1. SORRIDI E ANNUISCI

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«Ha un nome antipatico».

«Un nome non può essere antipatico».

«Sì invece. Il tuo nome è noioso e tu sei noioso» sentenzio con il tono di chi sta pronunciando un assioma tanto evidente. «Ed Alizée è un nome antipatico, quindi sarà antipatica».

Alan emette un sospiro rassegnato e continua a camminare al mio fianco, procedendo lungo il marciapiede.

Intorno a noi si susseguono decine di villette a schiera tutte identiche, con piccoli cortili contornati da cancelli arrugginiti. Le strade sono deserte, popolate dalle prime ombre gettate dal sole morente, le cui ultime lame di luce riverberano nell'aria dei bagliori infuocati.

«E poi che razza di nome è? Alizée... sembra una malattia gastrointestinale».

«Keeley!» mi rimprovera Alan.

«Hai ragione. Più simile ad una malattia venerea» proseguo imperterrita. «È araba, per caso?»

«Cosa?» Alan aggrotta la fronte, preso alla sprovvista. «No. Ha origini francesi per parte di madre».

«Peccato» commento delusa. «Avrei potuto salutarla con il mio fantastico arabo».

Mi guarda di sbieco, confuso. «Tu non sai l'arabo».

«Sì, invece. Te lo dimostrerei, ma non sei degno di ascoltare una pronuncia tanto fluente».

Un refolo di vento gelido mi artiglia il volto, facendomi rabbrividire. Mi stringo nel mio giubbotto nero e rafforzo la presa delle dita intirizzite sull'enorme valigia che continua a sbatacchiare contro il mio ginocchio.

Anche se è pesante, ho rifiutato con la mia solita gentilezza la proposta di Alan di portarla al mio posto.
Non mi piace farmi aiutare, e soprattutto non sopporto dover contare sugli altri. Me la cavo benissimo senza aver bisogno dell'aiuto di nessuno.
È una lezione che ho imparato da diversi anni ormai.

Sollevo lo sguardo al cielo. Ha cominciato a tingersi delle sfumature rossastre del tramonto e, all'orizzonte, si attorcigliano stracci di nubi arancioni e giallastre simili ai tentacoli di una piovra.

Fra poco appariranno le prime stelle e potrò giocare a riconoscere le costellazioni segrete. Quelle che solo io e papà conosciamo. Un gioco nostro che gli altri non possono capire.
Solo noi.

Ancora non ci credo di essere tornata a Sunset Hills.
La città in cui sono nata, ma che non è mai stata la mia casa.
La città che ha visto la mia vita accendersi e quella di mia madre spegnersi... nello stesso giorno.

Fra tanti luoghi al mondo, la donna che mi ha adottata doveva proprio vivere qui, vero?

Le spiagge delle Bahamas, sorseggiando un drink con l'ombrellino, le facevano schifo?
Oppure l'Australia, combattendo un round di pugilato con un canguro?

No. Ovviamente lei doveva vivere a Sunset Hills!

«Con la mia fortuna, scommetto che ha anche comprato la casa che era dei miei genitori» borbotto fra me.

«Che hai detto?» chiede Alan.

«Qultu annak gabion» rispondo prontamente.

«Eh?»

«Significa "ho detto che sei un idiota" in arabo».

Un lampo divertito balena nei suoi occhi color nocciola. «Qualunque cosa fosse quella, di certo non era arabo». Poi fa una smorfia e aggiunge: «Aspetta, ma mi hai appena dato dell'idiota?»

«Beh, non ti ho mica detto che sei un lurido babbano. Quello sarebbe stato peggio».

«Non sono sicuro se devo insultarti o ringraziarti, in questo momento» replica Alan interdetto.

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