DRAGOSTE - insegnami ad amare

By Rose_Linden_May

2.6K 344 1.1K

Dopo aver trascorso molto tempo lontano da casa, Viorica fa ritorno nel suo paesino natale in Transilvania, p... More

PROLOGO
1 - RITORNO
2 - PRESENTAZIONI
3 - SOFFERENZA E DISTRAZIONI
4 - GIUDIZI
5 - I MIEI DEMONI
7 - MIEI, TUOI, NOSTRI
8 - ERBACCE E MARY SHELLEY
9 - PAROLINE MAGICHE
10 - RIFLESSI E CONFIDENZE
11 - VOLUBILE PER COLPA DELLA LUNA?
12 - AFFOGARE
13 - TENDE BLU
14 - NON TUTTI SONO BRAVI A NASCONDERSI
15 - SOPPORTARE, MAI DIMENTICARE
16 - EVENTI MONDANI
17 - PICCOLI DUBBI
18 - INCONTRI
19 - RISCHIARE
20 - SE NE SEI CONVINTA
21 - ANGELO CUSTODE
22 - PER ZITTIRTI
23 - QUESTIONE DI CHIMICA
24 - SPINA NEL FIANCO
25 - OMBRA NELL'OMBRA
26 - COMPAGNI DI VIAGGIO
27 - ROVINE
28 - CAFFE'
29 - PICCOLI PASSI
30 - CIO' CHE CI RIMANE, IN QUESTA VITA
31 - DISVELARE
32 - CREDI NEI FANTASMI?
33 - FIDUCIA NELL'IMPOSSIBILE
34 - RICORDI DI MORTE
35 - NUOVE ALBE
36 - RICOMINCIARE A VIVERE
37 - FIDARSI È BENE, NON FIDARSI È MEGLIO
38 - FACCIA A FACCIA COL DEMONIO
39 - SCACCO MATTO

6 - A CASA

74 5 25
By Rose_Linden_May


Viorica

«Papà, non c'era bisogno che venissi a prendermi in auto. Il villaggio è proprio qui sotto, potevo camminare», gli faccio notare, mentre me ne sto a braccia conserte in mezzo al cortile principale della scuola.

Lui mi fa cenno di salire dal finestrino abbassato, senza levarsi per un secondo quel placido sorriso dalle labbra. «Minaccia pioggia anche oggi, fiorellino. Non mi andava di farti camminare sotto il temporale».

Ha ragione.

Se fossi rimasta qui dopo il liceo, forse mi sarei comprata una macchina mia, e a quest'ora sarebbe parcheggiata qui al castello insieme a quelle di tutti gli altri insegnanti. Invece, trasferendomi in una città all'avanguardia come Amsterdam, la macchina non l'ho praticamente più toccata – ad eccezione di brevi spostamenti con la vecchia carretta della zia Ivona – e ora che sono tornata, almeno per il momento devo appoggiarmi alla Ford un po' scassata di mio padre.

Lancio uno sguardo al cielo gonfio sopra le nostre teste. È tardo pomeriggio, e a ovest, attraverso uno squarcio aperto tra le nubi, un sole fatto di fuoco vivo brilla incandescente vicino alla linea dell'orizzonte.

Il riverbero della sua luce calda crea sfumature rosse sui cirri plumbei che sormontano le guglie del castello.

Nordesange.

È per fenomeni come questo che la scuola si è guadagnata il suo nome. "Nor De Sange": nuvola di sangue in rumeno.

È risaputo, tramandato dal folklore locale, che in giornate di tempesta come questa, o anche semplicemente quando il cielo si vela di uno strato più denso e cupo del solito, le nuvole tendono ad ammassarsi come un groviglio scuro sopra le punte aguzze del castello, in cima al colle che sormonta il villaggio. E quando il sole si abbassa, i suoi raggi si inclinano verso quella cima e i colori scottanti del tramonto accendono i riflessi della pietra particolare con cui è stato realizzato il castello, una pietra dalle sfumature color ruggine, e tingono di un rosso sanguigno le nubi scure sopra la scuola.

È uno spettacolo macabro e magnifico allo stesso tempo.

