DRAGOSTE - insegnami ad amare

By Rose_Linden_May

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Dopo aver trascorso molto tempo lontano da casa, Viorica fa ritorno nel suo paesino natale in Transilvania, p... More

PROLOGO
1 - RITORNO
2 - PRESENTAZIONI
3 - SOFFERENZA E DISTRAZIONI
4 - GIUDIZI
5 - I MIEI DEMONI
6 - A CASA
7 - MIEI, TUOI, NOSTRI
8 - ERBACCE E MARY SHELLEY
9 - PAROLINE MAGICHE
10 - RIFLESSI E CONFIDENZE
11 - VOLUBILE PER COLPA DELLA LUNA?
12 - AFFOGARE
13 - TENDE BLU
14 - NON TUTTI SONO BRAVI A NASCONDERSI
15 - SOPPORTARE, MAI DIMENTICARE
16 - EVENTI MONDANI
17 - PICCOLI DUBBI
18 - INCONTRI
19 - RISCHIARE
20 - SE NE SEI CONVINTA
21 - ANGELO CUSTODE
22 - PER ZITTIRTI
23 - QUESTIONE DI CHIMICA
24 - SPINA NEL FIANCO
26 - COMPAGNI DI VIAGGIO
27 - ROVINE
28 - CAFFE'
29 - PICCOLI PASSI
30 - CIO' CHE CI RIMANE, IN QUESTA VITA
31 - DISVELARE
32 - CREDI NEI FANTASMI?
33 - FIDUCIA NELL'IMPOSSIBILE
34 - RICORDI DI MORTE
35 - NUOVE ALBE
36 - RICOMINCIARE A VIVERE
37 - FIDARSI È BENE, NON FIDARSI È MEGLIO
38 - FACCIA A FACCIA COL DEMONIO
39 - SCACCO MATTO

25 - OMBRA NELL'OMBRA

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By Rose_Linden_May


Viorica


Sarebbe così semplice vivere, se si fosse capaci di farsi scivolare addosso tutto.

Nessun rimuginare, nessun preoccuparsi di quello che si è detto o si è fatto rivivendo le conversazioni all'infinito per analizzarle da tutte le angolazioni possibili. Andare a letto azzerando il cervello e dimenticandosi completamente di tutte le cose pesanti successe nell'arco della giornata.

Alcuni ci riescono. Alcuni, per un certo verso, sono fortunati.

Invece io sono nata senza questa capacità.

Io sono una che rimugina, che si preoccupa, che soffre di insonnia da quando era ragazzina perché le cose addosso proprio non se le sa far scivolare.

E finché la tua vita procede tranquilla, nessun problema. Se hai solo cose belle a cui pensare, alla peggio qualche rompicapo quotidiano, va tutto bene.

Ma quando vivi sotto lo stesso tetto con colleghi che si impegnano davvero davvero tanto per farti venire il sangue amaro... be', allora è tutto un altro paio di maniche.

Mi è già capitato, in passato, durante le supplenze in alcune scuole. Colleghe bastarde, infide fino al midollo, che le provavano tutte per mettermi i bastoni tra le ruote.

Ho avuto qualche esperienza anche all'università, con i compagni di corso più arrivisti e competitivi.

Ma una cosa così non mi era mai successa.

Con uno come Nikolas non avevo mai avuto a che fare, prima d'ora.

Le discussioni con lui si stanno accumulando sempre di più, e l'insonnia non ci pensa due volte a venire a farmi visita.

Perché non riesco a capirlo, a trovare una logica nei suoi comportamenti, e questa cosa mi incasina la testa. Mi tiene sveglia la notte, quando invece vorrei solo cancellarlo dai miei pensieri e dormire in pace.

Se gli do così fastidio come dà a vedere, perché non mi sta alla larga e basta?

E perché deve essere sempre così acido nei miei confronti? Cosa gli ho mai fatto di male?

Bah...

All'ennesimo giro che compio sotto le coperte, decido che anche per questa notte ne ho abbastanza. Scalcio via le lenzuola con più stizza di quella che vorrei, butto i piedi fuori dal letto e mi alzo.

Le pantofole sono la prima cosa che cerco, anche le assi di legno del pavimento – che dopo l'ultima ristrutturazione sono state installate in tutte le camere da letto – sono tiepide .

Mi avvolgo nella vestaglia, lancio un'occhiata alla pila di libri che tengo sul comodino: romanzi, libri di testo, gialli, un paio di classici.

Ho davvero voglia di leggere?

Sbuffo.

No. Mi bruciano gli occhi; per quanto non riesca ad addormentarmi, la mia mente è stanca. Resterei fissa sulla stessa pagina per ore senza capire una sillaba.

