DRAGOSTE - insegnami ad amare

By Rose_Linden_May

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Dopo aver trascorso molto tempo lontano da casa, Viorica fa ritorno nel suo paesino natale in Transilvania, p... More

PROLOGO
1 - RITORNO
2 - PRESENTAZIONI
3 - SOFFERENZA E DISTRAZIONI
4 - GIUDIZI
5 - I MIEI DEMONI
6 - A CASA
7 - MIEI, TUOI, NOSTRI
8 - ERBACCE E MARY SHELLEY
9 - PAROLINE MAGICHE
10 - RIFLESSI E CONFIDENZE
11 - VOLUBILE PER COLPA DELLA LUNA?
12 - AFFOGARE
13 - TENDE BLU
14 - NON TUTTI SONO BRAVI A NASCONDERSI
15 - SOPPORTARE, MAI DIMENTICARE
16 - EVENTI MONDANI
17 - PICCOLI DUBBI
18 - INCONTRI
19 - RISCHIARE
21 - ANGELO CUSTODE
22 - PER ZITTIRTI
23 - QUESTIONE DI CHIMICA
24 - SPINA NEL FIANCO
25 - OMBRA NELL'OMBRA
26 - COMPAGNI DI VIAGGIO
27 - ROVINE
28 - CAFFE'
29 - PICCOLI PASSI
30 - CIO' CHE CI RIMANE, IN QUESTA VITA
31 - DISVELARE
32 - CREDI NEI FANTASMI?
33 - FIDUCIA NELL'IMPOSSIBILE
34 - RICORDI DI MORTE
35 - NUOVE ALBE
36 - RICOMINCIARE A VIVERE
37 - FIDARSI È BENE, NON FIDARSI È MEGLIO
38 - FACCIA A FACCIA COL DEMONIO
39 - SCACCO MATTO
40 - SOTTO MILLE SGUARDI
41 - FIAMMA VIVA
42 - CUORI A CONFRONTO
43 - FIOCCHI DI NEVE
44 - DIVERGENZE
45 - LASCIA CHE SI VEDANO LE STELLE
46 - QUIETE E TEMPESTA
47 - TU, CHE MI HAI INSEGNATO DI NUOVO AD AMARE
48 - REMINISCENZE
49 - SUL FILO DEL RASOIO
50 - QUELLO CHE IL CUORE NON DICE
51 - FORTIS CADERE, CEDERE NON POTEST
52 - MAGIA DI SANGUE
53 - DESOLAZIONE

20 - SE NE SEI CONVINTA

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By Rose_Linden_May


Viorica


Il cielo, in questa mattina di fine ottobre, è rischiarato da un sole fiacco, impallidito da un velo sottile di nuvole. Ma mi piace vedere come, nonostante le temperature si stiano abbassando sempre di più, la maggior parte degli studenti abbia ancora voglia di trascorrere l'intervallo nel parco della scuola, e non tra i corridoi o le sale comuni. Anche io ero come loro. Preferivo di gran lunga il giardino vasto e arioso, le panche di pietra con vista sulla vallata. Mi sembrava di riuscire a respirare meglio, con tutta quell'immensità davanti agli occhi.

Accavallo una gamba all'altra e mi porto il bicchierino di caffè alle labbra, appoggio le spalle allo schienale della panchina e mi distraggo a guardare la scolaresca sparpagliata tra le fontane e i sentierini in pietra.

Dai comignoli del castello si solleva il solito aroma di legna bruciata, che si mescola nell'aria con gli odori tipici dell'autunno: castagne arrosto, foglie secche e terra umida, cappotti di lana spessa e profumi speziati.

Ad un certo punto, sento dei passi scalpicciare accanto a me.

Mi giro per vedere Laura e Olga fermarsi di fianco alla panchina. Entrambe mi sorridono, spalla contro spalla, il contrasto tra i capelli biondi di una e quelli bruni dell'altra enfatizzato dallo sfondo grigio del cielo ottobrino.