In antichità c'era molta superstizione, e si credeva che quelle nuvole rosse si accumulassero sopra il castello perché era maledetto o perché attirava poteri magici. Io stessa, da bambina, mi sono sempre chiesta il perché di un simile evento. Ad oggi, lo classifico come una coincidenza estremamente bizzarra, un bellissimo gioco di luci e ombre di Madre Natura.

«Allora, vogliamo andare o no?», la voce di papà mi richiama al presente, vibrante di trepidazione. «La mamma ci aspetta».

Non me lo faccio ripetere due volte. Mi stringo la sciarpa attorno al collo, balzo nella sua vecchia auto sverniciata e lui imbocca la discesa che conduce in paese.

È domenica, e papà, che per le esigenze sanitarie della mamma vive a casa con lei e non al castello come tutto il resto del corpo docenti, è venuto fino a qui solo per recuperare me.

Io mi sento come una bambina la mattina di Natale, impaziente ed euforica. Mi sembra una vita intera che non vedo la mamma.

L'ultima volta è stata quasi un anno fa, quando sono tornata per un brevissimo periodo tra un incarico terminato in una scuola e uno nuovo che stava per cominciare. Da quella volta, per via degli impegni lavorativi non sono più riuscita a tornare per vedere i miei genitori.

E l'ansia mi divorava giorno e notte, all'idea che quando finalmente sarei riuscita a rimettere piede nel mio paesino, mamma avrebbe potuto non esserci più...

Perciò è con enorme sollievo che osservo le campagne selvagge e sconfinate della mia terra natia scorrermi accanto, mentre attraversiamo le strade antiche e piene di ricordi del nostro piccolo villaggio diretti alla casa dove sono cresciuta.

I monti attorno a noi sembrano abbracciarci, e io guardo ogni albero ingiallito, ogni campo coltivato tutto fango e foglie secche, ogni casa di mattoni con i suoi infissi di legno e i rampicanti abbarbicati sulle fiancate con occhi immensi e una dolce nostalgia nel cuore.

Dopo dieci minuti di viaggio, imbocchiamo la via di ciottoli sconnessi lungo la quale correvo a piedi nudi da bambina. Le abitazioni e le botteghe dall'aria familiare mi accolgono come in un sogno. Alla fine della strada, dove solo poco più avanti i sassi del lastricato lasciando spazio allo sterrato che si srotola serpeggiante nell'aperta campagna, papà ferma l'auto davanti ad una casetta a due piani, con il tetto di tegole rosse, i battenti di legno un po' scrostato, delle viole del pensiero che ancora non vogliono sfiorire a decorare i davanzali e una piccola ghirlanda di pigne sulla porta.

Mi scoppia il cuore nel petto.

Sono fuori dall'auto ancor prima che lui abbia tempo di aprire la sua portiera.

Entriamo in casa e l'odore fragrante della legna nel caminetto mi avvolge subito in una nuvola di calore.

Attraverso lo stretto corridoio e sbircio nel salotto, dove vedo il fuoco scoppiettare allegro. Lì accanto, sulla poltrona della mamma, sono abbandonati un libro chiuso, una coperta e una tazza sul bracciolo.

«Eugen, siete voi?». La sua voce melodica vibra nell'aria attraverso la porta aperta della cucina, e io mi ci fiondo dentro. Papà mi segue a ruota, quasi faticando a star dietro alla mia enfasi.

«Mamma!».

La trovo in piedi vicino ai fornelli, una presina ricamata in una mano e un barattolo di fiori di campo nell'altra.

Lei strabuzza gli occhi, azzurri e grandi come i miei, e sulle sue labbra sboccia sorriso radioso. Ha un'espressione sorpresa, sebbene sapesse benissimo che stavamo arrivando.

«Amore mio», esclama mollando tutto sul ripiano della cucina e camminandomi incontro.

Apre le braccia e io mi ci tuffo dentro, sprofondando in questo profumo avvolgente di mamma che mi era tanto mancato.

«Santo cielo, mi sembra passato un secolo dall'ultima volta che ti ho abbracciata», sussurra tra i miei capelli, stringendomi con una forza davvero notevole per le sue braccia esili.

«Lo so», mormoro in risposta, lasciandomi cullare dal suo respiro.