E i miei pensieri ne approfitterebbero per ricominciare a fare baldoria.

Alla luce debole della luna che filtra dalle finestre, afferro la maniglia.

La porta la apro di scatto, sbuffando di nuovo, con un nervosismo nei movimenti che di solito non ho. Imbocco il corridoio imbronciata e con le braccia conserte, come se fossi pronta a prendermela con qualcuno.

È strano il profilo che prendono le cose di notte, in questo castello.

Strano e inquietante, ma inspiegabilmente bello.

Le ombre dei mobili sembrano più lunghe e contorte di quanto appaiano di giorno. Nelle zone di buio più profondo, se ci si sofferma a osservarle, sembra sempre ci sia qualcuno nascosto ad osservarti. È una sensazione insolita, come se la scuola stessa fosse viva e tu potessi sentirne la presenza, il respiro lento e secolare che trapassa i muri. I gargoyle aggrappati alle colonne o appollaiati fuori, sugli archi rampanti, hanno l'aria di potersi voltare da un momento all'altro per gettarti un'occhiataccia, forse infastiditi che tu ti sia messa a gironzolare a quest'ora improbabile.

E poi c'è il corridoio dei quadri, quello che si attraversa per raggiungere l'aula insegnanti dall'ingresso. Non so nemmeno come ci sono arrivata qui, non so da quant'è che sono in giro, sinceramente.

So solo che questo lato del castello è esposto a ovest, e che in queste ore piccole della notte – o del mattino, ad essere precisi – la luna in cielo si affaccia direttamente su queste finestre, colando a fiotti sui ritratti antichi e le foto d'epoca.

Li riempie di un bianco spettrale, accentuando gli sguardi severi degli antenati, le pose austere, quegli occhi così penetranti da sembrare ancora vivi.

Alla mia destra c'è la donna con il libro. La osservo un po' meglio, in questo momento di assoluta immobilità. È uno dei dipinti più antichi, per questo mi piace. Lei, come i ritratti di quello stesso periodo o poco posteriori, ha uno stile diverso. È più elaborata, indossa abiti di un'eleganza che cattura lo sguardo. Ha gioielli traboccanti di pietre e perle, merletti vaporosi, stoffe di colori splendenti, uno sguardo quasi disumano.

I ritratti più recenti sono spenti e morti, polverosi anche nelle tinte. Quelli di secoli fa sono quasi magici da guardare.

Il tempo viene risucchiato mentre li si osserva. Ti trovi incastrato in un posto non ben definito tra il presente e qualche increspatura del passato, ad immaginare il castello agli albori, in un mondo diverso, nel buio un po' inquietante lasciato dai ricordi.

Ti senti così trascinato a fondo dalle presenze incombenti di tutte le persone che lo hanno attraversato, da dimenticare per un secondo di esistere.

Ed è in quel secondo di smarrimento, che sento un rumore improvviso e mi riscuoto.

È debole, appena più di uno scalpiccio, ma lo sento. Oltre la porta dalla parte opposta della lunga sala in cui mi trovo.

E se fossi una persona normale, sentirei il cuore schizzare in gola e il respiro accelerare, insieme a una voglia matta di tornare in camera.

Ma sono la figlia di un insegnante di letteratura appassionato di Romanticismo, che adesso è preside di una scuola-castello nei boschi della Transilvania, e mia madre da ragazza amava passare i pomeriggi con le vicine più anziane ad ascoltare le vecchie storie sugli spiriti locali. Sono cresciuta a pane e racconti gotici.

Se sento un rumore di notte, nel buio di un corridoio arcaico e silenzioso, non mi si gela il sangue, si scalda per la curiosità.

Se sento un rumore di notte, al buio, non ne sono spaventata, ma attratta.

Forse se avessi passato l'infanzia a pettinare le bambole come le mie coetanee, invece di leggere I misteri di Udolpho fino a saperlo a memoria, avrei inclinazioni un po' meno macabre che seguire gli spettri per i corridoi della Nordesange.

Poco male, ormai non ci si può più far nulla, se non assecondare l'istinto e incamminarmi con passo felpato verso la porta opposta, quella che si apre su una piccola rampa che introduce nell'ingresso principale.

Schiudo adagio il battente e intrufolo la testa nello spiraglio.

La fetta di castello che mi si apre davanti è avvolta da uno strato di ombre ancora più spesso, perché qui non ci sono finestre. Sguscio oltre la porta e mi schiaccio con le spalle al muro, camminando strisciandoci una mano sopra per non perdere l'orientamento.