Olga è la prima a parlare. «Professoressa, possiamo disturbarla?».

Io abbasso il bicchierino di carta e sorrido. «Non mi disturbate, ragazze. Ditemi».

«Ci stavamo chiedendo se per caso fosse possibile leggere Goethe in versione integrale», dice Laura, stuzzicandosi una pellicina sull'indice.

Io nascondo un piccolo sorriso. Questa settimana, a lezione, abbiamo iniziato a parlare di letteratura Europea tra il Sette e l'Ottocento, e sul loro libro di testo sono presenti alcuni estratti presi da I dolori del giovane Werther. Oggi li abbiamo letti in classe, analizzandoli. Mi sono anche portata da casa la mia vecchia versione tutta sgualcita, per farla girare tra i banchi. Come compito ho dato da scrivere una piccola relazione sui passi letti insieme.

Inarco un sopracciglio. «Lo sapete che è un romanzo di due secoli e mezzo fa, vero? Non pensate di trovarlo noioso?».

Le ragazze si scambiano uno sguardo incerto prima di fare spallucce, come se non avessero capito che sto scherzando.

Soffoco una risatina. «Sì, ovvio che potete». Regalo a entrambe un sorriso che le fa rilassare. «Non c'è bisogno che scendiate in paese per procurarvelo. Posso prestarvi la mia copia, e sono abbastanza sicura che ce ne sia una anche nella biblioteca della scuola».

Laura apre le labbra in un bel sorriso, il viso di Olga si illumina come una lampadina.

Si trattengono un po' a chiacchierare, e a me fa piacere.

Sono due ragazze sveglie, entrambe molto intelligenti ed estremamente affiatate, anche se hanno caratteri un po' diversi. Olga è più timida, introversa, ma sorride tantissimo, e mi ritrovo spesso a pensare che sia una qualità ammirevole in chi come lei sta attraversando un brutto momento. Laura è più diretta ma molto posata, ha un contegno parecchio maturo per la sua età, un'indole curiosa e tanta voglia di capire il mondo che la circonda.

Tutte due, a modo loro, mi ricordano un po' com'ero io alla loro età.

Dopo alcuni minuti sentiamo una voce maschile richiamare Olga. Lei si gira in un frullo di capelli scuri, e vediamo Toni alcuni metri più in là. Lui si accorge di me, ancora seduta sulla panchina, e alza una mano in segno di scuse, forse pensando di averci interrotte.

Olga mi ringrazia per il libro che, dopo aver tirato fuori dalla borsa, ho dato a lei, e si allontana per andare a sentire cosa ha da dirle il suo amico. Laura fa per seguirla, ma all'ultimo la fermo.

«Laura, aspetta».

Si volta e mi guarda, mentre io mi alzo in piedi e mi metto di fronte a lei, gli stivaletti che picchiettano la pietra del sentierino e il cappotto lungo che mi sfiora le caviglie. Nascondo le mani nelle stanche per proteggerle dal freddo, e abbasso il mento per guardare negli occhi la mia studentessa, di alcuni centimetri più bassa di me.

La osservo per un po' in silenzio, poi faccio scivolare lo sguardo alle sue spalle, verso Olga, ormai lontana e impegnata in una fitta conversazione con Toni e Cornel, che li ha appena raggiunti.

«Come sta?». Non ho bisogno di specificare perché Laura capisca.

Lei lancia un'occhiata veloce all'amica, e una nota di tristezza le spegne il sorriso. «Lei dice di star bene. Ed è anche brava a fingere che sia così. Ma io la conosco, e ultimamente non è più la stessa. È più silenziosa, ogni tanto si incupisce, ma non ne parla. Non vuole farmi pesare addosso le sue preoccupazioni, però io lo so che ha tanta paura».

«Capisco». Annuisco piano, fissando un punto impreciso tra i pini che ricoprono le montagne oltre lo strapiombo, ricamati da nastri di nebbia. «Mi dispiace».

