DRAGOSTE - insegnami ad amare

By Rose_Linden_May

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Dopo aver trascorso molto tempo lontano da casa, Viorica fa ritorno nel suo paesino natale in Transilvania, p... More

PROLOGO
1 - RITORNO
3 - SOFFERENZA E DISTRAZIONI
4 - GIUDIZI
5 - I MIEI DEMONI
6 - A CASA
7 - MIEI, TUOI, NOSTRI
8 - ERBACCE E MARY SHELLEY
9 - PAROLINE MAGICHE
10 - RIFLESSI E CONFIDENZE
11 - VOLUBILE PER COLPA DELLA LUNA?
12 - AFFOGARE
13 - TENDE BLU
14 - NON TUTTI SONO BRAVI A NASCONDERSI
15 - SOPPORTARE, MAI DIMENTICARE
16 - EVENTI MONDANI
17 - PICCOLI DUBBI
18 - INCONTRI
19 - RISCHIARE
20 - SE NE SEI CONVINTA
21 - ANGELO CUSTODE
22 - PER ZITTIRTI
23 - QUESTIONE DI CHIMICA
24 - SPINA NEL FIANCO
25 - OMBRA NELL'OMBRA
26 - COMPAGNI DI VIAGGIO
27 - ROVINE
28 - CAFFE'
29 - PICCOLI PASSI
30 - CIO' CHE CI RIMANE, IN QUESTA VITA
31 - DISVELARE
32 - CREDI NEI FANTASMI?
33 - FIDUCIA NELL'IMPOSSIBILE
34 - RICORDI DI MORTE
35 - NUOVE ALBE
36 - RICOMINCIARE A VIVERE
37 - FIDARSI È BENE, NON FIDARSI È MEGLIO
38 - FACCIA A FACCIA COL DEMONIO
39 - SCACCO MATTO

2 - PRESENTAZIONI

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By Rose_Linden_May





Viorica


Gemiti, ansiti e grugniti. Queste sono le prime cose che mi accolgono, accompagnate dalla vista scandalosa di un uomo e una donna avvinghiati contro una delle tante scrivanie in legno scuro. Lei è seduta sul tavolo con il vestito sollevato fino all'inguine e dà le spalle alla porta.

Lui è incastrato in mezzo alle sue gambe, i folti capelli biondo cenere arruffati intorno al viso che tiene premuto nell'incavo del collo della donna. Tiene le mani arpionate ai suoi fianchi e ondeggia ad un ritmo costante.

Tutto questo si presenta ai miei occhi nella frazione di un secondo, e non riesco a frenare l'esclamazione scioccata che mi sfugge di bocca. «Oh, merda».

I due si immobilizzano immediatamente e voltano di scatto le teste nella mia direzione.

«Cazzo», sbotta l'uomo – abbastanza giovane a vederlo – fissandomi addosso un'occhiata infastidita.

Un momento...

Infastidita?

Sento il sangue affluirmi di colpo alle guance e per poco non perdo la presa sulle chiavi che stringo tra le dita. I miei occhi schizzano impazziti tra i due sconosciuti, e sono talmente paralizzata da non riuscire a muovere nemmeno un muscolo.

«Oh... io... sc-scusatemi... io non...». Non ho idea di cosa dovrei dire a questo punto, mi sento come se fossi appena entrata clandestinamente in un luogo che mi dovrebbe essere precluso, anche se sono abbastanza sicura che non sia così.

Nel disperato tentativo di tirar fuori parole di senso compiuto, la mia bocca socchiusa finisce per seccarsi, e il mio silenzio sembra indispettire ancora di più l'uomo fermo oltre la scrivania.

«Ti sembra il modo di entrare?».

Mi ci vuole un po' per registrare quella frase.

Spalanco gli occhi e li pianto nei suoi, incredula. «Cosa... ma... io... è l'aula insegnanti!», squittisco, imbarazzata e confusa oltre il limite massimo. Non voglio sembrare maleducata, non il mio primo giorno e non con persone che incontro per la prima volta, così mi mordo la lingua prima di aggiungere qualche osservazione sull'indecenza di quello che stavano facendo.