Arrivo alla breve rampa, da qui l'aria si fa un po' meno scura e si intravede il profilo massiccio della grossa scalinata principale, quella che torreggia sull'atrio e che sale in alto per ramificarsi in tutto il castello. Gli scalini di pietra chiara, i corrimano intarsiati, sono illuminati di sbieco dalla luce lattea proveniente dall'enorme lucernaio centrale. Negli angoli si creano giochi di chiaroscuri che sembrano vibrare di vita propria, e sotto, di sfondo, lo sbatacchiare sordo e quasi impercettibile di passi che non vogliono essere uditi.

Sposto lo sguardo veloce, attenta, cercando di catturare ogni movimento, anche se qui è tutto immobile. Come in un sogno.

Poi lì, eccolo.

Nell'angolo a sinistra in cima alle scale.

Un'ombra nell'ombra. La sagoma di una persona. Si muove. Veloce e silenziosa, ma si muove.

Scivola verso il buio come un fantasma, e io mi sporgo avanti per seguirla con gli occhi. Mi stacco dalla parete e raggiungo l'angolo del corridoio, che si affaccia sull'androne. Mi aggrappo al muro, allungo il collo.

L'ombra arriva al primo pianerottolo, volta a sinistra per imboccare la seconda rampa.

La luce fioca gli sfiora il viso.

Nikolas.

Nikolas che risale le scale venendo da chissà dove.

Nikolas che, vestito solo di un paio di pantaloni della tuta e una maglietta, attraversa il castello nell'oscurità della notte.

Nikolas, che scivolando via come uno spirito che fugge da sé stesso, stringe in mano qualcosa.

Un sacchetto di carta.


~ ☆ ~


Il bagliore smorto del giorno sembra più accecante del solito, dopo la notte in bianco che ho trascorso. Perché sarebbe stato troppo facile tornarmene a letto dopo aver beccato Nikolas a zonzo per la scuola e dormire, senza pensarci più.

Come no.

Non ci ho neanche provato a chiedere al mio cervello di spegnersi.

E adesso ne sto risentendo.

La mia mano tremola per la stanchezza mentre trascino il gessetto sulla lavagna della classe. La mia grafia, di solito ordinata e comprensibile, è storta, piega tutta da un lato come se nemmeno lei riuscisse a reggersi in piedi.

Mi strofino una mano sotto gli occhi per cercare di alleviare la sensazione delle borse gonfie. Mi scanso di lato per permettere ai ragazzi di leggere quello che ho scritto, e per poco non traballo sugli stivaletti.

Dovevo mettermi le scarpe da ginnastica, stamattina.

«Professoressa...». Dalle file in fondo si solleva una mano. «Non... non riesco a capire l'ultima parola». A parlare è stato Emil, un ragazzo che secondo me ha un principio di miopia ma si rifiuta di mettere gli occhiali. Comincio a pensare che dovrei farlo sedere nei banchi davanti, non vede quasi mai niente.

Mi volto verso la lavagna.

Lui sarà anche miope, ma stavolta ha ragione. Non si capisce un tubo.

Sospiro. «Sì. Scusate. I CASTELLI NEI ROMAZI TRA SETTE E OTTOCENTO». Ci si poteva arrivare, visto che è già da un po' che siamo su questo periodo storico, ma comunque in OTTOCENTO le T sembrano delle F e la E si è fusa con C creando una specie di mostro deforme. Cancello con la mano e riscrivo, questa volta sforzandomi di farlo in maniera decente.

Spolvero i palmi sporchi di gesso tra loro e mi giro nuovamente verso la classe. «Scusate, davvero. È una pessima mattina...», ammetto.

Tra loro nessuno risponde, ma alcuni mi rivolgono occhiate comprensive o piccoli sorrisi di incoraggiamento, specialmente Laura e Olga.

Tiro un respiro veloce, drizzo la schiena e batto le mani una volta, più che altro per darmi una svegliata. «Allora. I castelli. I castelli sono un punto chiave nella letteratura europea di epoca moderna. È un'ambientazione che riscuote un enorme successo soprattutto nell'orizzonte letterario gotico». Comincio a camminare avanti e indietro difronte alla cattedra, mentre i ragazzi stanno chini sui quaderni a prendere appunti o mi ascoltano un po' sonnolenti. «Fraknestein, Dracula, i romanzi della Radcliffe, L'abbazia di Northanger di Jane Austen, sono solo alcuni dei casi più famosi che utilizzano questo sfondo. Ma ce ne sono un'infinità. Quando non è un vero e proprio castello, è un'abbazia, un monastero antico, a volte una villa secolare dai tratti macabri. Si tratta di luoghi che per lo stile del romanzo gotico sono perfetti, perché richiamano mistero, inquietudine, creature nascoste nell'ombra, storie di fantasmi. Cose inspiegabili alla mente umana, che attiravano moltissimo i lettori del tempo.
«Molti autori e autrici si sono ispirati a castelli reali per le ambientazioni dei loro romanzi. Ha fatto così Mary Shelley, che per Frankestein sembra essersi ispirata ad un castello che si trova in Germania. E qui in Romania di castelli di quel tipo ne abbiamo tantissimi, come saprete ce n'è uno che è stato associato a quello del romanzo di Stoker, il Castello di Dracula a Bran». Con il dito indico un punto sulla cartina affissa al muro sulla parete opposta, e tutte le teste seguono la direzione della mia mano. «L'anno scorso, con una classe di Amsterdam ho organizzato una gita per visitare un castello in rovina con annesso l'antico convento, dove venivano fatte delle rievocazioni in costume per le scolaresche. Ai ragazzi è piaciuto tantissimo, hanno trovato mille parallelismi con i romanzi che stavamo studiando...».