«Anche a me».

«Forse dovrebbe provare a parlarne con qualcuno, qualcuno che possa aiutarla», mormoro, e vedo le labbra di Laura incresparsi in una smorfia rassegnata.

«Ho provato a dirglielo anche io. Ma Olga... lei non è una che parla volentieri dei suoi problemi. Dice che non ce n'è bisogno, che parlarne non aiuterà suo padre a stare meglio e che le serve solo un po' di tempo», dice un po' afflitta.

E io capisco. Capisco perché anche io rispondevo come Olga, quando mi dicevano che era il caso di parlarne con uno psicologo, con uno specialista.

Anche io da ragazzina preferivo pensare di poter gestire quelle sensazioni terribili da sola, perché l'idea di confrontarmi a cuore aperto con qualcuno lo rendeva troppo reale.

Perché speravo che io e papà avremmo potuto farci forza a vicenda, e che nel sorriso della mamma avremmo sempre trovato il sollievo che cercavamo. Perché eravamo sempre stati noi tre, e quello era un problema solo nostro, un dolore che solo noi potevamo capire.

Soltanto all'università sono arrivata alla conclusione che forse un po' di sostegno mi serviva, e ho iniziato delle sedute con il consulente messo a disposizione dalla facoltà.

Non mi ha risolto chissà quali misteri insondabili, non ha liberato mia madre dal cancro che lei, inspiegabilmente, stava riuscendo a combattere più a lungo delle previsioni dei medici, ma almeno mi ha aiutato ad analizzare la mia sofferenza da punti di vista differenti. Punti di vista che né io né papà, troppo accecati dal terrore di perdere la luce delle nostre vite, eravamo mai riusciti a scorgere.

«D'accordo. Mi raccomando, stalle vicino. Anche se lei dice che non serve, anche se dice che va tutto bene, tu non lasciarla crollare».

Laura ricambia il mio sguardo con una solennità rara per una ragazza di appena sedici anni. «Non lo farò, professoressa. Non potrei mai».

«Brava. Ci vediamo più tardi a cena».

Lei mi sorride e raggiunge i suoi amici.

Io resto per un po' ad osservarli, le mani sempre in tasca e il mento affondato nel bavero alto e caldo del mio cappotto.

Avverto uno spostamento d'aria, e il vento mi porta alle narici un odore rustico e caldo, mescolato a quel sentore maschile, unico e particolare, che non riesco mai a decifrare.

«Lo sai anche tu, allora».

Mi volto lentamente, già pronta a trovarmelo di fronte. Il suo cappotto è aperto e lascia intravedere il maglione scuro dallo scollo a V.

Anche lui ha le mani in tasca, e la brezza gli scompiglia i capelli biondo cenere spingendoli sugli occhi.

Sfilo le dita dalle mie tasche e incrocio le braccia, stringendomi nelle spalle. «Sì». Non mi mostro sorpresa che lo sappia anche lui, del padre di Olga, sono pronta ad ammettere di aver origliato la conversazione tra lui e Laura in corridoio, ma Nikolas per un momento non aggiunge altro. Continua a puntarmi con quegli occhi indecifrabili, del colore della notte, e per un minuscolo secondo mi sembra quasi di scorgervi una piccola punta di rispetto. Ma scompare all'istante, e forse me la sono solo immaginata.

«Te lo ha raccontato lei?», chiede, la voce graffiante che fende l'aria rigida.

Scrollo la testa. «L'ho trovata che piangeva in corridoio, qualche sera fa».

Lui mi fissa negli occhi, non dice nulla.

Gli faccio un cenno con il mento. «Tu come lo sai?».

Nikolas all'inizio resta zitto, tanto che penso non voglia rispondere alla mia domanda. Poi sposta lo sguardo oltre il muretto di cinta, e vedo il suo petto alzarsi e abbassarsi sotto un respiro più lungo degli altri. «La mia lezione era la prima della mattinata, il giorno dopo la scoperta del tumore. È entrata in classe come un fantasma. A metà dell'ora ha chiesto di andare in bagno. Non tornava più, così sono uscito per andare a controllare e l'ho trovata rannicchiata sui gradini delle scale in preda a un attacco di panico».