Poi lei si scosta un po' e mi prende le guance tra le mani, strizzandole come quando ero piccola. «Dio, sei sempre più bella ogni volta che torni a casa. Mi chiedo proprio da chi tu abbia preso», borbotta fingendosi seria.

«Ehi», si fa avanti mio padre con aria di protesta. «Guarda che io sono bellissimo. Era scontato che lei venisse su così, con un padre del genere».

Io e mia madre scoppiamo a ridere insieme, e anche lui si unisce a noi. Dal modo in cui guarda la mamma, è più che evidente che non ritiene affatto di essere lui quello bello della coppia. E per quanto io abbia sempre ritenuto il mio papà l'uomo più bello del paese, mamma... beh, mamma brilla di luce propria. È di una bellezza dolce, spontanea, così naturale e unica.

Su di lei, con i suoi capelli corvini e la pelle chiarissima, gli occhi azzurri che ha donato a me sono sempre spiccati di più. I suoi lineamenti sono armoniosi, il suo sorriso sincero.

Mi è sempre sembrata bella come un angelo, e papà non ha mai smessa di guardarla con lo stesso sguardo adorante con cui la guarda anche ora.

«Stavo preparando dell'altra tisana. Su, sedetevi. La verso nelle tazze».

Io e papà ci accomodiamo intorno alla piccola tavola della cucina e mamma provvede a servirci.

«Mamma, hai bisogno che...», comincio subito, abituata come sono all'idea che il minimo sforzo possa affaticarla.

«No, tesoro, non serve. Ce la faccio». Mi sorride rassicurante e solo ora mi rendo conto di quanto sembri star meglio rispetto all'ultima volta che l'ho vista di persona. Dalle tante videochiamate non me ne ero resa conto, ma sembra aver perso un po' quell'aspetto scheletrico che la malattia le aveva inflitto negli ultimi anni.

Lancio un'occhiata intorno, e lo sguardo mi cade sulla mensola dove tiene tutti i suoi medicinali e la cartellina in cui conserva tutti i referti medici importanti.

Per un attimo, una morsa mi stringe il petto, come ogni volta in cui mi soffermo troppo sulla croce che la nostra famiglia sta portando da un tempo ormai molto lungo.

Cancro al secondo stadio. O almeno, questo era, quando le è stato diagnosticato pochi mesi dopo il mio decimo compleanno.

Le cure su di lei hanno funzionato abbastanza bene nei primi tempi, e sono riuscite a tenerlo sotto controllo molto più a lungo di quanto le normali previsioni avevano suggerito. I medici lo hanno sempre ritenuto un caso miracoloso, mamma è riuscita a resistere alla morsa della malattia per anni e anni.

Poi, quando ne ho compiuti venti, è devoluto a terzo stadio. E da lì è stato un continuo saliscendi di ricadute. Alternava momenti in cui sembrava in fin di vita ad altri dove pareva aver scampato il pericolo. Poi precipitava di nuovo. Sempre. Come un circolo vizioso senza fine.

Ho passato una vita intera con il terrore di vederla sparire da un momento all'altro. Da bambina c'erano momenti in cui non capivo sempre tutto, e papà faceva quello che poteva per tenermi in una bolla di serenità dalla quale sperava non uscissi mai.

Ma quando pensava che io non lo stessi guardando, quando la sera rimaneva da solo in cucina dopo aver messo a letto sia me che la mamma, io uscivo di nascosto dalla mia cameretta, e lo sentivo, lo vedevo piangere.

Lo vedevo in tutta la sua fragilità, vedevo quel peso che si teneva quelle spalle da solo e che minacciava di schiacciarlo.

Il mio cuore si spezzava tutte le volte, e finivo per avere gli incubi.

Crescendo ho insistito con papà per dividere con lui il fardello. Ho cominciato ad accompagnare lui e mamma alle visite, da adolescente ho iniziato a fare lavoretti part-time per potermi pagare le piccolezze di cui avevo bisogno senza dover sempre chiedere soldi a loro, non volendo pesare ulteriormente sulla situazione già delicata.

Restavo alzata la sera con papà, parlavamo fino a tardi, finché la stanchezza non costringeva le sue palpebre ad abbassarsi, perché così almeno sapevo che non si lasciava sopraffare dalle emozioni e non rischiava di avere dei crolli.