Una mano si solleva nella terza fila a partire dal basso. «Possiamo fare anche noi una gita così?», chiede Marijka, una di quelle che si è mostrata più interessate all'argomento da quando l'ho introdotto. 

Dal lato opposto della classe Cornel fa uno sbuffo sofferente.

«Viviamo già in un castello gotico, cosa te ne fai di andarne a visitare uno uguale?».

«Il nostro è diverso! È stato tutto ristrutturato, c'è la luce elettrica in ogni singola stanza, molti camini sono a induzione, il parquet nuovo con il riscaldamento a pavimento è roba che anche a casa mia si sognano... Voglio vedere un castello che sembri davvero uscito da un racconto di fantasmi».

Io congiungo le mani davanti a me e resto in silenzio, lasciandoli continuare il loro momento di confronto.

Cornel fa una faccia scettica, stropicciando la bocca. «Tu sei tutta matta. Io ne ho già abbastanza delle cose inquietanti che ci sono qui, non mi serve infilarmi in un altro castello infestato».

«Oh, la scuola non è infestata, Cornel», sospira Laura dalla fila davanti, girandosi indietro. «Come te lo dobbiamo dire?».

«Ehi, non me li sono sognati i cigolii quando siamo andati al quinto piano l'altra sera», sussurra lui allungandosi verso il suo banco, e io faccio finta di non aver sentito.

I motivi per cui gli studenti possono decidere di andare al quinto piano sono sempre tra i più loschi, e come lo abbiamo fatto io e i miei compagni ai nostri tempi, è giusto che lo facciano di nascosto anche loro.

Anche se il discorso dei cigolii mi fa correre un brivido di curiosità lungo le braccia.

«Professoressa, allora dice che si può organizzare una gita?», continua Marijka, come se Cornel non avesse mai aperto bocca.

Toni salta sulla sua sedia tutto euforico. «Oh, sarebbe una figata se ci fosse un posto che fa le rievocazioni come quello ad Amsterdam di cui parlava prima!».

«Sono d'accordo», dice qualcun altro.

«Secondo me poi nessuno di noi ci dorme la notte».

«Bah, solo le femminucce».

«Quindi Cornel».

«Sta' zitto, cretino».

«Io credo che sarebbe interessante».

«Andiamo, ragazzi, l'ultima gita l'abbiamo fatta quasi due anni fa! Io ci voglio andare».

«Pure io».

«Se prendiamo un pullman io mi siedo davanti!».

«Perché sempre tu?».

«Perché soffro il mal d'auto e qui in montagna i tornanti sono tremendi».

Batto le mani un paio di volte per sedare il vespaio che si è sollevato. «Va bene, va bene. In realtà non avevo in programma nessuna gita, quindi se decidiamo di farla devo prima organizzarla per bene. C'è da informarsi sulle strutture, non ho idea se ci sia qualcosa di simile all'esperienza fatta ad Amsterdam, qui intorno. Devo fare un po' di ricerche, chiedere il permesso al preside. Ma prima direi di metterla ai voti. Quanti vorrebbero andare?».

Su ventotto studenti, si sollevano praticamente tutte le mani.

«Okay... chi invece non è d'accordo?».

Cornel è l'unico ad alzare la mano. Si guarda intorno, sbuffa, si accascia sulla sedia. Fa ricadere il braccio sul banco. «Oh, lasciamo stare. Andiamoci. Ma se poi qualcuno di voi si lamenta di non voler tornare in camera da solo la sera, io non lo accompagno!».


~ ☆ ~



«Mamma, in quale lingua te lo devo dire? Lo sposto io!».

«E io in quale lingua te lo devo dire che ce la faccio benissimo da sola?».

Sollevo gli occhi al cielo, mentre lei, ridacchiando come una bambina, si stringe al petto il grosso vaso di ceramica pieno di acqua per spostarlo per la centesima volta.

«Tu dici che ce la fai, io dico che non mi interessa e che lo prendo su io. Pesa troppo. Avanti, dammelo».

Glielo sfilo dalle mani e mamma sospira in modo teatrale, come se le mie preoccupazioni la esasperassero, quando invece è lei, con la sua incapacità di stare a riposo per più di cinque minuti, ad esasperare me.

Potrà anche essere in forma nell'ultimo periodo, potranno anche avermi detto che queste misteriose "nuove cure" stanno funzionando, ma non voglio che tiri troppo la corda.

«Allora, dove lo vuoi questa volta?».

«Prova sul tavolino lì nell'angolo, secondo me ci sta benissimo».

Brontolo tra me e porto il vaso traboccante di fiori fino al tavolino accanto alla finestra del salotto, dove arriva la luce grigia e marroncina del pomeriggio piovoso.

Le camelie screziate di rosso ondeggiano un po' sugli steli e la mamma si avvicina per sistemarle meglio.

Intanto papà se ne sta inginocchiato davanti al camino a punzecchiare la legna con l'attizzatoio per rinvigorire le fiamme. Tossisce un po' quando una vampata di fumo lo investe in viso.

«Se voi due avete finito di passarvi quel vaso come una patata bollente, è ora di andare», borbotta alzandosi in piedi e spolverandosi i pantaloni.

Io lancio un'occhiata all'orologio appeso al muro. Sono quasi le cinque. Papà ha promesso a Karla che avrebbero finito di discutere alcune questioni sulle prossime riunioni con i genitori prima di cena.

Per quanto adori stare qui a casa insieme a lui e la mamma, dobbiamo rientrare a scuola.

«Tesoro, ti ho portato dentro altra legna. Finché non torno dovrebbe bastarti, così non devi andarla a prendere tu», dice rivolto alla mamma. Nel frattempo, si avvicina all'appendiabiti e si infila il cappotto lungo.

Mamma sospira di nuovo e alza gli occhi al soffitto. «La smettete di trattarmi tutti e due come un'invalida senza braccia? Guarda, caro, che riesco a portarli due ciocchi di legna dalla veranda sul retro fino al caminetto dentro casa».

«Bravissima, cara», la prende in giro lui. Si avvicina e le posa un bacio sulla fronte. «Intanto però te l'ho portata dentro io. Ci vediamo per cena. Non farti venire altre strane idee per il decoupage mentre non ci sono. Stasera voglio andare a letto ad un orario decente».

«Pff. Come sei noioso».

Papà solleva un angolo della bocca in un sorrisetto obliquo, quasi infantile, lei gli stropiccia le guance prima di sfiorargli le labbra con un bacio veloce, e io mi trovo come sempre a guardarli in silenzio dal mio angolino, pensando a quanto debba essere bello avere un amore come il loro, così complice e puro.

Dopo essersi salutati, mamma si avvinghia a me e mi dà un lungo abbraccio, poi io e papà usciamo in cortile dove ci aspetta la sua vecchia auto.

Mentre risaliamo la strada verso la scuola, papà fischietta allegro.

Vedere la mamma lo mette sempre di buonumore.

Arrivati al castello, lui parcheggia dentro quella che un tempo era l'entrata dell'enorme cantina per la stagionatura del vino, e che adesso è utilizzata dai professori come garage.

Smontiamo e imbocchiamo una scaletta interna per sbucare nell'ingresso principale. Da lì, mio padre prende la strada per la presidenza, io invece punto le scale.

Ma dopo appena una rampa mi fermo e mi ricordo di dovergli chiedere una cosa.

Così faccio dietrofront, scendo i gradini di corsa e lo raggiungo a metà del corridoio con i dipinti.

«Papà...», comincio, rallentando il passo quando gli sono accanto.

«Dimmi, fiorellino». Lui continua a camminare, ma mi rivolge un sorriso dolce dei suoi, illuminato di taglio dalla luce pallida che entra dalle grandi finestre alla nostra sinistra.

«C'è una cosa che volevo chiederti, riguarda una delle mie classi».

Attraversiamo la porta in fondo al corridoio e curviamo un po' a destra. «Ci sono stati dei problemi?».

«No, nessun problema, figurati. I ragazzi sono fantastici».

Un piccolo sorrisetto orgoglioso gli piega le labbra, mentre afferra la maniglia del suo studio per infilarcisi dentro. Io lo seguo a ruota, richiudendomi la porta alle spalle.

«Sì, sono proprio dei bravi ragazzi, i nostri».

«Mi stavo chiedendo... So di essere qui da poco, non voglio allargarmi troppo con le iniziative... Però mi piacerebbe portarli in gita, se per te va bene».

Lui, che si era messo a raccattare dei fogli sparsi alla rinfusa sulla sua scrivania, si ferma di colpo. Drizza la testa e mi inchioda addosso due occhi all'improvviso più vigili. «In... gita?».