Il mio cuore si contrae. E per quanto il viso di Nikolas sembri inespressivo e il suo tono piatto, dietro il colore scuro dei suoi occhi intravedo il luccichio della stessa preoccupazione che ho sentito anche io, vedendo Olga in quello stato così vulnerabile.

Segue un lungo silenzio, nessuno dei due si muove, sembriamo due statue di marmo che decorano i giardini.

Con la coda dell'occhio vedo Dalina che passa ad alcuni metri di distanza e ci lancia un'occhiata furtiva.

I suoi occhi si soffermano sul viso di Nikolas, quasi pensierosi, poi prosegue dritto senza dire una parola, il capo chino e quell'aria introversa che non l'abbandona mai.

Subito dopo di lei, sullo stesso sentierino passa mio padre. Ha lo sguardo basso su un quadernino che sta scarabocchiando forsennatamente, e ogni due secondi si spinge a posto gli occhiali che gli scivolano sul naso.

Alza il mento sovrappensiero e ci vede.

E io, solo scambiandomi un'occhiata con Nikolas, mi rendo conto che nessuno dei due sa bene che cosa ci facciamo qui, immobili e zitti, ancora uno vicino all'altra.

«Ciao, ragazzi!», esclama papà, con quella vena allegra che possiede solo lui. Mi fa ridere, perché ci saluta con un'enfasi tale che non si direbbe che ci siamo visti giusto questa mattina a colazione.

Chiude il quadernino e se lo ficca sotto il braccio, avvicinandosi a noi.

«Che bello vedervi insieme a chiacchierare». Si ferma accanto a me, l'aria soddisfatta di chi non aspettava altro che vederci andare d'accordo.

Sta tirando conclusioni troppo affrettate. Ma se io gli voglio troppo bene per dire qualcosa che potrebbe spegnere quel sorriso un po' esaltato sul suo viso, Nikolas non sembra farsi problemi ad essere diretto.

«Non stavamo chiacchierando», replica brusco.

Papà lo guarda, non sorride più, ma comunque non sembra meno allegro di prima. Osserva Nikolas con pazienza e un pizzico di divertimento negli occhi, quasi fosse una specie di scimmia indisciplinata che mio padre, a differenza di tutti gli altri, sotto sotto considera un animaletto simpatico e coccoloso.

Non credo che capirò mai la loro amicizia, questi due insieme sono l'accoppiata più strana che abbia mai visto.

«Stavate vicini a parlare, però», ribatte mio padre, con la scintilla della sfida nello sguardo e quel tono un po' da presa in giro.

«In realtà...», tento io.

«No», sbotta Nikolas. «Anzi, io stavo andando via. Ciao». E, da bravo lunatico qual è, ruota sui tacchi senza aggiungere altro e inizia ad allontanarsi verso il castello.

Io lo ignoro completamente.

Ancora presa dalla conversazione di poco fa con Laura, guardo mio padre e la sua espressione gentile, e mi passo il pollice sulle labbra, riflettendo. «Papà, hai mai pensato di inserire un consulente scolastico alla Nordesange?».

Lui incurva un sopracciglio. «Consulente scolastico?».

«Sì. Tipo uno sportello di ascolto per gli studenti. La scuola non ne ha mai avuto uno. Penso che a molti potrebbe servire. Stanno quasi tutti qui per l'intero anno senza i genitori, tornano dalle famiglie solo per le feste, al massimo nei fine settimana. Anche quelli che vivono in paese preferiscono alloggiare al castello, per comodità o per stare con i compagni. Insomma, sono un mucchio di adolescenti lasciati a loro stessi. Può darsi... che ad alcuni di loro, ogni tanto, serva un sostegno, qualcuno con cui parlare, se hanno dei problemi e magari le famiglie non riescono ad aiutarli come vorrebbero...».

