47- Twenty-first of July

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(Leggete la prima parte del capitolo, con i sottofondo "Nuvole Bianche" di Ludivico Einaudi!!)


Il mio compleanno era appena arrivato.

Era scattata la mezzanotte segnando l'inizio del ventuno luglio, l'ennesimo senza di lei, e io avevo sentito il mio cuore incrinarsi. Avevo passato la notte sul tetto di casa mia, con la vestaglia a proteggermi dal leggero vento estivo. Ero stesa sopra a un telo nero, e il mio sguardo era rivolto verso gli astri. Osservavo le stelle e individuavo le costellazioni, nonostante il mio compito fosse difficile a causa delle piccole nuvole chiare, che costellavano quella distesa immensa.

Osservare il cielo notturno mi faceva sentire vicina a mia madre. Quel blu, seppur più intenso e scarlatto, mi ricordava gli occhi grandi della donna che avevo perso prematuramente.

Ero sola, come era un'abitudine. Non volevo nessuno steso su quel telo con me, mentre mi perdevo alla ricerca di una stella particolarmente luminosa che potessi associare a lei.

«Le persone non vanno mai via davvero, Alexandra.» Mi aveva detto quando era morto mio nonno, suo padre, un uomo buono, dagli occhi diversi. «Ti basterà guardare il cielo notturno e individuare la stella più luminosa; quella che catturerà il tuo sguardo sarà la stessa che conterrà l'essenza della persona che hai perso.» Aveva accarezzato le mie guance, scacciando via le lacrime e osservandomi con amore.

Da allora, avevo imparato ad apprezzare l'oscurità che calava di notte e a non temerla.

Quando il buio era ormai scomparso e le prime luci dell'alba avevano illuminato quello che si estendeva davanti a me, mi ero sollevata ed ero scesa in cucina, dove avrei trovato mio padre, con gli occhi impegnati a fingere di leggere una pagina di giornale, mentre le mani stringevano una tazza di caffè.

Quel giorno le parole che ci scambiavano io, mio padre e i miei fratelli erano limitate. Gli auguri non erano ammessi, così come i sorrisi.

Il ventuno luglio, per me, non era un giorno di festa, ma quello che aveva segnato l'inizio del mio calvario personale, lo stesso in cui avrei visto per l'ultima volta il chiarore degli occhi di mia madre. Da quel momento, avrei vissuto con una ferita a squarciarmi il petto che mai avrei creduto di poter risanare.

Nonostante avessi lo stomaco serrato in una morsa, mi ero seduta al tavolo da pranzo e avevo morso una mela, sentendo la bile salirmi in gola. Avevo ingoiato a sforzo, sapevo che le ore di sonno perse e la mancanza di cibo avrebbero potuto causarmi del malessere fisico, perciò mi imposi di mordere ancora, sotto gli occhi attenti di mio padre.

Quando avevo finito, ero salita in camera mia e, dopo essermi spogliata, ero entrata nella vasca precedentemente riempita da una delle cameriere. Avevo raccolto le ginocchia al petto, spingendole contro il mio seno nudo, e avevo abbandonato la testa sulle gambe, come se non riuscissi più a sopportarne il peso.

Lacrime solcarono le mie gote e un singhiozzo fuoriuscì, prepotente e chiassoso.

Le mie palpebre erano chiuse e le immagini di quel giorno fecero la loro comparsa nella mia mente. Rividi il suo corpo cadere a terra per proteggere il mio, stesa sul letto dell'ospedale, con il volto pallido e la mascherina per l'ossigeno che l'aiutava a respirare, a restare viva. Rividi, infine, il suo funerale.

****

Varcai l'ingresso del cimitero con la mano destra che stringeva un mazzo di girasoli gialli, i fiori preferiti di mia madre, gli stessi che portavo sempre.

Mi permettevo di recarmi al cimitero solo il giorno del mio compleanno. La mia era una punizione che m'infliggevo, quella di andare a trovarla solo nel giorno in cui simbolicamente aveva perso la vita a causa mia.

Con te non ho pauraWhere stories live. Discover now