«Sì, e allora?», replica lui, schietto.

Rimango immobile, congelata dallo stupore. Boccheggio come un pesce fuor d'acqua, incapace di mettere davvero a fuoco questa situazione.

Poi il mio sguardo si sposta sul viso della donna, i cui capelli scuri sono spettinati e arruffati in punti dove immagino si siano strette le dita di lui. Ha le guance rosse, non so se per la vergogna o se per l'enfasi del momento che ho appena interrotto.

Dopo aver sbattuto le ciglia un paio di volte, si riscuote e si divincola rapidamente dall'intreccio di bracca e gambe in cui era ancora bloccata.

Distolgo lo sguardo appena in tempo per non dover vedere cose che non voglio vedere.

Nel girare in fretta la testa, la frangia mi finisce tutta negli occhi.

«Accidenti, Nik, te l'avevo detto di chiudere a chiave!». Balza giù dal tavolo risistemandosi i vestiti, mentre lui agguanta l'orlo calato dei pantaloni per tirarli su insieme ai boxer. Io continuo a tenere gli occhi puntati altrove, seguendo la scena solo con il campo periferico dello sguardo.

«Ero un tantino impegnato a fare altro, non so se te ne sei accorta», replica lui, guadagnandosi un impropero in risposta. Con la coda dell'occhio lo vedo appallottolare qualcosa e con un tiro impeccabile gettarlo nel cestino accanto alla porta.

Accanto a me.

Spiando da sotto le ciglia tre le cartacce e l'immondizia, mi rendo conto che si tratta di un preservativo usato.

Storco le labbra e reprimo un verso di disgusto.

Poi avverto uno spostamento d'aria, e solo all'ultimo mi accorgo che la donna è appena sgusciata fuori dalla stanza senza un'altra parola.

La mia attenzione si posa allora tutta sul giovane uomo in piedi dalla parte opposta della sala, che solo ora mi permetto di osservare meglio.

I jeans spiegazzati ricadono in modo irriverente su un paio di fianchi asciutti, sopra i quali si appoggia una camicia azzurra dalle maniche arrotolate fino ai gomiti. Le sue dita, lunghe e affusolate, stanno sistemando il colletto, e le nocche sono solleticate dai ciuffi di una chioma folta e disordinata di un biondo molto scuro. Sotto i capelli arruffati, incastonati in un viso dai tratti decisi ombreggiato da un velo di barba appena ricresciuta, spiccano due occhi blu come la notte.

Le labbra ben disegnate e il naso dalla linea dritta gli conferiscono un'aria sensuale e severa al tempo stesso.

Aggrotto la fronte quando mi accorgo che anche lui mi sta studiando dalla testa ai piedi. Il suo sguardo scuro e profondo mi pesa addosso, e c'è qualcosa di affilato, in quelle iridi tenebrose, qualcosa che mi si infila dentro e mi fa bruciare lo stomaco. Sento l'istintivo bisogno di avvolgermi le braccia attorno al corpo.

«Che c'è?», sbotta a un certo punto, forse messo a disagio anche lui dal mio continuo fissare. «Non hai mai visto un uomo?».

Rimango un momento interdetta davanti al suo tono brusco. Sbatto più volte le ciglia e apro e chiudo la bocca nella speranza che ne esca qualcosa. Ma niente.

Lui distribuisce il peso su entrambe le gambe e incrocia le braccia sul petto tonico, alzando il mento. «Allora?».

Scrollo la testa e mi schiarisco la voce. «Sì», rispondo un po' piccata. «Ma non mi era mai capitato di vederlo alle prese con certe... attività». Voleva essere una critica, un rimprovero al contesto inappropriato in cui lui e la sua amica si sono fatti trovare, ma lui afferra il concetto in un modo tutto suo.

I suoi occhi blu si sgranano appena, e la bocca si piega in un ghigno. «Ah, allora mi dispiace per te. Ora capisco perché sembri tanto frustrata, principessina».