Lui mi scruta attentamente, occhi negli occhi, e il suo cuore cerca di leggere il mio come ha fatto per una vita.

Forse si accorge della mia espressione angosciata. «Va tutto bene, fiorellino?».

«Sì. Sto bene. Stavo solo pensando che noi non abbiamo idea di cosa attraversi dentro di sé ognuno di quei ragazzi. Potrebbero avere più bisogno di quello che crediamo. E magari non bastano i consigli di amici e professori. Magari occorre uno specialista, qualcuno che sappia come aiutarli ad affrontare davvero i loro problemi».

Lui soppesa le mie parole, e, senza fare altre domande, sembra arrivarci.

Sembra capire che alla base della mia richiesta c'è un motivo, un motivo che non gli sto dicendo, perché non spetta a me parlare degli scheletri nell'armadio di Olga, anche se voglio fare quello che posso per aiutarla.

«Sì, forse hai ragione». Abbassa gli occhi sulle proprie scarpe e sembra rifletterci un momento. «Un consulente scolastico. Bella idea. Non ci avevo mai pensato».

«Già. Potrebbe servire a tanti».

Sarebbe servito anche a me, forse, quando ero un'adolescente in questa scuola con un cuore sull'orlo dell'oblio.

Non lo dico ad alta voce, ma vedo che anche lui pensa lo stesso, lo leggo riflesso nei suoi occhi.           

«Ne parlerò anche con Karla. Ci metteremo al lavoro per trovare uno specialista di tutto rispetto...». Mentre papà parla, il mio sguardo vaga e si ferma su Nikolas, che si è bloccato a circa dieci metri da noi e sta smanettando da un po' con il cellulare. Sembra quasi volersi trattenere lì con una scusa per origliare, e mi trovo a pensare per l'ennesima volta a quanto sia infantile. «Vedrai, non sarà difficile. Ho molte conoscenze in paese...», va avanti mio padre, e a quelle parole mi scappa un risolino.

«Oh, lo so bene che hai molte conoscenze».

Con la coda dell'occhio vedo papà fare una smorfia confusa.

«Non ricordavo che fossi così popolare, in paese», dico con un sorrisetto. «Persino l'altro giorno ho incontrato un tizio che sapeva chi fossi, al Fantoma. Il tuo prestigio di preside sembra aver fatto il giro della città. Insomma, sì, lo so che nella nostra zona ti conoscono tutti, ma lui addirittura ha detto di venire da fuori. Sono orgogliosa di te, sei diven...».

«Un tizio... da fuori?», mi interrompe.

Io riporto di scatto l'attenzione su di lui, perché all'improvviso la sua voce è diventata troppo seria. E fa così strano sentir papà parlare con voce seria.

«Sì», dico con limpidezza.

«Un tizio chi?».

«Che intendi?».

«Come si chiamava?».

Arriccio le labbra e inclino il capo. «In realtà, non lo so. Ci siamo messi a chiacchierare e deve essersi dimenticato di presentarsi, e io solo dopo mi sono accorta di non avergli chiesto il nome. Mi sarà passato di mente, visto che lui sapeva già il mio...».

«Che vuol dire che sapeva già il tuo?», la voce di papà sale di un'ottava. Fa un passo verso di me e io sciolgo lentamente le braccia conserte, guardandolo perplessa.

«Be'... vuol dire che sapeva chi ero. O meglio, ha tirato a indovinare. Mi ha vista con gli altri professori della scuola, e dato che ero una faccia nuova tra loro, ha fatto due più due. Sapeva che alla Nordesange c'era una nuova insegnante e che era figlia del preside...».

«Sì, ma lui sapeva proprio il tuo nome?», insiste lui, e io inizio a sentirmi a disagio.

La sua espressione nervosa mi sta facendo preoccupare. Papà non è mai così teso, così agitato, non ha mai questa urgenza nella voce.

