49. ZIO MATT

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P.O.V. KLAUS

Stringendo forte il mio cavallino di legno, mi arrampico sulla balaustra del terrazzo, con le gambe distese davanti a me e la testa posata sul pilastro di pietra nell'angolo. Il venticello estivo, mitigato dalle temperature notturne, mi getta soffi d'aria fresca che si insinuano sotto il pigiama appiccicato alla pelle e sul viso sudato, dandomi un po' di sollievo.

Il panorama di Sunset Hills, immersa nella quiete e nelle stelle, mi infonde uno strano senso di calma, ma rimane comunque qualcosa di estraneo, di alieno. Anche se non mi manca Newham, il borgo londinese in cui sono cresciuto, ho nostalgia del fascino di Greenwich, o della campagna inglese.

Ricordo le case color miele disseminate tra dolci colline, i castelli e le chiese che odoravano di storia, il maestoso Cutty Sark che, come un dio dormiente, rievocava i tempi in cui era il vascello più veloce al mondo. E ricordo le passeggiate con la mamma a Blackfriars, lungo la riva nord del Tamigi, i picnic che facevamo di nascosto al Greenwich Park o la nave pirata con cui giocavano gli altri bambini, nel Diana Memorial Playground.

Una volta, mentre lo zio mi portava in giro per uno di quelli che definiva "i suoi lavoretti", mi ero fermato a guardarli incantato, fantasticando su come sarebbe stato unirmi a loro.
Mi aveva riportato alla realtà uno strattone al polso e la sua voce che mi sussurrava: «Lo sai che non ti vogliono, sei troppo cattivo per stare con loro. Ora muovi il culo o facciamo i conti a casa».

Un brivido mi scuote il corpicino tutto ossa, seguito da un brontolio allo stomaco. Ho fame. Da quando sono arrivato alla villa, due settimane fa, non riesco a mangiare quasi niente, a parte i cioccolatini o le caramelle che Carol continua a darmi. Sono affamato, eppure mi viene la nausea al pensiero del cibo, come se avesse perso per me ogni attrattiva.

Durante il giorno, avverto un sonno terribile addosso, ma il terrore di sprofondare negli incubi spesso mi tiene sveglio fino all'alba e, anche se mi addormento, non faccio che agitarmi. Il momento peggiore, però, è quando apro gli occhi, in preda al panico, certo di ritrovarmi raggomitolato nella piccola cabina armadio, mentre sento di nuovo l'eco dei passi sulle scale.
Ma, questa volta, non ho dubbi che siano dell'uomo cattivo.

Rassegnato, scendo dal muretto e lascio il balcone. La vista del letto pronto ad accogliermi, con le coperte tirate in fondo, ha lo stesso impatto che avrebbe l'abbraccio di una camicia di forza. Con la statuetta intagliata ancora in mano, attraverso la camera ed esco in punta di piedi.

Per un attimo, guardando la porta di fronte alla mia, mi chiedo quanto si arrabbierebbe William se mi intrufolassi nella sua stanza e mi mettessi sulla sedia della sua scrivania, o anche sul tappeto, non importa... non voglio stare da solo. Probabilmente, mi meriterei un pugno già solo per averlo disturbato, o mi prenderebbe in giro con i suoi fratelli.

Scuoto la testa per scacciare quell'idea stupida e mi incammino lungo il corridoio. Il buio e il silenzio sono assoluti, eccetto per il fruscio delle mie ciabatte sul pavimento, e le ombre che danzano tra i dipinti creano un'atmosfera gotica che mi riempie d'inquietudine.

Comincio a vagare senza una meta precisa, spinto da una sorta di apatica curiosità. La voglia di esplorare questo posto, così grande e antico, è l'unico sentimento che mi faccia capire che sono ancora vivo, non un semplice cuore che batte per inerzia. A catturare la mia attenzione sono soprattutto le foto di famiglia, che ritraggono i figli di Alizée sempre insieme, ogni tanto imbronciati, ma comunque sprizzanti un'energia, un brio che io non ho mai avuto.

Mi fermo davanti a una in particolare, esposta sulla credenza in un piccolo atrio, vicino alla biblioteca: tutti e cinque i bambini stanno giocando alla lotta con Ian in giardino, ormai fradici a causa delle pistole ad acqua con cui si spruzzano a vicenda. Sembrano divertirsi tantissimo, insieme al loro papà...

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