«Sì». Mi stropiccio le mani una contro l'altra. «In visita ad un castello. In classe stiamo affrontando il genere dei romanzi gotici, ai ragazzi piacerebbe una gita di questo tipo...».

«Ma tesoro, noi viviamo in un castello gotico». Allarga le braccia ad indicare le pareti che ci circondano, ridacchiando in maniera un po' nervosa.

«Sì, lo so, ce lo ha fatto notare anche Cornel», mi viene da ridere. «Ma sarebbe bello portarli un po' fuori, a fare qualcosa di diverso. Ho fatto alcune ricerche e qualche telefonata. Ho scoperto che c'è un castello qui vicino, a poco più di un'ora di viaggio, dove durante le visite guidate alcuni attori interpretano i vecchi proprietari del palazzo, con costumi d'epoca e tutto il resto. Per gli studenti è un modo interessante per avvicinarsi a certe realtà...».

Lui si strofina il mento. Si gira, guarda fuori dalle finestre a sesto acuto, riporta lo sguardo su di me e sospira un paio di volte, pensieroso.

«Quindi... tu... insomma, vorresti prendere e andare... fuori dal castello... fuori... dalla nostra zona... da sola, con gli studenti?».

«Esatto».

«E... quando avresti in programma di farla, questa gita?».

«Be'... il luogo è abbastanza vicino, ci si arriva bene con un pullman. Ho già chiesto informazioni alla struttura e loro sarebbero disponibili per una visita anche la settimana prossima».

«Settimana prossima?!».

«Sì, non vorrei avvicinarmi troppo alle vacanze di Natale. Sai, dopo c'è tutta l'organizzazione per il ballo, le verifiche di fine trimestre... è un periodo un po' pieno».

Papà inizia a scuotere la testa, con un'ombra in viso che lo fa sembrare più vecchio. «Non lo so, Viorica...».

«Oh, andiamo». Mi avvicino a lui gesticolando, regalandogli il mio sorriso più incoraggiante. «Ci porto solo una classe. Non sarà così infattibile...»

«Non puoi portare una classe in uscita da sola».

«Perché no?».

«Perché no, tesoro».

«Sì, ma perché? Non sarebbe la prima volta. L'ho già fatto, in passato, me la sono cavata bene. Posso gestirla, io penso che...».

«Non puoi e basta. È troppo...», esclama di colpo, infervorandosi così all'improvviso da farmi sobbalzare.

Se ne accorge subito, e i suoi occhi si velano di dispiacere. Non è mai stato abituato ad alzare la voce con me, non ne ha mai avuto bisogno.

Io e lui non abbiamo quasi mai discusso, sono state rarissime le volte in cui ci siamo trovati ad avere opinioni contrastanti.

«È... è troppo...». La sua voce si è abbassata, il suo sguardo si è fatto stanco.

«Troppo cosa, papà?».

Scrolla la testa, come a voler dire di lasciar perdere. Sospira, si passa una mano sul viso lasciandosi gli occhiali tutti storti sul naso. «Una classe intera da tenere sotto controllo da sola mi sembra un azzardo durante un'uscita, preferirei che ci ripensassi». Suona come una scusa.

«Ma te l'ho detto, l'ho già fatto...».

«E se succede qualcosa? Se qualcuno si fa male? Se ti trovi in difficoltà, e non c'è nessuno lì con te ad aiutarti? Davvero, io non credo che...».

Mi avvicino e gli metto le mani sulle spalle. «Saremmo solo ad un'ora di distanza da qui, te l'ho detto. Se succede qualcosa, posso chiamarti e...».

Smetto di parlare quando vedo che lui mi guarda intensamente, come se davvero gli stessi chiedendo di concedermi l'impossibile. Resto in silenzio per un po', perché conosco papà e so che stargli con il fiato sul collo non serve a niente se non a mandarlo ancora più in crisi.

E lui si prende il suo tempo, posso sentire il suo cervello che lavora, gli ingranaggi che scricchiolano, anche se non so cosa ci sia di tanto complicato in questa semplice richiesta da doverci ragionare in questo modo. Non capisco che cosa lo stia mettendo così in agitazione, cosa ci sia che lo turba così tanto.

Si comporta in modo talmente strano...

Alla fine, rilascia un lunghissimo respiro e accascia pesantemente le spalle. «Viorica, amore mio, lo sai che ti regalerei anche la luna, se me la chiedessi. Però non sono sicuro che sia una buona idea...».

Scrollo il capo risoluta. Non sono mai stata una con la tendenza a contestare le decisioni dei genitori, e in questo caso, oltre che di mio padre, si tratta anche del mio superiore all'interno della scuola, ma davvero non capisco.