Quando è stato il momento di iniziare l'università, io non ero affatto convinta. Non volevo lasciarli soli, non volevo essere un peso. Ma hanno insistito così tanto che non ho avuto il cuore di deluderli.

Ho preso sottobraccio la passione per le materie umanistiche che mi legava a mio padre, e ho deciso che avrei reso orgogliosi i miei genitori.

Adesso mi ritrovo qui, con una laurea in mano e mia madre ancora in piedi di fronte a me, e vedere il colorito sulle sue guance è il regalo più bello del mondo.

Gli occhi mi si inumidiscono appena, mentre osservo come i capelli le stiano ricrescendo in fretta, dopo l'ultimo ciclo di terapia. Le arrivano a sfiorare le spalle, e sono di un bel nero lucente.

«Oh, tesoro, guarda cos'ho per te». Compie una mezza piroetta per voltarsi verso una mensola, e le sue ginocchia tremolano appena, lei perde un po' l'equilibrio.

Istintivamente scatto in avanti, pronta ad afferrarla, le mani tese e gli occhi sgranati. Lei però si aggrappa ad un mobile e in un attimo sembra recuperare la sua stabilità.

Sì, sembra stare meglio rispetto agli ultimi tempi. Ma non sta ancora bene davvero.

Quando appuro che non rischia di cadere perché ora le sue gambe sono più che stabili, mi rimetto seduta composta, con il cuore che martella forte nel petto.

Mamma non si è accorta del mio slancio, ma papà sì, e con occhi comprensivi posa una mano sulla mia e la stringe appena, in un silenzioso gesto di solidarietà.

Io e lui conosciamo un dolore che è difficile capire dall'esterno, e lo condividiamo da sempre. Quell'angoscia pressante, quella paura costante di vedere la luce della nostra famiglia spegnersi per sempre quando meno ce l'aspettiamo.

Rispondo al suo sorriso mesto con uno altrettanto tirato, e mi giro ad osservare cosa sta combinando mamma.

«Eccola qui». Da una scatolina posta tra alcuni barattoli, tira fuori una saponetta decorata con un fiocco bianco. Quando torna da me e me la posa tra le mani, si sprigiona all'istante un intenso profumo di rose, lo stesso che ha addosso anche lei. «Ho immaginato che l'ultima che ti ho spedito ormai fosse tutta consumata». Sorride di nuovo, e i suoi occhi brillano come due gemme. «La signora Gerda mi chiede sempre come stai, quando passo dal negozio».

Ridacchio al pensiero dell'anziana artigiana che da sempre produce saponette e altri prodotti per la cura personale nella sua bottega a pochi passi da qui, sempre avvolta nel suo scialle di lana grezza e con le caramelle nascoste in tasca per i bambini.

«Grazie, mamma. Mi serviva proprio». Schiaccio la saponetta contro il naso e ne inalo l'aroma delicato che per me sa di casa e di famiglia.

Lei mi guarda per un po' con il viso inclinato e una luce affettuosa negli occhi. Mi accarezza i capelli. «Ci sei mancata tanto».

«Anche voi».

«Sai, tuo padre si è anche messo a piangere quando ha chiuso la vostra telefonata ed è venuto a dirmi che saresti tornata qui in pianta stabile».

Mio padre raddrizza la spina dorsale. «Non è vero!». Ma arriccia il naso nel dirlo.

«Papà, non dire le bugie», lo rimprovero.

«Non ho detto una bugia».

«Hai arricciato il naso», diciamo io e la mamma in coro, e lui borbotta un: «Sempre due contro uno, povero me. Meriterei l'aureola».

Io e mamma ridiamo ancora, senza riuscire a trattenerci.

Il resto del pomeriggio lo passiamo tra chiacchiere, litri di tisane, e biscotti che mamma aveva sfornato poco prima che arrivassimo.

Quando si fa sera, la saluto con tutto il calore di cui sono capace, promettendole di venire regolarmente a trovarla, e papà mi riaccompagna al castello.

Alla fine, il temporale ci ha oltrepassati senza lasciare strascichi, e ora il tempo è più sereno.

Le strade buie sono richiariate dai vecchi lampioni in ferro battuto, e ancora una volta mi perdo nella bellezza pittoresca di questo posto.