Spalanco la bocca, attonita. «Ma... come ti...». Come diavolo gli è uscita questa?

«Tranquilla, verginella. Io non giudico».

«Guarda che non intendevo in quel senso!», squittisco, battendo senza volerlo un piede a terra. Solo dopo realizzo quanto debba essere sembrata infantile la mia reazione.

Lui inarca un sopracciglio. «Ah, no?». La sua voce ha un timbro incredibilmente profondo, roco e graffiante. Con due semplici parole, la sua gola trema di una nota baritonale e a me sale un brivido lungo le spalle.

Di punto in bianco scioglie le braccia e agguanta un maglioncino nero dallo schienale di una sedia. Smette di tagliarmi in due con lo sguardo e si srotola le maniche della camicia, nascondendo alla vista gli avambracci attraversati da un sottile intrico di vene, prima di infilarsi il maglione dalla testa.

I suoi polsi virili spiccano contro il tessuto nero, catturando per un istante il mio sguardo.

Ma è solo un istante. Subito dopo scrollo il capo, assottiglio gli occhi e lo fulmino. «No. Intendevo che non mi era mai capitato di vedere un uomo impegnato a trastullarsi con una donna nel bel mezzo della maledetta sala insegnanti!», esclamo, punta sul vivo.

«Oh, finiscila di parlarne con quel tono scandalizzato», mi schernisce. «Non avresti visto nulla se non fossi entrata. Come hai detto tu, questa è l'aula insegnanti, il che presuppone che solo gli insegnanti vi abbiano accesso».

«Io sono un'insegnante», mi difendo, irrigidendomi sotto la cornice della porta. Il suo modo di approcciarsi non mi sta piacendo per niente.

Lui fa una risata accattivante, che gli scuote le spalle ampie fasciate alla perfezione dal tessuto morbido del maglione. «Certo, l'insegnante delle verginelle».

«D'accordo, ne ho abbastanza». Giro i tacchi e mi catapulto fuori, dirigendomi a passo spedito verso l'ufficio del preside.

Non mi preoccupo di bussare. Apro di scatto la porta e mio padre sussulta dietro le sue scartoffie. Lancia uno sguardo confuso alla mia espressione sconvolta e si risistema gli occhiali sulla punta del naso.

«Viorica, cosa...?».

La mano con cui stringo le chiavi dell'armadietto che non ho potuto aprire si agita convulsivamente in aria. «C'è... c'era... papà... c'era un uomo...».

«Un uomo?», ripete lui, non troppo stupito. Certo, d'altronde potrebbe essere è normale un uomo nell'aula docenti. Ma non è questo il punto.

«Sì... un uomo che... lui... era... lui... stava... Cristo!», mi lascio scappare l'imprecazione mentre strizzo gli occhi e l'immagine di loro due avvinghiati e gementi contro quella scrivania lampeggia nella mia mente come uno sgradevole flash. «Stava... fornicando con una donna dentro l'aula insegnanti!», esplodo, con il sangue che mi pulsa nelle orecchie. Un po' è l'offesa che sento di aver subito per il comportamento arrogante di quel ragazzo, un po' è l'imbarazzo, un po' il fatto che ancora non riesco concretizzare ciò a cui ho assistito.

E pensare che, di solito, non mi faccio scandalizzare da niente. Nei miei due anni di esperienza, mi è capitato anche di lavorare in scuole dove la condotta media degli studenti si riduceva a sedie tirate fuori dalle finestre, sceneggiate in mezzo alla classe, risse, sigarette spente contro il muro nella speranza di intimidirmi. E io non l'ho mai permesso, sono sempre riuscita a tenere il polso fermo.

Sono abituata a scenari estremi quando si tratta di studenti indisciplinati.

Ma questo...

Qui si tratta di un adulto, non di un ragazzino, e soprattutto di qualcosa che supera perfino la mia concezione di scenario estremo.

