fosse stata fantastica e gli avesse risollevato l'umore non riusciva a sorridere spontaneamente alla ragazza là davanti. Avrebbe voluto invece in fondo in fondo tornare da Gerard e sorridere a lui, chiedergli scusa e cancellare la litigata con una mano di acquaragia, ma non poteva. Non poteva. Però sentiva che in quel caso il sorriso sarebbe stato spontaneo, e che se anche l'altro gli avesse sorriso di rimando si sarebbe sentito felice. Felice e basta, come non era da tanto.
«Mi ha fatto piacere che tu sia venuta.» rispose per dare l'impressione che fosse attento mentre in realtà era del tutto altrove. Jamia gli sorrise. Ma lei non sapeva.
«Anche a me.» Frank aprì la porta e lei fece un passo di fuori (dove si ghiacciava, letteralmente); nello stesso istante il ragazzo si ricordò di ciò che gli aveva detto.
«Ehi, aspetta!» Jamia si girò, i capelli castani in balia del vento. «Cosa volevi dirmi?»
Lei lo guardò per qualche istante fisso in faccia, poi prese un respiro profondo ed avanzò di un passo. Frank si sentì improvvisamente preso dalla confusione. Perché le loro facce erano così vicine ora? Perché lei lo guardava in quel modo? Perché percepiva da qualche parte dentro di sé che c'era qualcosa di sbagliato? No. I capelli lisci le incorniciavano il viso, ma erano sbagliati. Quelli di Gerard erano giusti.
«Solo questo.» fu un attimo in cui le si sporse in avanti per poggiare le labbra sulle sue, prima di schizzare via veloce come un fulmine verso una macchina parcheggiata sul marciapiede di fronte.
I pensieri tornarono a vorticare ad una velocità folle nella testa, il che lo costrinse a rimanere qualche secondo sulla soglia della porta a sorbirsi il vento autunnale in preda ad una confusione letale. Alla fine si decise a chiudere la porta e a tornare dentro serrando tutte le barriere emotive tra lui ed il mondo, senza sapere che ad assistere a tutta la scena, nella lontananza della fine del corridoio, c'era stato un ragazzo dai capelli d'angelo e lo sguardo ferito.















A/n
Sono in ritardo. Lo so. Non vi chiederò scusa né starò qui a dirne le cause, solo vi anticipo già che anche il prossimo sarà in ritardo poiché fino all'undici sarò impossibilitata a pubblicare. Spero vi sia piaciuto, per quanto lunghetto e dalla fine discutibile, ma tranquilli che tra poco avrete tutta la vostra Frerard, buona vita. //hxpelessaromantic

Continue Reading

You'll Also Like

50.2K 2.5K 49
Celeste Esposito 25 anni è una semplice ragazza di Napoli,nata e cresciuta a Posillipo con papà dottore e mamma avvocato. Nel mese di giugno è in via...
28K 1.8K 18
Se non è amore, dimmelo tu, cos'è?
47.2K 1.9K 30
Where... Blanca e Matias hanno un trascorso insieme. Tre anni non possono essere cancellati nel nulla, eppure loro sembrano capaci di farlo. Una vaca...
32.7K 1.8K 25
DOVE tutte le canzoni di Holden sono dedicate a una singola ragazza e questa ragazza è Margherita.