Sollevando lo sguardo dal finestrino, posso scorgere il profilo gotico della scuola stagliarsi come un gigante contro il nero sopra il colle.

Le punte aguzze e gli archi rampanti sono illuminati di sbieco da una pallida luna e dai lampioncini del cortile, e tutto intorno, in un cielo che è ormai sgombro di nubi, si intravedono i ricami delle stelle.

Al cospetto dei monti corpulenti di queste terre, nella nebbia bassa che avvolge i marciapiedi, nell'alone dorato che brilla all'interno delle case, nei boschi cupi e nei campi un po' spettrali che circondano il villaggio, io torno a sentirmi a casa.


~ ☆ ~


L'ansia mi sta divorando lo stomaco. È così da ore, da quando ho aperto gli occhi alle prime luci dell'alba.

Stamattina il cielo fuori dalla finestra era velato da un sottile strato grigiastro, dietro cui spiccava bianco e lattiginoso il disco del sole.

Dopo essermi lavata e vestita, ho pensato di fare una passeggiata nei parchi del castello, prima dell'inizio delle lezioni.

La sciarpa e il cappotto lungo mi hanno riparata dalle folate di vento frizzante, che strisciavano sul crinale della montagna facendo rotolare a terra le foglie scricchiolanti. Gli alberi stanno iniziando a spogliarsi, e gli scheletri dei rami che cominciano a intravedersi portano un fascino tutto loro, stagliati contro il vuoto grigio in cui precipita la fiancata del monte.

La scuola vanta una tenuta davvero bella. Ampi cortili, sentierini acciottolati, una bassa muraglia in pietra dalla quale è possibile affacciarsi per ammirare la vallata in tutta la sua suggestiva immensità.

Con i colori dell'autunno a tratteggiarne i contorni, poi, il castello è ancora più bello. Appare in tutta la sua maestosità, il marrone della terra va a fondersi con quello dei mattoni, e spiccano entrambi contro i toni di piombo che la volta celeste regala in questa stagione.

Ho fatto il pieno di aria fresca, ho osservato la nebbia bassa rincorrersi in volute lungo i sentierini, mi sono goduta l'odore tipico che il terreno e le piante sprigionano in questo periodo, soprattutto dopo un temporale come quello di due giorni fa, e alla fine mi sono sentita un po' meglio.

Ma continuo ad avere questa morsa infame alla pancia.

Anche adesso, mentre me ne sto in piedi nell'aula dove dovrò fare lezione questa mattina, mi tremano le ginocchia e ho una gran paura di crollare sugli stivaletti ad ogni passo. Forse avrei fatto meglio a mettere delle scarpe da ginnastica.

La mia prima lezione qui.

Le classi si trovano quasi tutte al primo piano – mentre tra il secondo e il quarto sono distribuire le camere di insegnanti e studenti – e fare quelle poche rampe di scale che servono per arrivare qui non mi è mai sembrato così faticoso come oggi.

Mi liscio il tessuto della gonna che indosso sotto il maglioncino indaco. Quest'ultimo è stato un regalo di mamma di qualche Natale fa, perché le ricordava la sfumatura dei miei occhi. Mi mette di buonumore, per questo ho pensato di indossarlo il mio primo giorno ufficiale come insegnante alla Nordesange.

Non importano i due anni di esperienza, non importa la moltitudine di scuole in cui sono già stata, ogni prima volta me la faccio sempre sotto.

Smettila. Sei qualificata. Sei una brava insegnante. Te la sei sempre cavata alla grande. I ragazzi ti adoreranno...

Mi ripeto queste parole come un mantra, nella debole speranza che possano aiutarmi a non sudare freddo come invece sto facendo da mezz'ora.

Ad un certo punto, un cicaleccio concitato mi raggiuge dal corridoio e la porta dell'aula si apre.

«Sì, poi però a chiesto a lei di uscire e io davvero non riesco più a capirlo!».

«Ormai ho perso il conto di tutte le volte che te l'ho ripetuto: è un emerito cretino. Come fai a stargli ancora dietro?».

«Infatti ho chiuso, basta, non voglio più saperne niente. Anzi, mi chiedo come ho fatto a sprecare tutto questo tempo a...».

Le due ragazze che stanno entrando interrompono all'improvviso il loro confabulare, nel momento in cui si accorgono di me, in piedi accanto alla cattedra.

«Oh...», fa una delle due, evidentemente presa alla sprovvista.

L'altra si porta una ciocca di capelli color miele dietro l'orecchio, accennando un saluto con il capo. «Buongiorno», mormora educatamente, assumendo all'istante un tono più moderato.

Io sfodero un sorriso d'accoglienza. «Buongiorno».

«Minchia, ragazze! Si può sapere che cazzo avete da stare impalate davanti alla porta? Dai, che già oggi non avevo voglia di alzarmi...».

Io stiro le labbra per mascherare un sorrisetto divertito. Condotta impeccabile dei suoi studenti, ha detto Nikolas.

Ad essere sincera, tutte quelle voci sulla rinomata diligenza degli allievi della Nordesange un po' mi avevano messa in soggezione. Perché tra l'essere educati ed essere dei bravi ragazzi c'è una grossa differenza. L'ho imparato sulla mia stessa pelle: a volte lo studente più brillante e ligio alle regole può essere quello che ti permette di empatizzare di meno con lui. E io preferisco di gran lunga una classe piena di soggetti problematici ma che, con il giusto lavoro, mi permetta di arrivargli al cuore, piuttosto che un gruppo di adolescenti perfetti nei modi ma freddi e inespressivi.

Per mia fortuna, il ragazzo che è appena entrato sembra tutto fuorché "perfetto ma inespressivo". Sembra vero.

Scrollando una zazzera di capelli scuri più disordinata di un nido di rondine, si incunea tra le due di poco prima e si fa largo in modo sgraziato.

La ragazza dai capelli biondi gli rifila una gomitata. «Cornel», sibila, facendo poi un cenno veloce della testa nella mia direzione.

Cornel solleva allora gli occhi assonnati e, quando mi vede, li sgrana e si morde fortissimo le labbra, come a volersi rimangiare la sequela di parole poco eleganti che ha appena sputato fuori.

«Oh... ahm... salve, mi scusi, io...», si affretta a dire, le spalle ora ben dritte e il mento chino in atteggiamento rispettoso.

«Tranquillo», lo interrompo subito. La mia voce calma attira la sua attenzione e quella di tutti gli studenti che stanno entrando dietro di lui. «Nemmeno a me fanno impazzire i lunedì mattina».

Qualche piccola smorfia divertita serpeggia tra la scolaresca che si sta radunando alla spicciolata. Cornel mi rivolge un sorriso un po' storto, e la compagna che gli ha dato di gomito si stringe i libri al petto e scrolla la testa con ironia mentre lo osserva da sotto in su.

Mentre i primi arrivati vanno a prendere posto, io fingo di cercare qualcosa nella borsa che ho appoggiato sulla sedia, per non farli sentire sotto scrutinio.

Dopo circa dieci minuti, i banchi sono quasi tutti occupati ad eccezione di un paio in fondo, ma penso siano posti supplementari.

«Bene». Mi raddrizzo quando vedo la classe al completo. Faccio un respiro profondo, forse un po' tremulo, e cammino fin davanti alla cattedra per poggiarmici contro con i fianchi, incrociando poi le dita davanti al grembo. «Ci siamo tutti?».

Alcuni esprimono assenso muovendo le teste. La ragazza bionda pigola un soffuso: «Sì».

La ringrazio con lo sguardo e mi rivolgo a tutti loro. «Allora direi di cominciare questa giornata. Io sono Viorica Grigore, sono la vostra nuova insegnante di letteratura», comincio a presentarmi, mantenendo per qualche secondo il contatto visivo con ciascuno di loro. «Prima che lo chiediate o che andiate a informarvi in giro, sì, sono imparentata con il preside Grigore. È mio padre, ma non per questo mi aspetto trattamenti di riguardo. Comportatevi con me come fareste con qualsiasi altro professore. E spero che questo non comporti maledizioni e ingiurie, anche se immagino che ogni tanto scappino pure quelle», aggiungo con un sorrisetto consapevole.

Un fruscio di risolini si sparge tra i banchi, e sento le mie spalle rilassarsi appena.