Non è mia abitudine fare la parte della lamentevole, e di sicuro non ho intenzione di iniziare il mio percorso in questa scuola correndo a piagnucolare da mio padre per tutto quello che non mi va' a genio, ma, che diamine...

Qui stiamo rasentando l'assurdo.

Papà sbatte un paio di volte le ciglia mentre mi osserva, dopo di che le sue spalle si accasciano sotto il peso di un sospiro e si passa una mano sul viso, inclinando di nuovo gli occhiali.

«Ah, Nikolas...», scrolla il capo con un'aria di rassegnata accettazione.

Io rimango interdetta. «Un attimo... sai di chi sto parlando?».

Un secondo sospiro lascia le labbra di mio padre, che si gratta la nuca impacciato finendo per arruffarsi i capelli che poco fa gli avevo risistemato. «Sì, credo proprio di sì».

Mi acciglio. Lo sa? È così normale che questo Nikolas faccia questo genere di cose all'interno della scuola, da non dare a mio padre il minimo dubbio che si tratti proprio di lui?

«I-io... non credo di capire». Le mie braccia cadono lungo i fianchi e muovo qualche passo fino a raggiungere il centro dell'ufficio. «Perché sei così tranquillo? Ti ho appena detto che ho sorpreso un tizio mentre stava...».

Non faccio in tempo a finire di parlare che la porta si spalanca di colpo e la figura del presunto Nikolas si affaccia di slancio nella stanza. «Eugen, per caso una tizia strana è...?», la frase gli muore sulle labbra quando mi vede in piedi in mezzo allo studio.

Contraggo forte la mandibola. «Tizia strana a chi?». Il sangue prende a ribollirmi nelle vene. Sono sempre stata orgogliosa del mio temperamento mite e della mia cortesia nei confronti delle altre persone, ma in questo momento sono completamente allo sbaraglio.

La vista di lui nel bel mezzo di un atto carnale, e a seguire i suoi modi dispotici, hanno temporaneamente alterato la mia capacità di reagire normalmente.

Il tizio mi fissa in silenzio, sbattendo lentamente le palpebre su quegli occhi blu. Poi sbuffa e piega un sopracciglio. «Oh, fantastico. L'isterica è già qui».

«Ma vogliamo scherzare?!», esclamo, ormai satura. Mi giro verso mio padre. «Scusami, lui non...».

«Direi che qua stiamo cominciando con il piede sbagliato». Papà poggia i palmi sulla scrivania e fa leva per alzarsi in piedi. Si sbottona la giacca del completo e fa il giro del tavolo fino a trovarsi difronte a noi.

L'alone aranciato del tramonto che entra dalle finestre si riflette nelle lenti dei suoi occhiali creando un gioco di luci che per un attimo gli oscura le iridi, ma io riesco a scorgervi comunque un velato rimprovero rivolto al giovane uomo che sosta sulla porta alle mie spalle.

«Avevo in mente di fare queste presentazioni domani, durante la riunione con i docenti, ma visto che siamo qui...». Fa un cenno verso di lui e il ragazzo avanza fino a portarsi davanti alla scrivania, al mio stesso livello. Io distolgo sbrigativamente gli occhi, e li faccio vagare sui ripiani in legno scuro che occupano le pareti, stipati di libri e vecchi documenti, pur di non guardarlo. L'immagine di lui incastrato in mezzo alle cosce di quella donna mi vortica tra i pensieri, causandomi un senso di nausea.

«Viorica», mio padre si schiarisce la gola per richiamare la mia attenzione, e mi sforzo di fare la persona matura e riportare i miei occhi in quelli blu dell'estraneo al mio fianco. «Lui è Nikolas Constantin, insegnante di fisica qui all'istituto. Nik...», fa un gesto elegante della mano per indirizzare lo sguardo di Nikolas su di me. «Ti presento Viorica Grigore, mia figlia e nuova professoressa di letteratura della Nordesange».

Nikolas sgrana gli occhi, e il blu notte delle iridi si accende di una sfumatura incredula. «Tua cosa?».