«Sì, sapeva il mio nome. Probabilmente la gente in paese ha fatto correre le voci, nel nostro quartiere sono parecchi i paesani che mi conoscono da quando ero piccola...».

«Viorica, sei sicura che non ti abbia detto il suo nome? Non hai idea di chi sia? Che aspetto aveva?».

«Papà, perché vuoi sapere...?».

Lui allunga le mani e me le stringe attorno alle spalle. Il quadernino sotto il suo braccio cade a terra e si impolvera tutto. «Rispondimi, Viorica. Con chi hai parlato in quel locale?».

«Papà, non lo so», ripeto, e a questo punto anche la mia voce diventa nervosa. Ma che diavolo gli prende? Nemmeno fossi una bambina che non ha il permesso di parlare con gli sconosciuti. «Era solo un uomo. Abbiamo chiacchierato un po' e...».

«Chiacchierato di cosa?».

Gli stringo le mani sui gomiti, lo sento tremare appena. «Perché lo vuoi sapere?».La cera pallida che gli vedo sul volto mi mette in apprensione. «Papà, cos'hai? Ti senti male?».

«Cosa... di cosa avete parlato?». Le sue pupille sono dilatate, le rughe attorno agli occhi più profonde e il suo sguardo stento a riconoscerlo.

«Del più e del meno. Insomma, un po' di tutto. Abbiamo parlato del tempo, della gente del paese, mi ha chiesto un po' della scuola e...».

«Viorica...», sibila papà, e in fondo a quelle iridi castane che conosco come la mia stessa anima vedo brillare una scintilla di... paura? «Viorica, non puoi metterti a parlare con il primo estraneo che ti si avvicina. Tu non...».

«Papà, ma cosa stai dicendo? Ho ventisei anni, penso di poter parlare con una persona davanti al bancone di un bar senza correre alcun rischio...».

«No, tu non capisci...».

All'improvviso una mano spunta sulla sua spalla e la stringe. «Amico, tutto bene?».

Papà si gira come se avesse appena avuto una visione, e impiega un po' a mettere a fuoco la faccia di Nikolas, accanto a sé.

Resta zitto per parecchio, anche Nikolas tace, si guardano e basta, e io, in tutto questo, mi sento come se mi avessero buttato bruscamente in una situazione fuori contesto, e non ci sto capendo più niente.

«I-io... sì, bene... sto bene...», farfuglia mio padre, e Nikolas accentua impercettibilmente la stretta sulla sua spalla. Lo fa in modo quasi invisibile, ma io sono sempre stata troppo attenta ai dettagli, soprattutto quando si tratta della mia famiglia, per non vedere il cappotto di papà stropicciarsi sotto le sue nocche forti, o il viso di Nikolas contrarsi appena mentre affonda gli occhi nei suoi, come a volergli dire qualcosa solo con lo sguardo.

Alla fine di questo assurdo momento, papà si volta di nuovo verso di me, e la sua espressione sembra essere tornata quella di sempre.

Però io continuo a vederla, quella leggera sbavatura nelle sue iridi, come se si stesse sforzando di tenere a bada qualcosa nella sua testa.

Qualcosa che non vuole dirmi. E che lo inquieta da morire.

«Papà, sei sicuro di sentirti bene?», tento, avvicinandomi di un passo.

Mi aspetto quasi di vedere Nikolas ritrarsi nel momento in cui mi faccio avanti io, ma lui non lo fa.

Non si schioda di un centimetro, resta accanto a mio padre come se avesse paura che, nel momento in cui lo lascerà andare, ricomincerà ad andare in iperventilazione come stava per fare cinque minuti fa.

Papà sbatte le palpebre un paio di volte, si schiarisce la gola con quel suo modo impacciato. «Sì. Sto bene, davvero».

«Sicuro sicuro?».

«Certo, sicurissimo».

«Come mai ti sei agitato tanto, quando ho detto...?».