La sta facendo troppo tragica.

E il suo atteggiamento insensato mi sta allarmando sempre di più.

«Perché, papà? Dammi una valida ragione per cui non dovrebbe essere una buona idea. Si tratta solo di una gita...».

All'improvviso, due colpi secchi alla porta, e senza nemmeno aspettare un invito ad entrare Nikolas la spalanca, bloccandosi con un piede sollevato sotto la cornice.

«Eugen, per caso hai...?».

Smette di parlare nel momento in cui si accorge che mio padre non è solo. I suoi occhi mi cadono addosso quasi con violenza, e fa una smorfia indecifrabile con la faccia. «Ah, Grigore. Ciao». Stiracchia un sorriso fasullo, io lo fisso un po' senza battere ciglio prima di tornare su mio padre.

«Nikolas, hai bisogno di qualcosa?», chiede lui prima che io possa riaprire bocca.

Sollevo di scatto le sopracciglia. Cosa fa, prova a troncare la conversazione?

«Sì, volevo chiederti se...».

«Possiamo finire un momento il discorso, prima?», chiedo io più tagliente del solito, tenendo gli occhi incollati a mio padre e le braccia incrociate. Nikolas non lo degno più nemmeno di un'occhiata.

Papà mi rivolge uno sguardo supplichevole, ma io non mollo l'osso. Sostengo il suo sguardo, la mandibola contratta, il piede che batte nervoso sul tappeto del suo ufficio.

Lui passa l'attenzione da me a Nikolas, che non sembra capire quello che sta succedendo. Se ne sta semplicemente lì, fermo, con il suo solito atteggiamento imperscrutabile, con quel suo modo di esistere che lo fa apparire padrone persino dell'aria che gli sta attorno.

Papà lo guarda per un po'. Stira le labbra, assottiglia gli occhi dietro le lenti un po' sporche degli occhiali. Poi, finalmente, sembra arrivare a una conclusione.

Il suo petto si sgonfia di tutta l'aria che tratteneva, la sua espressione si fa arrendevole. Chiude le palpebre, scrolla la testa, riapre gli occhi e mi guarda. «Ascolta, se ci tieni davvero così tanto, va bene, ma non ci andrai da sola».

Annuisco risoluta. «D'accordo. Non è un problema. Posso chiedere a Karla se vuole accompagnarci. O anche a qualcuno degli altri insegnanti, se preferisci. Magari uno dei più anziani, hanno sicuramente più esperienza, quindi...».

«Verrà Nikolas».

Per poco non mi strozzo con il mio stesso respiro. Trattengo il fiato di scatto, lo rilascio andare con una serie sconclusionata di colpi di tosse. «Co-cosa?».

Papà mi guarda sbattendo le palpebre.

Io annaspo un po', cerco di tornare a respirare normalmente. Mi sfioro la base della gola che sento improvvisamente secca, e mi raddrizzo senza mai guardare nella sua direzione. Fingendo persino che lui non sia qui.

«Perché... perché proprio Nikolas?».

Mio padre fa spallucce, il viso inespressivo che cerca di mascherare qualsiasi pensiero. «Be'... perché no?».

Lo fisso allibita per un tempo così lungo che alla fine mi sento come se mi si fossero bloccati i muscoli della faccia.

È proprio la voce di Nikolas a riscuotermi. Si schiarisce la gola rumorosamente. «Ehm-ehm... Vorreste far capire anche a me?».

Papà ruota il viso nella sua direzione, io lo scruto con la coda dell'occhio e lo vedo allargare le braccia.

«Dove dovrei accompagnare chi e perché?», domanda con un'apatia nella voce che risulta quasi irritante. Fa qualche passo avanti, fino a fermarsi al centro della stanza, poco lontano da me.

«Viorica vorrebbe portare una delle sue classi in gita».

Nikolas soffia divertito. «E dove, alla chiesa giù in paese?».

Lo fulmino con un'occhiataccia.

«No... in un castello ad un'ora da qui». Il tono che usa papà è strano, troppo cupo e basso, come se volesse dire qualcosa a Nikolas senza che io capisca. Mi accorgo che si scambiano uno sguardo complice per me incomprensibile, e mi viene voglia di prenderli entrambi per le orecchie.

«Mmh», rumoreggia Nikolas. Non sembra contento.

«Io penso che gli accompagnatori debbano essere due. Sai, per stare più sicuri...».

Mi esce un verso scettico. «Se pensi davvero che con lui si possa stare più sicuri...», mi lascio scappare tra i denti.

Nikolas mi rivolge due occhi sorpresi, a metà tra l'offeso e il divertito. Papà invece mi scruta confuso, dubbioso.

«Che c'è, Grigore, pensi che io non sia affidabile per gestire una classe in uscita?».

