37-It all hurts so much ...

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Passavo per una strada isolata barcollando leggermente, a stento riuscivo a sostenermi sulle mie gambe, visto l'alcol che avevo ingerito.

Avevo ascoltato il racconto di Mathilde attentamente e, una volta concluso, avevo rifiutato la sua richiesta di tornare a casa; le avevo detto che necessitavo di passare del tempo da sola, per poter riflettere con accuratezza e ragionare su quanto mi aveva confessato.

Avevo passato circa un'ora confinata nella mia frustrazione e nel mio dolore seduta su quella panchina, avevo riaperto vecchie ferite, che, ad essere sinceri, non si erano mai del tutto cicatrizzate, e rivissuto nella mia mente tutto quanto, poi, stanca, avevo scelto di recarmi in qualche pub per bere, sperando che i ricordi sarebbero stati assopiti dall'alcool.

Mi era sembrato di essere piombata ancora in quello che avevo definito periodo buio e non ne ero felice.

Mi ero seduta al bancone di un piccolo bar della zona e, da un solo drink, mi ero ritrovata a ingerire quattordici shottini di vodka, ero, quindi, totalmente ubriaca.

Quando uscii dal locale, immaginai che fossero le cinque di mattina, considerato il sole che, lentamente, macchiava il cielo con i suoi colori caldi.

Ero sola e sperduta in una città che, fino a qualche ora prima, pensavo di non aver mai visitato, con la voglia incontrollabile di picchiare e insultare i miei famigliari, colpevoli di avermi nascosto un particolare di così tanta rilevanza.

L'hanno fatto per il tuo bene, cercavo di convincermi, per ritrovare la calma, ma i miei tentativi sembravano essere inutile, in quanto nella mia mente non facevano altro che ripetersi una serie di insulti, che accrescevano la mia ira. Avevo percepito il cuore frammentarsi in pezzettini piccoli, difficili da incastrare al posto giusto.

Classificavo le loro azioni come dei tradimenti e sarebbero rimaste tali, anche guardandole da un'altra prospettiva; probabilmente volevano soltanto proteggermi, desideravano che fossi felice e che non patissi altro dolore, però, loro non aveva alcun diritto di mentirmi, stava a me decidere se abbandonarmi alla sofferenza o se lottare, come avevo imparato a fare nel corso della mia vita.

In quella maledetta casa aveva avuto luogo l'omicidio di mia madre e loro mi avevano mandato tra quelle mura con leggerezza, pensando che le loro bugie sarebbero rimaste nascoste. Passeggiare per i corridoi di quella casa non era facile, tutt'altro. Il mio subconscio era a conoscenza della verità e mi guidava verso di essa. In ogni stanza riuscivo a visionare dei ricordi, quasi come se li stessi vivendo in terza persona; erano sempre presenti, seppur apparissero sfocati e imprecisi. Non potevo attraversare nuovamente l'uscio di quella porta d'ingresso: il sol pensiero mi toglieva il fiato.

Continuai a camminare per quella strada, senza sapere dove stessi realmente andando, finché quattro uomini, all'apparenza ubriachi, mi si avvicinarono. Probabilmente, se fosse stata totalmente cosciente, avrei anche reagito, tuttavia, in quell'istante, con il corpo reso lento dall'alcool, non me ne curai. Era un'emozione che avevo già provato, quella del senso di vuoto che sentivo all'altezza del petto, non mi sembrava nemmeno di essere nel mio corpo.

Sentii la necessità di scappare via, di abbandonare la mia vita, cambiare identità e paese pur di scordare tutto. Eppure, quando i volti di Kate, Luke e... Dylan apparvero nella mia mente, la voglia di restare tornò a bussare nella mia testa. Ero combattuta. Potevo scegliere di percorrere il burrone, restando in equilibrio su un sottile filo rosso, oppure potevo abbandonare il gioco e tornare indietro. Non era da me arrendermi, ma forse, per una volta, avrei dovuto farlo. Probabilmente, in quella situazione, lasciarmi tutto alle spalle, senza mai tornare sui miei passi, sarebbe stata la scelta giusta per non ricommettere gli errori del passato e per rincorrere la felicità che tanto agognavo.

