Capitolo 19

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Il possente drago non c'era più, a terra c'era il corpo svenuto di una ragazza. Una ragazza qualunque, per l'appunto, non Ania Pierno. Il corpo riverso al suolo, il volto pallido e sudato, con le ciocche di capelli appiccicate al collo, le gambe scompostamente intrecciate, non era che un guscio vuoto.

Ania si trovò in piedi, accanto a quella che avrebbe dovuto essere lei. Si guardò con sincera curiosità, contemplandosi per la prima volta come si osserva un estraneo: era snella, fin troppo, le ginocchia leggermente ossute sembravano bucare i pantaloni. Era anche piuttosto graziosa, nonostante il suo aspetto in quel momento fosse scialbo e sbattuto. Scosse il capo: quando tutta quella storia fosse finita, si sarebbe concessa un lungo periodo lontano da tutto e tutti, avrebbe mangiato pane e cioccolata e bevuto vino bianco fresco come la neve.

Si volse verso i volti dei mezzosangue. Le parvero figure indistinte, ovali senza lineamenti, con luci scintillanti al posto degli occhi. Indietreggiò di qualche passo: non la spaventavano ma sentiva istintivamente l'inganno. In qualche maniera, aveva la certezza di non riuscire a vedere i volti perché le avevano mentito. I piedi toccavano il suolo, lo percepiva, anche se non era nel suo corpo, o forse era un'elaborata strategia della sua mente per conservarle lucidità. Arretrando lentamente, infatti, sentì le gambe sbattere leggermente contro una panchina. D'impulso vi salì sopra e si guardò attorno, cercando di avere una visione d'insieme: luci.

C'erano luci dappertutto. Piccole luci, occhi lontani, luci intense e abbaglianti, occhi vicini.

Verso ovest la luce era addirittura accecante: dovevano essere insieme, in tanti: il Conclave.

Doveva andarci. Senza corpo? Forse.

Seppe quello che doveva fare senza neppure pensarci: si voltò verso la luce intensa più vicina, in direzione del Conclave, chiuse gli occhi e decise di spostarsi. Riaprì gli occhi e si rese conto di avere un corpo. Un corpo molto diverso dal suo: robusto, possente e lento come la marea. Era un corpo maschile, quasi sicuramente più vecchio del suo: poteva vederlo dalla grana della pelle delle mani, che ora osservava affascinata.

«Ezio? Che fai? Invece di contemplarti le mani, muoviti!»

Una giovane donna dai capelli rossi. Ania le sorrise, rassicurante.

«Certo, eccomi, un attimo solo.»

Ezio, chiunque fosse, aveva una voce baritonale, leggermente stridula. Ania fissò lo sguardo verso la successiva luce, chiuse gli occhi e continuò il suo viaggio. Corse di corpo in corpo, adattandoli a sé come abiti, senza lasciare il ricordo di quell'attimo di vuoto, di quell'assenza di sé. Si rese conto di padroneggiare questo dono con naturalezza e, soprattutto, si rese conto che, da quando non aveva più il suo corpo, non sentiva più alcuna voce che tentasse di controllarla, di manipolarne il comportamento. Come se l'incorporeità l'avesse fatta uscire dal raggio di un radar.

Cercò di riflettere, per la prima volta, sulla natura di quella pulsione irresistibile che aveva provato, ascoltando la voce. Si rese conto che non era un comando imperativo quello che aveva sentito, ma una strisciante possessione: mentre Ania stava viaggiando nei corpi altrui, senza lasciar traccia del suo passaggio, l'entità che aveva preso possesso del suo corpo era un parassita, amava devastare la mente in cui entrava, amava sconvolgere e banchettare tra le rovine.

Non l'avrebbe permesso un'altra volta. Mai.

Dopo un tempo che le parve eterno, fu vicinissima all'accecante luminosità del Conclave e, dopo un istante ancora, fu dentro.

Era una donna, stavolta. Alta, molto più della media, e sottile, un corpo nervoso e scattante. Si trovavano in una sorta di aula magna, gremita di persone tese come corde di violino. Un basso brusio riempiva l'aria. Non diede nell'occhio, guardandosi attorno indagatrice: tutti loro lo facevano. A un tratto scorse Diego tra la folla; aveva l'aspetto trasandato e sconvolto. Scosse il capo come per scacciare una mosca – o un pensiero fastidioso – e continuò a guardarsi intorno.

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