«Già», sorride mio padre con quel suo modo un po' goffo, infilandosi le mani nelle tasche del completo. È uno di quelli vecchi e poco pregiati che usava anche quando era un normale professore. Mi piace vedere che la nuova carica non lo ha snaturato. «Viorica cercava un impiego come insegnante più vicino a casa, e ora che io sono stato nominato preside, ci serviva una persona qualificata per la cattedra di lettere, così le ho detto di provare il concorso. È stata lontana troppo a lungo». Il suo sorriso si volge nella mia direzione, facendosi più affettuoso, e sento che un po' della tensione dentro di me si scioglie.

Ma una spina fastidiosa mi si conficca nel fianco, quando Nikolas apre di nuovo bocca. «Sì, beh, penso di aver scandalizzato un po' la tua bambina. Non le hai insegnato a bussare prima di entrare in una stanza?».

Il mio sguardo sbigottito saetta su di lui.

Con quale diritto questo tizio – insegnante o meno – può sentirsi libero di rivolgersi al preside in questo modo? Con tutta questa confidenza?

Faccio rimbalzare gli occhi tra lui e mi padre, e vedo che quest'ultimo aggrotta la fronte, che si solca di linee più profonde. «Nik, quante volte ti ho detto che non puoi usare in quel modo la sala insegnanti?».

Strabuzzo gli occhi ancora di più. «Mi prendete in giro?». Non è possibile. Questa conversazione non sta avvenendo davvero.

Nikolas sbuffa, e incrocia le braccia sul petto con un modo tanto scanzonato da sembrare un adolescente. «Che vuoi che ti dica. Ci siamo trovati lì... non abbiamo avuto il tempo per... cercare un luogo più adeguato». Le sue iridi si schiantano nelle mie, e mi sferzano con un'occhiata provocante.

Contraggo la mandibola e rimango sulle mie, avvolgendomi il busto con le braccia.

«Nik», lo rimbrotta mi padre, ma fin troppo bonariamente per i miei gusti. E pensare che io sono sempre stata famosa per essere anche troppo buona con i miei alunni. In questo momento vorrei solo che papà gli prendesse a bacchettate le mani, se le meriterebbe tutte.

«Sì, sì, lo so», fa Nikolas sollevando in alto i palmi. «Le porcherie solo nelle mie stanze. Cercherò di starci più attento», celia.

Chiudo le palpebre e faccio un respiro profondo. Fa sul serio?

Quando riapro gli occhi, trovo mio padre in piedi accanto alla porta. Una mano stretta attorno alla maniglia di ottone intarsiato. «D'accordo, mi auguro che non si ripetano altri incidenti di questo tipo. E non solo con Viorica, ma con chiunque altro», si raccomanda, spingendo lo sguardo a fondo in quello di Nikolas. Poi si rivolge a me e prende una delle mie mani, per lasciarvi dentro un secondo mazzo di chiavi, questa volta poco più grandi e molto più elaborate. «Ora, scusami, Viorica, ma le carte che devo esaminare per domani stanno richiedendo più tempo del previsto. Queste sono le chiavi della tua nuova sistemazione. Nik, puoi aiutarla tu a portare le valige in camera sua? La stanza è al terzo piano, la porta davanti alla loggia. Hai presente?». Nikolas annuisce. «Spero non ti dispiaccia. Prometto che poi passo a controllare come ti sei sistemata», aggiunge rivolto a me.

La mia mandibola crolla verso il basso. Sì che mi dispiace. Non lo voglio l'aiuto di questo cavernicolo arrogante.

Ma non posso certo mettermi a pestare i piedi a terra come una ragazzina. Così stringo i denti e rivolgo un'occhiata tagliente al mio nuovo accompagnatore.

Lui non sembra tanto più felice di me della cosa, ma evidentemente non gli sposta di molto la vita, perché compie un arco con il braccio davanti a sé, a farmi cenno di precederlo. «Prego, signorina». Il suo tono cantilenante mi fa irritare ancora di più, ma mi sforzo di fare appello a tutta la mia pazienza.