«Oh, tesoro, non farci caso. È un periodo stressante, ho tante di quelle cose per la testa che a volte mi sembra di dare i numeri». Nel dirlo si gratta il sopracciglio, e così facendo nasconde il naso alla mia vista. «Abbi pazienza, più invecchio e più divento strano», ridacchia, ma il suo sorriso non riesce a raggiungermi, e io continuo a guardarlo come se davanti avessi una creatura mitologica.

«Papà...».

«Devo andare, scusa, sono di fretta. Ci vediamo a cena».

«Papà, dico sul serio, se c'è qualcosa che...».

Lui mi dà un buffetto sulla guancia, continuando a sorridermi in modo un po' isterico. «Davvero, va tutto bene, Viorica. A più tardi...». Si allontana così in fretta che non ho il tempo di fermarlo.

«Ma...». Allungo una mano e cerco di richiamarlo.

Un petto solido mi si pianta davanti. «Ha detto che va tutto bene», mi ringhia Nikolas direttamente in faccia. Le mani ficcate nelle tasche del cappotto aperto e il corpo che incombe su di me per imporsi con il suo solito modo dispotico. «Dio, ma sei sempre così insistente, tu? Come fa tuo padre a sopportarti?».

Io riduco gli occhi a due fessure e lo trapasso da parte a parte. «Non sono insistente, mi preoccupo per lui».

«Sei petulante».

«E tu indelicato come al solito. E parecchio invasivo, lo sai? Era una conversazione tra me e mio padre. Posso chiederti perché ti sei sentito in diritto di metterci il becco? Tu non c'entravi».

Nikolas fa spallucce, quello sguardo sufficiente che mi striscia addosso quasi come una critica. «Avevo l'impressione che tuo padre fosse un po' nervoso, volevo sapere se fosse tutto okay».

«Appunto. Era nervoso, e io stavo cercando di capire il perché».

«A me sembrava solo che lo stessi incasinando di più. Se usi la stessa delicatezza anche con gli studenti», pronuncia "delicatezza" con un'ironia da prenderlo a schiaffi, «devi fare davvero pena a livello umano, come insegnante». Il suo tono sprezzante mi rimbalza addosso, a malapena mi scalfisce.

Lo so che lo sta dicendo con il puro e immotivato scopo di ferirmi, e so che non ho bisogno di un suo giudizio sulla mia capacità di relazionarmi con le persone.

«So perfettamente qual è il modo migliore per parlare con mio padre, non mi serve la tua opinione. Tu non lo conosci come lo conosco io».

In un battito di ciglia, Nikolas si sporge di più su di me. Il suo naso arriva a pochi millimetri dal mio, alcune ciocche folte dei suoi capelli mi sbattono sugli occhi e io mi ritrovo a fissare a palpebre sgranate le sue labbra, talmente vicine da poterne contare tutte le pieghe della carne e le piccole screpolature dovute al freddo.

Le muove lentamente, ad un soffio dal mio viso, mentre pronuncia un basso e roco verso di scherno. «Se ne sei convinta».

Seguo il profilo di quella bocca carnosa e troppo accostata alla mia, e resto immobile, congelata, così confusa e frastornata da non riuscire neanche a registrare bene le sue parole fino a quando lui non si raddrizza di scatto, liberando l'aria attorno al mio spazio vitale del suo profumo muschiato e virile.

Mi volta le spalle con una spocchia indescrivibile, poi si allontana sul sentiero a passi lunghi e mento chino, camminando come se fosse il padrone del cortile e non dovesse guardare in faccia nessuno, tanto le regole del gioco le detta lui.

Io rimango piantata in mezzo ai giardini, con gruppi di studenti ignari che mi scorrazzano intorno e ancora un residuo dell'odore stuzzicante del suo corpo a impregnarmi le narici.

La movenza delle sue labbra mentre pronuncia quell'ultima frase sembra essersi tatuata dietro le mie palpebre.

Se ne sei convinta.

Sinceramente, credo di non essere più convinta di niente.

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