«Ora mi piacerebbe conoscere i vostri nomi. Chi se la sente di cominciare?».

Gli studenti si lanciano occhiate incerte, tutti un po' restii a fare la prima mossa. Io attendo, non voglio mettere fretta a nessuno. Intanto mi concedo di osservarli un po' più attentamente, e quando mi soffermo sulla figura di Cornel, lui emette un sospiro quasi impercettibile.

«Be', siccome mi sono fatto notare subito...», esordisce, e apprezzo la sua capacità di adottare un tono leggero senza però risultare insolente. «Io sono Cornel Moise, professoressa».

«È un piacere, Cornel». Faccio slittare gli occhi sul ragazzo nel banco accanto al suo, che prende automaticamente la parola.

«Toni Serban».

Dopo di lui è il turno della ragazza alle sue spalle, e i nomi prendono a susseguirsi in modo fluido, accompagnati una volta da un sorriso, un'altra da un'inclinazione del capo, altre da una faccia un po' inespressiva.

La ragazza dai capelli biondi si presenta come Laura, e l'amica che era con lei quando sono arrivate è Olga.

Mi sforzo di tenere a mente tutti i nomi, consapevole che questa è solo una piccola parte di tutto il corpo studentesco della scuola, e che probabilmente mi ci vorrà un po' a memorizzare tutte le associazioni tra visi e nomi.

«Dunque, so che il semestre è già iniziato e che c'è tanto lavoro da fare, ma non voglio cominciare a fare lezione con voi senza avere la minima idea di come potreste recepire le cose».

Palpebre che sbattono e silenzio di tomba. Be', almeno sono studenti che prestano attenzione.

«Ho qui il resoconto degli argomenti che avete affrontato in queste prime settimane con la supplente e il programma che ci aspetta per il resto dell'anno scolastico, ma vorrei sapere... voi come vi approcciate alla letteratura». Mi raddrizzo, raggiungo la mia borsa e tiro fuori un sacchettino di stoffa rossa. «A prescindere da ciò che avete o non avete fatto con l'insegnante precedente secondo le carte, vorrei tastare un po' il territorio direttamente con voi. Qui ci sono dei bigliettini con su scritto alcuni argomenti. Ovviamente il tema di fondo è sempre la letteratura. Abbiamo nomi di autori classici, titoli di opere famose, di poesie, riferimenti, citazioni...». Scrollo il sacchettino davanti a loro. «Vi farò estrarre a caso un foglietto ciascuno, e dovrete dirmi a grandi linee cosa sapete dell'argomento che c'è scritto sopra. Non darò voti né giudizi. Mi serve solo per orientarmi e capire come muovermi per organizzare le prossime lezioni. Se non sapete qualcosa, non è un problema. Saprò che dovremo tornarci sopra più avanti».

Segue un mormorio sommesso. Alcuni si agitano sulle proprie sedie, altri si scambiano sguardi da sotto le ciglia. Ma nessuno protesta.

Così mi faccio avanti e inizio a sfilare tra i banchi, porgendo il sacchetto aperto. All'inizio sono un po' rigidi, ma scopro ben presto che è una classe piuttosto preparata, e quando anche loro si rendono conto di riuscire a rispondere senza troppi problemi ai quesiti sui bigliettini, si lasciano andare.

Iniziamo così un giochino di botta e risposta in cui riesco anche a farli interagire tra di loro. Qualcuno dice qualcosa in merito ad un argomento su un foglietto, e un altro salta su per aggiungere un'informazione, tra di loro intrattengono brevi arringhe di opinioni. Quando qualcuno non sa cosa dire sull'argomento che gli capita in sorte, io scrollo le spalle con serenità e passo oltre, appuntandomi mentalmente che si tratta di qualcosa che dovrò approfondire durante le lezioni.

E la prima mezz'ora trascorre pulita, senza intoppi. Inizio già a familiarizzare con alcuni dei ragazzi e loro paiono mettersi a proprio agio.

Tutto perfetto, fino a che non sentiamo bussare alla porta.

Io sto gironzolando in mezzo ai banchi con il mio bel sacchettino. Non ho nemmeno il tempo per voltarmi e dire "Avanti", che il battente intarsiato si apre con decisione.

