XV: Libertà

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Nives sentì uno scricchiolio.

Il palazzo era vecchio, pieno di servitori che sgusciavano come topi da un corridoio all'altro, e il legno dei pavimenti respirava, producendo cigolii con cui aveva imparato a convivere nel corso delle notti; se all'inizio aveva faticato a chiudere gli occhi, col passare del tempo si era abituata a un simile concerto, scoprendolo confortante.

Tuttavia, i rumori si ripetevano con cadenza, spazzando via gli ultimi frammenti del torpore in cui era caduta appena si era infilata sotto le coperte; avevano qualcosa di diverso, le parevano quasi dei passi tremanti, come quelli dei mostri di cui le narrava sua madre quand'era bambina. Socchiuse gli occhi, sicura che il buio avrebbe impedito a chiunque di vedere che era sveglia – fantasia o realtà che fosse. L'accolse, però, solo una profonda oscurità.

"Non c'è nemmeno uno spicchio di luna stanotte..."

Nives tese ancor di più l'orecchio e cercò di rendere più regolare il respiro che, minuto dopo minuto, diventava sempre più affannato; si sentiva osservata, e il silenzio improvviso in cui era calata la camera acuiva la sensazione terribile che le opprimeva il petto.

"È la tua immaginazione" si disse, serrando gli occhi e raggomitolandosi su se stessa com'era solita fare da piccola. "È solo la stanchezza. Calmati."

Inspirò a fondo e cercò di rilassarsi, cullata dai pensieri della giornata appena trascorsa; i Guardiani, infatti, erano stati clementi e avevano permesso alle benedette di riposarsi per qualche ora, lasciandole libere di parlare tra loro e di fare una lunga passeggiata per le vie delle Città Vecchia. Era da anni che non le capitava di sentirsi così leggera, nonostante le pesasse il pensiero della scelta di Everett.

Stava per lasciarsi scivolare di nuovo tra le braccia del sonno quando qualcuno le tappò la bocca con una mano, impedendole di urlare. Senza avere neppure il tempo di provare a mordere le dita che le premevano sulle labbra, Nives venne imbavagliata, bendata e sollevata di peso dal letto; rimase congelata anche mentre l'assalitore la portava via, aprendo con uno grugnito quello che dedusse essere il passaggio dietro l'arazzo.

"Sto per morire" pensò nel panico. "È il mutaforma."

Scossa da una simile idea, iniziò tirare calci e divincolarsi dalla presa in cui era intrappolata; riuscì a colpire l'assalitore alla schiena e a graffiargli le mani, il che le permise di liberarsi e cadere a terra, sbattendo però la testa sul pavimento. Rimase per un attimo senza fiato e bastò quell'esitazione perché l'altro le si appoggiasse sullo sterno, le legasse i polsi e, non pago, le bloccasse anche le caviglie, per poi risistemarla in spalla e tornare a camminare nei corridoi con nuovi grugniti e sbuffi.

Nives, intontita dal dolore che le pulsava appena sopra l'orecchio e dove era stata legata, prese a piangere in silenzio e a pregare gli dèi, lasciandosi trasportare senza più opporre alcuna resistenza. Non avrebbe voluto abbandonarsi alla disperazione, ma il terrore di finire la sua esistenza come un topo la schiacciava, impedendole di respirare e pensare ad altro che, nonostante tutto, voleva vivere. Iniziò a tremare, e il freddo le scivolò sulla pelle coperta solo dalla veste da notte.

Quando sentì un nuovo scricchiolio e il tonfo attutito di una porta che si chiudeva le lacrime scesero più copiose, accompagnate da nuovi tremori. Fu buttata su un materasso, che accolse il corpo in un ultimo e ancor più doloroso abbraccio; conscia che non sarebbe mai riuscita a salvarsi, sperò di riuscire almeno a vedere il volto del rapitore.

Il suo desiderio fu accontentato.

Con delicatezza, la benda che le copriva gli occhi fu sciolta, permettendole così di osservare il familiare ambiente in cui era stata trascinata. Quando incontrò lo sguardo di chi le era seduto davanti la paura assunse una sfumatura più primordiale, che la portò ad allontanarsi fino alla testata del letto, raggomitolando le gambe al petto; illuminato solo da un piccolo cerino che a malapena squarciava il buio della stanza, si trovava il signorino Taron.

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