XXXIX: L'assalto

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Havnen.

Le mura dal colore simile alla sabbia, le guglie dei palazzi più alti a svettare sul cielo terso, tagliandolo col loro biancore, e il mare nascosto dalla rada vegetazione di alberi da sughero e pini marittimi, di cui il rumore delle onde definiva una promessa di frescura e pace difficile a resistersi. Proprio lì, tra la sterpaglia e la calura, si erano ammassati i soldati, pari a una marea nera sulla terra arida e secca, assetata quanto loro.

Se Taron aveva sopportato il caldo umido del Laeiros pensando con una certa nostalgia ai giorni in cui viveva a Myrer, l'afa torrida in cui si trovava immerso gli stringeva la gola con prepotenza, portandolo a imprecare a bassa voce contro la terra maledetta su cui sorgeva la città. Come potesse essere stata costruita in un tale luogo e rimanere ricca e florida quanto la capitale sfuggiva alla sua comprensione, così come fosse possibile che continuasse a resistere, nonostante gli attacchi a cui era sottoposta da settimane.

"Fa un caldo maledetto" borbottò Litthard, avvicinandosi a lui. "Capisco solo ora perché Anees e Iliy volessero finirla da tempo."

Taron si voltò verso il secondo, che nel frattempo si stava tergendo il sudore colato sul viso arrossato. "Nel bene o nel male, stanotte sarà tutto finito" disse, osservando di nuovo le mura della città, composte da mattoni sconnessi che si arrampicavano gli uni sugli altri.

"Non mi piace." Litthard si infilò la pipa tra le labbra e guardò torvo l'ostacolo che ancora si parava davanti a loro. "Questo luogo, la città... non mi piace affatto."

Taron ignorò quel commento infausto, concentrato sulle catapulte e le baliste di Anees che, nelle settimane precedenti, avevano colpito giorno per giorno il perimetro della città non collegato al mare. Iliy, invece, si era occupato della conquista del porto, grande crocevia e perfetta via di fuga, considerata la propaggine di case e baracche che lo connettevano alla città. A nulla erano valsi gli ambasciatori mandati al Governatore, né le preghiere silenziose di evitare inutili spargimenti di sangue: Olaf non era uomo da cedere, soprattutto se messo in un angolo, tanto che aveva rifiutato e fatto serrare le porte, riempire i fossati e avvelenare i pozzi. Taron, oltretutto, era certo che avesse preparato i suoi uomini a combattere fino alle fine, come animali pronti a tutto pur di sopravvivere.

"Me lo sarei dovuto aspettare..." mormorò, socchiudendo gli occhi.

"Cosa?"

Il generale sospirò, mentre i ricordi si depositavano nella mente con la stessa placida calma dello scrosciare delle onde. "Mio padre era molto legato al Governatore di Havnen. Quando ancora vivevo a Myrer l'ha invitato più di una volta a trascorrere lunghi periodi alla nostra piccola corte."

Riusciva a vedere davanti a sé il faccione rubizzo dell'uomo, dalla pelle sempre scottata che solo gli uomini del Nord trapiantati in una terra simile potevano assumere. Quando lo prendeva sulle ginocchia, tra i rimproveri sottili di Ethel e le risate di Elias, gli suggeriva di chiamarlo solo Olaf e gli raccontava alcune delle sue imprese avvenute durante la rivolta, senza risparmiare i dettagli più scabrosi; Taron ricordava come gli occhi di un azzurro cristallino brillassero al ricordo dei tempi andati, così come la bocca nascosta da una folta barba scura tendesse a piegarsi in un sorriso nostalgico. Eppure, nonostante l'indole crudele mal nascosta, si era affezionato in fretta ad Olaf, come solo un bambino in cerca di affetto può fare.

"Che tipo di uomo è?"

Taron evitò di sospirare una seconda volta. "Uno che non patteggia" rispose, mentre riaffioravano frammenti del litigio che aveva rotto l'amicizia tra il padre e l'altro. "Stanotte combatterà in prima linea."

Litthard annuì preoccupato, evitando di aggiungere ulteriori commenti pessimisti.

"Attaccheremo con queste come ogni pomeriggio" ordinò intanto Taron, indicando con un cenno le macchine da guerra. "Appena cala il buio, invece, andiamo con le scale. La luna nuova e la bassa marea ci saranno amiche."

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