Faccio ritornare a galla l'esperienza che ho accumulato dopo la laurea, chiamo a raccolta tutta la calma e la bontà d'animo che mi hanno aiutato a non diventare matta in classi con soggetti quasi irrecuperabili e che hanno fatto di tutto per portarmi all'esaurimento.

Non ci sono riusciti degli adolescenti indisciplinati, non ci riuscirà certo un insegnante di fisica un po' troppo sfacciato.

Senza smettere di abbracciarmi il busto, cammino spedita fin fuori l'ufficio, e sento la sua presenza incombere dietro di me.

Quando la porta si chiude alle nostre spalle, mi volto verso di lui, non so bene con quale intento, ma lui blocca ogni mio approccio sul nascere.

Come mi giro, trovo il suo viso ad un centimetro dal mio. La sua improvvisa vicinanza mi fa sussultare, ma è il timbro rasposo della sua voce a farmi contorcere le viscere.

«Sei corsa da papino a lamentarti per le brutte cose che hai visto, verginella?», soffia con la sua strafottenza, mentre un ghigno gli piega le labbra. La pelle sulla mandibola si tende appena, facendo spiccare di più quel velo di barba biondo scuro.

Deglutisco e faccio un lungo passo indietro per riappropriarmi del mio spazio personale.

«Non sono corsa a fare proprio niente, volevo solo...».

«Fatti un favore e trovati qualcuno con da cui farti una ripassata, così la prossima volta non farai quella faccia orripilata quando vedrai qualcun altro farlo». Sventola un dito davanti al naso con l'aria di chi mi ha appena dato un saggio consiglio. Poi comincia ad incamminarsi verso l'ingresso, dove i miei bagagli aspettano ancora incustoditi.

Io resto un patetico istante a metabolizzare le sue parole, poi gli schizzo dietro, con gli stivaletti bassi che ticchettano sul pavimento scuro del castello e la gonnellina che mi frusta le gambe.

«Perché, credi che ci sarà una prossima volta?», sibilo alle sue spalle, mentre cerco di raggiungerlo. Ficco nella borsa le chiavi che mi ha dato papà e accelero il passo.

«Oh, non lo so», sospira lui teatralmente. Volta il mento affilato sulla spalla e mi scocca un occhiolino. «La mia vita sessuale è molto attiva, a differenza della tua. Non si sa mai dove potrebbe cadere il tuo pudico sguardo, aggirandoti per i corridoi di questa scuola».

Storco la bocca, schifata dai suoi modi.«Puoi smetterla di insinuare che io non abbia la minima esperienza sessuale?», le parole escono fuori dalla mia bocca prima che possa fermarle, e lui si arresta di colpo.

Siamo appena arrivati nel maestoso ingresso del castello.

«Ah, quindi ho sbagliato scrutinio? Perdonami, cara, non avevo capito che fossi una professionista del mestiere». Si porta una mano sul cuore fingendosi costernato. «Se vuoi, puoi darmi qualche dimostrazione pratica, così mi rendo conto di quanto mi sia sbagliato a ritenerti inesperta». Quest'ultima battuta calcolata la pronuncia abbassando di un tono la voce, che mi causa un brivido violento, e avvicinandosi di nuovo pericolosamente al mio spazio vitale.

Questa volta però rimango immobile, sollevando il mento. «Per cortesia», mastico tra i denti. «Potre...».

«Per cortesia?», mi interrompe divertito. «È così che riporti all'ordine i tuoi studenti, di solito? "Per cortesia, piccoli monelli, smettetela di fare tanto baccano"», scimmiotta, acuendo il tono per imitare la mia voce. Mi ride in faccia senza alcun pudore. «Sei sicura di essere qualificata per fare l'insegnante, raggio di sole? Secondo me, ti divorano nel giro di una settimana, anche con delle classi di tutto rispetto come le nostre».

Mi pizzicano le dita per la tentazione insolita di schiaffeggiarlo.