Scrollo le spalle. «Penso che saresti capace di imboscarti con i ragazzi per fumare erba».

Cogliendomi alla sprovvista, lancia indietro la testa e scoppia in una fragorosa risata. «Wow. No, okay, sei molto meno ingenua e santarellina di quello che pensavo, se prendi così con filosofia la consapevolezza che i nostri ragazzi fumano quella roba». Continua a ridacchiare per un po' fingendo di asciugarsi le lacrime. «Ti credevo molto più sulle nuvole, sai?».

«Hai finito?», domando incolore, ma Nikolas continua a divertirsi a mie spese. Guardo papà con un sopracciglio inarcato, ma lui non dice nulla.

Assurdo.

«Papà», pronuncio secca. «Vorrei poter chiedere a qualcun altro di venire con me insieme agli studenti».

Lui scuote la testa. «Io invece credo che Nikolas vada più che bene».

Perdo le staffe. «Ma perché?! Siamo una dozzina di docenti in questa scuola, potresti sceglierne uno qualunque... perché sei sempre così fissato con lui?».

Nikolas si schiarisce di nuovo la voce. «Volete continuare a discutere di me facendo finta che io non sia qui?», domanda ironico.

Mi giro di scatto, e la seconda occhiataccia della giornata va' a segno. Nikolas solleva le mani in segno di resa, ma continua a sorridere come un idiota.

«Viorica, se vuoi il mio permesso per questa uscita, dovrà venire anche lui, e non starò qui a giustificare le mie scelte con te. Sappi solo che se dico o faccio qualcosa, è sempre con cognizione di causa». Papà fa il giro della scrivania per andare a sedercisi dietro.

Io inizio a scuotere la testa mentre lui sta ancora parlando. «No, no... Io non li accompagno i ragazzi in gita insieme a lui».

Alle mie spalle, Nikolas emette uno sbuffo pesante.

Ruoto solo il collo.

Terza occhiataccia.

«E allora rinuncia alla gita». Torno con gli occhi su mio padre, e lo fisso sbarrando le palpebre.

«Dici sul serio? Mi stai davvero mettendo nella posizione di scegliere se portare fuori i ragazzi con lui, oppure non portarceli affatto?».

Papà sembra dispiaciuto, ma per nulla intenzionato a ritrattare.

«Tu sei mia figlia, ti conosco, confido molto nelle tue capacità di gestire gli studenti. Ma un'uscita fuori dal paese è impegnativa e voglio che tu sia accompagnata. Nikolas è quello di cui mi fido di più, qui dentro, dopo di te».

«E di Karla che mi dici? O di Dalina? Sono le persone più affidabili che io abbia mai conosciuto! Molto più di questo...». Mi mordo la lingua prima di farmi uscire qualcosa di troppo offensivo.

Mio padre mi rimprovera con gli occhi, Nikolas bofonchia qualcosa di poco carino nei miei confronti.

«Non voglio continuare a discuterne, Viorica. Verrà lui insieme a voi, altrimenti non se ne fa niente».

Stringo i denti, così forte che mi si indolenzisce la mandibola. Mi irrigidisco e lancio uno sguardo contrariato in direzione di Nikolas, ancora fermo in mezzo allo studio.

Mi ha baciata senza il minimo pudore, mancandomi totalmente di rispetto.

Quel ricordo mi provoca ancora una serie di brividi di fastidio lungo la spina dorsale. L'idea di farmi accompagnare da lui mi crea problemi, enormi problemi. E non è tanto la paura che possa riprovarci– penso abbia capito che sarei pronta a fargliela pagare – ma il fatto che con lui attorno è sempre tutto maledettamente complicato, tutto troppo teso, imprevedibile, e di trascorrere una giornata intera insieme a lui, a stretto contatto con lui, senza modo di prendermi una pausa dai suoi modi odiosi, ne ho meno voglia che di farmi investire da un autobus.

Ma i ragazzi ci tengono così tanto a fare questa uscita... non voglio tornare da loro e dirgli che non ho ricevuto il permesso del preside, solo perché non ero d'accordo a farmi accompagnare dal troglodita di turno.

Soffio un sospiro nervoso.

Sto passando troppo tempo in silenzio, e solo ora papà mi osserva bene in viso e si accorge di quanto la sua proposta mi abbia turbata. «Viorica, mi spieghi qual è il problema se Nikolas viene con voi?».

Io non mi volto, tengo gli occhi incrociati a quelli del mio collega, sostengo quelle iridi blu notte prive di qualsiasi luce a parte quella un po' sadica che appare quando vuole divertirsi a farmi la guerra, e butto fuori un respiro lentissimo.

«Nessuno. Assolutamente nessuno».

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