XVIII: Spicchi di cielo

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Nella foresta regnava il silenzio più assoluto.

Nives aveva osservato meravigliata come la foresta di betulle, olmi e querce fosse mutata in una fitta pineta, con alberi alti quanto le mura di Myrer e dai rami molli e ammassati gli uni sugli altri, tanto che le era risultato impossibile scorgere il profilo delle montagne come riferimento. Già da qualche giorno era stata costretta a procedere alla cieca, provando a orientarsi grazie alla posizione del sole che, quando non era coperto da una spessa coltre nuvolosa, faceva capolino tra i brandelli di cielo visibili sotto il velo dei rami. Talvolta riusciva solo a stabilire dove fosse l'est, l'Oltre, ma per tutto il resto della giornata procedeva a fatica e con estrema prudenza, nella speranza di non girare in tondo; l'idea di tornare per errore indietro la terrorizzava, sia perché sarebbe stata una prova smaccante dell'essersi persa, sia perché un passo falso avrebbe potuto spingerla tra le mani dei soldati di Everett. Non aveva la certezza che qualcuno fosse ancora sulle sue tracce, ma non aveva al contempo alcuna intenzione di confermarla o smentirla.

"Per fortuna oggi è meno nuvoloso..." pensò, alzando lo sguardo verso il cielo, di cui vedeva piccoli tasselli azzurri spuntare tra le cime degli alberi.

Inspirò a fondo, riempiendosi i polmoni dell'odore di resina e pino che costituivano il soffice tappeto scuro su cui camminava da giorni, e continuò la marcia con le briglie del cavallo in una mano. Nell'altra, invece, reggeva l'arco.

Nel momento in cui le erano rimasti solo tre miseri pezzi di carne secca, infatti, aveva deciso di riprovare a cacciare. Quand'era ancora nel querceto aveva sprecato un'ulteriore mezza giornata nel tentativo di acchiappare un corvo, ma, molte ore dopo, aveva stabilito che intestardirsi non l'avrebbe di certo aiutata a catturarne uno; dopo aver recuperato i dardi, si era quindi arrampicata su un albero per stabilire la sua posizione e provare a coprire qualche miglio prima del tramonto. Eppure, mentre scendeva aveva notato una piccola cavità nel legno: una tana di scoiattoli. Aveva subito rinunciato al progetto iniziale e, dopo aver scoperto che era vuota, era rimasta immobile, in attesa che un animale tornasse; non ci era voluto molto prima che ne comparisse uno, la coda morbida di un rosso cupo e il piccolo muso arricciato nel tentativo di capire se l'odore percepito fosse segnale di pericolo, ma lei era rimasta comunque ferma, mentre lui entrava e usciva dalla tana.

Quando alla fine si era avvicinato a lei, Nives aveva smesso di pensare.

Le mani erano scattate da sole e l'avevano afferrato, stringendolo. Aveva ignorato gli squittii disperati, i graffi sulle dita, la coda che le frustava il viso, e aveva stretto sempre più forte, con maggiore decisione. Nel momento in cui l'animale aveva smesso di muoversi era scesa dall'albero e ne aveva riposto la carcassa nella bisaccia, per poi tornare ad appostarsi sul ramo.

Ne aveva uccisi tre.

Scuoiarli era stato anche peggiore, col sangue a imbrattarle le mani e gli abiti, la pelliccia difficile da togliere e i freddi musi disperati che la osservavano. Mangiare qualcosa di caldo, però, aveva ripagato ogni lacrima ingoiata ed era stato capace di ridurre l'eco dei versi degli animali che ancora le rombava nelle orecchie.

Il giorno seguente aveva trovato una nuova fonte d'acqua e si era lavata le mani, strofinando via parte del sangue rappreso che imbrattava gli abiti lerci e pieni di fango. La ragazza dall'altra parte della superficie increspata del fiumicello l'aveva guardata con compassione, i capelli unti raccolti una treccia di fortuna e il viso impolverato e scavato dalle lacrime piante durante la notte.

L'aveva sciacquata via con un colpo secco e aveva ripreso il cammino.

Di scoiattoli, poi, ne aveva uccisi altri, ma da quando aveva messo piede nella pineta era stata costretta a razionare ancora una volta le già magre scorte. In compenso, gran parte della neve si era sciolta, cosa che le permetteva di trascorrere la notte accoccolata vicino al fuoco.

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