Mentre lui continua a ridere di me, io inspiro profondamente e tento di mantenere il controllo. Io sono più che qualificata ad insegnare, ma di sicuro non devo spiegarlo o dimostrarlo a questo qui. Faccio un cenno verso la scalinata che conduce ai piani superiori, ignorando la sua ultima presa in giro.

«Per cortesia», ripeto, calcando appositamente su ogni sillaba. «Potresti soltanto aiutarmi a portare la mia roba in camera e smetterla con questo atteggiamento da ragazzino molesto?».

L'angolo della sua bocca si piega in un sorrisetto sghembo. «Ragazzino molesto?».

«Esatto».

Scrolla il capo e i capelli sulla sua fronte si agitano appena. «Di ragazzini molesti qui ce ne sono pochi, la Nordesange è rinomata per la condotta impeccabile dei suoi studenti».

«Lo so».

«E di sicuro io sono tante cose, ma non un ragazzino». Camminando lentamente, si avvicina ai miei bagagli e prende due delle tre valige con una presa salda, i muscoli asciutti che guizzano sotto il maglioncino nero.

Le solleva senza fatica – mentre io per portarle su dalla scalinata esterna del castello mi sono distrutta le braccia. Dopo di che sposta lo sguardo su di me e mi perlustra da capo a piedi con un'occhiata rovente che sembra trapassarmi anche i vestiti.

Passa in rassegna il mio viso, coperto da un velo di trucco tanto leggero da notarsi appena, i capelli castani lunghi e fermati da una spilla dietro la testa, la gonnellina, poi scivola lungo le mie gambe e torna lentamente verso l'alto. «Tu, invece... a guardarti sembri piuttosto giovane. Hai almeno finito le scuole superiori, verginella?».

«Smettila subito», pronuncio calma, la voce piatta, senza nemmeno contrarre i lineamenti. Comincio ad averne davvero abbastanza.

«Di fare cosa? Di fissarti?».

«Di chiamarmi verginella».

Inclina la testa da un lato. «Ah, okay. Quindi posso continuare a fissarti? Nel qual caso, saresti così gentile da precedermi su per le scale?». Mi rivolge un ghigno malizioso abbassando gli occhi fino alla parte bassa del mio corpo e io conficco le unghie nei palmi per resistere alla tentazione di dargli del porco.

Scrollo il capo spazientita e mi muovo fino ai gradini per agguantare l'ultimo bagaglio rimasto. Nel farlo compio l'errore di piegarmi in avanti voltandogli le spalle, e avverto il peso del suo sguardo addosso, prima di sentirlo risucchiare l'aria tra i denti con soddisfazione. «Proprio quello che intendevo. Grazie tante».

Mi raddrizzo tanto repentinamente che per poco non mi viene un capogiro. Ruoto su me stessa e d'istinto mi porto una mano sul fondoschiena, lisciandomi la gonna. «Sei molto peggio di un ragazzino molesto».

«E tu sei pudica come una ragazzina».

Mi stringo la valigia al fianco. «Ho solo un senso maggiore di ciò che è consono. A te, invece, sembra mancare del tutto», ribatto.

Lui sbuffa fuori una risatina. «Ciò che è consono...», ripete. «Se guardare il culo di una donna non è consono, allora dovresti condannare il novanta percento della popolazione mondiale. Ma forse parlare di donna, con te, non è del tutto adeguato». Con una lunga falcata si porta proprio difronte a me e appoggia sulle scale i miei bagagli. Lo spostamento d'aria improvviso porta con sé l'odore emanato dalla sua pelle.

Sa di qualcosa di ruvido e muschiato, ruspante. Fin troppo piacevole da inalare, nella sua semplicità impattante. Mi ricorda la terra calda dei campi attorno alla mia casa d'infanzia, inumidita dalla pioggia dopo un temporale e scaldata dal sole, mescolato alla fragranza di legna bruciata. Al fumo che si innalza dai camini del paese. Al sentore naturale delle foglie d'autunno. È lo stesso odore dell'aria di questi luoghi, sa stranamente di casa e familiarità, il che mi destabilizza non poco.

Cerco di ignorare il calore bruciante alla bocca dello stomaco e salgo i primi tre gradini dietro di me. Sono abbastanza alta da poterlo fronteggiare senza dover alzare il mento stando alla sua stessa altezza, ma ora voglio guardarlo dall'alto in basso.

Soffio fuori l'aria per liberarmi della distrazione del suo odore piacevole. «Ho ventisei anni, sono abbastanza donna da riconoscere un cafone quando ne incontro uno. E si dà il caso che davanti a me ce ne sia uno bello grosso», mi lascio sfuggire con una smorfietta ironica.

Sul suo viso – che da questa inesistente distanza mi accorgo essere più attraente di quanto non vorrei ammettere – compare un sorriso infido. «Oh, tesoro, di grosso davanti a te c'è ben altro, in questo momento, ma si trova giusto un po' più in basso...».

Prendo coscienza di aver socchiuso la bocca in una smorfia un po' scandalizzata solo quando la sua mano grande e calda si posa sotto il mio mento per richiuderla. Scatto indietro con la testa, sottraendomi al suo tocco invasivo.

«Chiudi la boccuccia, che entrano le mosche», mi deride. «Comunque... ventisei?», inarca un sopracciglio, scrutandomi curioso. La sua mano si solleva di nuovo e con i polpastrelli sfiora le punte mosse della mia frangetta.

Di nuovo, scatto indietro con il capo. «Smettila di toccarmi la faccia», soffio.

«Te ne avrei dati al massimo ventitré», commenta. Ritrae la mano e se la ficca in tasca. «Sembri più piccola. E poi, quelle gonnelline da liceale a ventisei anni?». Inclina la testa e qualche ciocca disordinata gli finisce davanti agli occhi.

Affilo lo sguardo e incurvo un sopracciglio. «Le mie gonne non hanno niente che non va'», ribatto secca. Abbasso di poco il viso senza smettere di guardarlo negli occhi, e i capelli lunghi mi ricadono davanti alle spalle.

«No, sono sicuro che hanno un ottimo utilizzo pratico. Molto veloci da...». Emette un fischio rapido, e con le punte delle dita uncina l'aria, mimando il gesto di sollevarla.

Frusto i miei capelli dietro la schiena e serro il pugno con cui stringo il manico della valigia, talmente forte da sentirne il rivestimento di plastica imprimersi nella carne del mio palmo.

Paziente, Viorica. Devi essere paziente. «E queste battute mature e sagaci tu le tiri fuori alla veneranda età di...?», replico tagliente.

Lui ghigna, incrociando le braccia sul petto virile. «Ventisette anni».

«Mmm», sbuffo. «Te ne avrei dati al massimo undici», gli faccio il verso.

Lui sgrana un pochino gli occhi. «Ma che simpatica...», cantilena. Schiocca la lingua contro il palato. «Da chi hai preso l'umorismo? Di sicuro non da Eugen, fa pena con le battute».

Evito di rispondergli, ancora incapace di realizzare che lui e mio padre si rivolgano l'uno all'altro come vecchi amici. Mio padre, amico di uno così, proprio non ce lo vedo. «Fammi vedere dov'è la mia nuova sistemazione e basta. Questo siparietto comincia a stancarmi».

Nikolas inclina la testa dall'altra parte. «Dov'è finito il per cortesia?», ghigna.

Ora lo butto giù dalle scale.

Mi volto e comincio a salire l'imponete gradinata, la valigia che sbatacchia sugli scalini e la borsa stretta sotto il braccio. «Me la trovo da sola la stanza».

Non faccio neanche una decina di gradini che sento i suoi passi risuonare dietro di me. Lo spio da sopra la spalla, e lo vedo impugnare con scioltezza i miei bagagli senza fargli toccare terra. «Non essere ridicola. Per vedere se gironzolando a caso entri nella stanza sbagliata e sorprendi qualcun altro nel bel mezzo di un momento di piacere. Non è carino interrompere sul più bello».

Lo sforzo che impiego per non voltarmi e spingerlo di sotto è immane.

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