«Ciao bellezza, dove vai di bello?» Uno di quegli uomini mi rivolse un cenno e mi si affiancò.

Quando ascoltai la sua voce strascicata, i miei sensi si risvegliarono un po' e, rimproverandomi per non aver portato armi con me, inizia ad accelerare, fingendo di essere tranquilla. Sviluppare un corpo a corpo era controproducente, date le condizioni in cui ero e il numero dei miei avversari. La paura iniziò a insidiarsi nella mia mente, avvolgendomi come fa un boa con la sua vittima, però, feci appello alla mia freddezza e, nel tentativo di fuggire, svoltai in una strada, scoprendo di essere giunta in un vicolo cieco; un fottuto muro mi sbarrava la strada.

Mi voltai, li sentii ridacchiare e scambiarsi qualche battuta poco casta sul mio conto. Sospirai e, scacciando la paura, indossai la mia maschera d'impassibilità.

«Avanti, tesoro, ci divertiamo, te lo prometto.» Biascicò uno non appena mi fu di fronte, accarezzandomi una guancia. Scacciai la sua mano, schifata, e tentai di sfuggire alla loro presa, scostandomi e addossandomi al muro di mattoni.

«Non avete idea di chi io sia, vi consiglio di lasciarmi stare, immediatamente.» Minacciai in un sibilo, facendoli ridere.

Approfittando della loro distrazione, sferrai un pugno sul volto di uno di loro, tuttavia, fui presto afferrata da altri due che bloccarono i miei polsi contro il muro. Mentre il ferito si tamponava il naso da cui uscivano fiotti di sangue, sussurrando imprecazioni, tirai un calcio a quello rimasto, che tentava di abbassarmi il pantaloni. Cadde a terra, frignando, però il biondino colpito, tornò da me, sovrastandomi con la sua stazza e spingendo violentemente una mano sulla mia bocca per soffocare i miei lamenti. Continuavo a divincolarmi, senza mai mollare, mentre quei maniaci, ridevano allegramente, inconsci del guaio in cui si erano cacciati. Qualcosa di bagnato solcò le mie guance e mi accorsi di star piangendo.

«Che cazzo state facendo?» Domandò una voce che conoscevo fin troppo bene.

Sentii due spari, quelli che mi stavano tenendo ferma abbandonarono la loro presa, permettendomi di scivolare verso il suolo. Credo che li colpì in punti non mortali, ma abbastanza dolorosi, poiché avvertii le loro urla, seppur risultassero distanti alle mie orecchie.

Poggiai la testa sulle ginocchia e lasciai andare i singhiozzi, preoccupandomi solo di me stessa e del mio dolore, quello che non provi sulla pelle, ma che ti scava dentro, lacerandoti la mente e il cuore. Lo stesso contro cui non esistono cure.

«Shhh... ci sono io qui, è tutto finito.» Accarezzò i miei capelli, tentando di calmarmi.

«Dylan, non ce la faccio più, sono arrivata al culmine.» Sussurrai con voce rotta.

«Mathilde, non appena è rientrata, è corsa da tuo fratello e gli ha detto che tu sapevi la verità. È uscito subito, dicendo che ti doveva cercare e trovare. Katherine e io abbiamo ascoltato il racconto di Mathilde, poi abbiamo seguito l'esempio di Caleb.» Sussurrò, accarezzandomi la spalla. «Mi spiace Alexandra, seriamente.» Confessò.

Alzai la testa verso di lui, incontrai i suoi occhi color terra, ma non lessi compassione e ne fui felice, non era di quella che necessitavo. Nel suo sguardo vidi quel luccichio che brilla solo negli occhi di una persona innamorata, che cerca di alleviare il male che è stato fatto alla donna verso cui prova quel sentimento. Capivo quali fossero le sue emozioni, le nutrivo anch'io nei suoi confronti.

Forse non ero la sola a essere caduta nella trappola che era l'amore, forse entrambi ci eravamo cascati, senza rendercene conto e, quasi, quasi, non mi sembrava più così male.

Con te non ho pauraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora