55. MASCOLINITÀ TOSSICA

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Un esile raggio di luce penetra dalla tenda scostata della finestra, rischiarando un poco l'atmosfera cupa della stanza. Fuori, l'alba è ormai sbocciata in una mattina spenta e scura, con un sole pallido nascosto dietro fitti stralci di nubi nere che si dispiegano sul cielo plumbeo. Un vento sferzante ulula tra i rami spogli degli alberi nel giardino, sollevando da terra turbini di foglie rosse e gialle che riempiono l'aria dei colori ardenti tipici dell'autunno.

Seduta a gambe conserte sulla poltrona, continuo a sfogliare lentamente le pagine dell'album, posato sulla scrivania. Mentre passo in rassegna le foto a una a una, la mia mente si anima di scene di una vita che non sapevo fosse mai stata vissuta e la consapevolezza che mia madre, per me, non è che un volto simile al mio e un nome vuoto diventa sempre più dolorosa.

Osservo lei e Alizée da bambine che passeggiano nel parco di Sunset Hills, mano nella mano, con una donna dai capelli argentati che deduco essere mia nonna. Poi sempre loro, alla mia stessa età, che bevono una cioccolata calda al Lucky House ed Elaine che prende in giro l'amica per essersi sporcata la punta del naso. E di nuovo, eccole alla consegna del diploma, finito il liceo, questa volta assieme a zia Moira – o meglio, a Céline Dubois – che però sembra tutt'altro che entusiasta.
Non posso non sorridere, quando me ne accorgo: probabilmente, anche allora detestava farsi immortalare, se prima non si era preparata e sistemata almeno per mezz'ora in modo da essere impeccabile.

A un certo punto, le ambientazioni si spostano all'estero, catturando alcuni dei viaggi in Italia della mamma da cui provengono le palle di vetro conservate nella mia casa a Baker Street; quelle che non ho rotto, almeno. In un'immagine, il trio di ragazze è in vacanza in un'affollata piazza di Roma, sullo sfondo della magnifica fontana di Trevi in stile barocco, intente a mangiare un gelato.

Dopodiché, stanno sorreggendo a fatica la torre pendente di Pisa, anche se nessuna di loro è riuscita a trattenere un ghigno divertito. In un'altra, si trovano accanto alla cosiddetta "casa storta" di Montmartre, fingendo di scivolare all'indietro per completare l'effetto ottico secondo cui il palazzo parigino dà l'impressione di sprofondare nel prato della collina. In un'altra ancora, ci sono solo mia madre e Alizée, che ridono sui divanetti del Caffè Florian di Venezia, con un vassoio di dolcetti e due tazzine fumanti sul tavolino.

Man mano che la vedo crescere sotto ai miei occhi, tuttavia, una domanda si ripete all'infinito nella mia testa, assillante come un mantra: come ho potuto non chiedere mai nulla di lei?

L'ho fatto per non far soffrire mio padre, o per non soffrire io?

D'un tratto, il cuore mi balza in gola. Mi ritrovo di fronte una foto scattata in una gigantesca sala da ballo piena di gente elegante, illuminata da lampadari con gocce di cristallo e candelabri sorretti da angeli dorati. E, in mezzo alle altre coppie, stretti uno all'altra, sono ritratti i miei genitori che ballano fissandosi dritti negli occhi, quasi fosse una sfida a chi distoglieva per primo lo sguardo. Entrambi dovevano avere vent'anni, circa.

Nonostante siamo pressoché identiche, devo ammettere che mia madre era bellissima quel giorno, più di quanto io sia mai stata. La sua lunga chioma biondo platino era raccolta in una complicata acconciatura formata da tante ciocche disposte in morbide onde, lucide per la lacca, fissata da una coroncina di rose bianche. Abbinato agli occhi ambrati e ai lunghi guanti, portava uno splendido vestito che le arrivava fino alle caviglie, ornato di perline e rivestito di lucenti paillettes azzurre e rosa, con una profonda scollatura sulla schiena.

Mio padre le cingeva il fianco con un braccio, le labbra incurvate in un sorriso, e la guardava come se fosse la cosa più meravigliosa al mondo. Rispetto a lei, era talmente in disordine da stonare totalmente nello sfarzo che li circondava: capelli arruffati, livido sulla guancia, una spiegazzata camicia nera con i lembi sporgenti, un paio di jeans infangati e la cravatta allentata attorno al colletto aperto.

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