III: Principio di tempesta

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All'interno del palazzo di Myrer esisteva un blocco di stanze in cui Taron cercava di non mettere mai piede: gli appartamenti del padre. Il timore che provava nei loro confronti risaliva a quando era ancora un piccolo scricciolo pelle e ossa capace solo di infilarsi nei guai, in quanto veniva convocato in quel luogo quando Elias si ricordava di avere un figlio a cui badare; lì era stato punito incalcolabili volte a suon di ceffoni, male parole e addirittura da calci. Nel malaugurato caso in cui avesse anche perso del sangue, Taron veniva costretto a pulire i pavimenti fino a quando non aveva le mani piagate.

Crescendo aveva imparato a evitare le ire del padre, o nascondendo le sue marachelle, oppure rintanandosi nei tanti corridoi segreti usati dalla servitù per muoversi tra le stanze del palazzo. Dal suo viaggio a Feluss, poi, le punizioni erano cessate, ma Taron faceva ancora fatica a pensare alla stanza senza che le mani non gli facessero male.

Al momento, oltretutto, il leggero timore che provava era acuito dal fatto che non riusciva a capire per quale motivo fosse stato convocato. Il paggio che l'aveva chiamato non gli aveva spiegato alcunché e il padre, dopo avergli aperto la porta, l'aveva condotto nello studio senza rivolgergli alcuna parola, per poi lasciarlo solo. Taron non aveva potuto far altro che attenderne il ritorno, lanciando occhiate rapide all'ambiente circostante in cui il disordine regnava sovrano: carte sparse in ogni angolo, libri aperti buttati a terra o impilati sugli scaffali che coprivano due delle pareti, coppe di vino abbandonate, tappeti sporchi di fango, ciocchi di legno accatastati in malo modo vicino al camino e negli angoli... neppure la scrivania era in ordine, coperta com'era da pergamene e inchiostro.

"Siediti pure."

Suo padre entrò nello studio a grandi passi con una caraffa in mano e gli indicò una sedia rovesciata a terra, che subito Taron si premurò di raccogliere e posizionare davanti alla scrivania. Rimase in silenzio anche quando l'uomo si versò del vino in una coppa, per poi sorseggiarlo con calma.

"Cosa sta facendo?" pensò Taron, mentre l'altro schioccava le labbra umide e riempiva di nuovo il calice. "Perché questa sceneggiata?"

Il Governatore, forse intuendo i pensieri del figlio, gli fece segno di stare zitto, per poi grattarsi la folta barba grigia che gli incorniciava il volto squadrato e segnato dal tempo. "Dèi, perché mi trovo in una situazione simile?" borbottò, abbandonando la coppa sul tavolo. Alzò lo sguardo su di lui, scrutandolo con quegli occhi scuri così simili ai suoi.

"Padre, perché mi avete convocato?" gli chiese, incapace di trattenersi oltre. Prima avessero affrontato l'oggetto della conversazione, prima avrebbe potuto tornare ai suoi doveri e abbandonare la stanza maledetta.

"Negli ultimi tempi ho sentito correre delle strane voci riguardanti delle tue abitudini... voci non proprio lusinghiere" gli rispose il Governatore. "Ho provato a parlarne con Blas, così da evitare a entrambi un confronto simile, ma noto con dispiacere che sei refrattario a qualsiasi buon consiglio."

Taron sospirò e fece per aprir bocca, ma l'uomo lo fulminò con lo sguardo, costringendolo a rimanere in silenzio. Se non altro, aveva compreso il motivo della convocazione.

"A questo punto, non mi resta che ordinarti in veste di tuo signore di non mettere più piede nella sede dei Guardiani" concluse il padre, incrociando le braccia sopra il ventre prominente. "E ora sei libero di andare. Non ho intenzione di ascoltare patetiche scuse."

"Ma..."

Il Governatore batté un pugno sul tavolo. "Cosa non comprendi delle mie parole?"

"Sono sorpreso che tu dia più peso alle malelingue che alle mie dichiarazioni o a quelle del mio servitore" replicò Taron con la mascella contratta. "Non vedo dove sia il peccato nell'andare nella biblioteca dei Guardiani."

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