Una mano saldamente aggrappata alla maniglia, la zazzera di capelli biondo cenere ad ombreggiargli il viso e una camicia celeste con il primo bottone aperto.

Nikolas si sporge nell'aula senza troppi convenevoli e fa per aprir bocca. Poi i suoi occhi piombano in picchiata su di me e si frena per un minuscolo istante.

Sbuffa, spostando una ciocca ribelle dagli occhi. «Ah, già. Ora ci sei tu», borbotta annoiato. La sua espressione mi fa intendere che per un momento si è aspettato quasi di trovare la vecchia supplente.

«Sì, ci sono io», ripeto serafica, voltandomi del tutto verso la porta con gli occhi degli alunni incollati addosso. «Ti posso aiutare, Nikolas?».

«Mi serve Moise per un po'», risponde sbrigativamente.

Io lancio un'occhiata in direzione di Cornel, che mi osserva in attesa del mio permesso.

«Adesso?».

«Adesso». Nikolas sbuffa di nuovo, ma io non mi scompongo di una virgola. «Partecipa ad un concorso di fisica meccanica contro altre scuole. Il progetto è da presentare questo fine settimana e dobbiamo finire di rivedere alcuni dati. E io ho tempo adesso», spiega poi, pensando forse che così sarò maggiormente ben disposta a soddisfare le sue pretese.

Io incurvo un sopracciglio. Dentro sono un po' infastidita per il modo in cui ha sgraziatamente interrotto la mia lezione, senza nemmeno un per favore ad accompagnare la richiesta di far assentare un mio alunno. Ma fuori non lo do a vedere.

Mi osservo attorno. Dalle occhiate un po' imbarazzate che alcuni mi lanciano di nascosto, capisco che anche a loro non è sfuggito il poco riguardo con cui Nikolas si è rivolto a me, e questa cosa mi infastidisce ancora di più.

Ma anche questo, lo tengo per me.

«È davvero così urgente?», insisto, inclinando il capo da un lato e fissandolo dritto nei suoi occhi blu notte.

Lui contrae impercettibilmente la mandibola ruvida, il pugno sempre chiuso sulla maniglia. Sembra irritato dal fatto che mi stia indirettamente opponendo.

«È sempre urgente, quando si tratta della mia materia». La superbia con cui sputa fuori quelle parole meriterebbe la porta sbattuta in faccia.

Peccato che non sia nelle mie corde.

Mi lascio sfuggire un versetto di scherno che maschero con un mezzo sospiro, e Nikolas mi fulmina.

Capisco subito che con lui non caverò un ragno dal buco, così faccio cenno a Cornel che può uscire, di modo da poter come minimo terminare la mia ora in santa pace senza questo despota di collega ad incalzarmi.

Cornel si alza in silenzio, raccatta le sue cose ed esce in corridoio. Nikolas mi lancia un'ultima occhiata di supponenza, un pizzico di soddisfazione ad accendergli lo sguardo, dopo di che richiude la porta senza aggiungere altro.

E io sospiro, paziente.

~ ☆ ~

Ciao stelline
Questo capitolo è molto tranquillo, lo so, ma comunque è importante, mi serviva per presentarvi la madre di Viorica
Però, se riesco, vorrei pubblicarvi un capitolo anche venerdì, per compensare il fatto che sono parti molto introduttive.
Vediamo se ce la faccio❤️

Continue Reading

You'll Also Like

535K 19K 36
Lei agente del fbi mandata in missione Lui il criminale più temuto di tutta New York S' incotreranno durante la prova decisiva per la sua carriera...
37.1K 793 62
William, Lima, Ethan e Luke sono 4 attraenti fratelli da poco usciti di galera che cercano vendetta: a causa di una donna sconosciuta, non solo hanno...
30.1K 1.3K 35
2° VOLUME Sequel di "Kiss or Death" 𝓕𝓪𝓷𝓽𝓪𝓼𝔂 𝓡𝓸𝓶𝓪𝓷𝓬𝓮 🔞Con sfumature di dark, leggere i TW. "Quanto sei disposto a rischiare per amore?"...
964 61 6
Samantha Chase, ventenne, universitaria e dal carattere forte, abbastanza da non permettere a nessuno di conquistarla davvero. Harty Styles, ventise...