𝐏𝐫𝐨𝐥𝐨𝐠𝐮𝐞

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GRAY L. CLOUD HOSPITAL
Inghilterra, Londra
18 Giugno 2009


Lo ricordava bene quel giorno, faceva freddo. L'aria gelida annunciava il fatidico arrivo dell'inverno, ed entrava dolcemente dalla finestra rotta di quell'ufficio senza far rumore. Stava diventando quasi insopportabile per l'uomo che sedeva alla scrivania, e lui odiava il freddo, tanto più se accompagnato dal suono snervante dell'orologio sulla parete.

Ma in realtà, la cosa che gli dava più fastidio era la calma con cui passavano i secondi, era il tempo inesorabile che correva senza aspettarlo, e gli sembrava incredibile come lo avessero ridotto gli anni passati a vagare tra i corridoi di quell'ospedale malconcio e deprimente.

Erano davvero molto rari gli attimi di quiete che si concedeva a lavoro, e fino a quel momento considerava il silenzio come una benedizione divina, ma stranamente quel giorno lo stava innervosendo a tal punto che, per un solo secondo, accarezzò l'idea di mandare tutto a puttane e sfasciare l'intero ospedale a mani nude.
Qualcosa lo rendeva irrequieto e nervoso, e probabilmente neanche la sua solita tisana alle erbe sarebbe riuscita a calmarlo.

Un grugnito di disapprovazione lasciò quindi le sue labbra rugose, ma non aveva la ben che minima voglia di dare credito a quegli stupidi pensieri. Così, per distrarsi, decise di mettersi a riordinare minuziosamente i fascicoli dei suoi pazienti, perché se c'era una cosa che sopportava anche meno del freddo, quello era il disordine, il caos, e ancora di più, il non avere le cose sotto controllo.

Quella sensazione lo mandava fuori di testa, e ormai erano mesi che non dava un'occhiata a quel cumulo di fogli.
Tra questi scorse nomi di persone di cui non ricordava nemmeno l'esistenza, persone morte o trasferite, neanche un dimesso, e quando arrivò finalmente agli ultimi fascicoli, per un attimo percepì il fiato bloccarsi in gola.

Tuttavia, non ebbe neanche il tempo di elaborare un pensiero, perché di colpo, il forte rumore dell'allarme lo distolse da qualsiasi altra preoccupazione, e lo costrinse inevitabilmente a voltarsi perplesso verso la porta d'ingresso.

Il vecchio corrugò la fronte e arricciò le labbra, visibilmente confuso, e per capirci di più decise di mandare al diavolo quei fogli e catapultarsi in tutta fretta fuori dal suo ufficio.
Non appena varcò la soglia, come volevasi dimostrare, uno degli infermieri che erano di turno gli si avvicinò con aria agitata, e la cosa non prometteva niente di buono.

«Robert, mi spieghi cosa diavolo sta succedendo?» Domandò l'uomo a denti stretti, assottigliando gli occhi con fare minaccioso. Se era scattato l'allarme, significava che la questione era ben più grave di quanto immaginasse, e al momento non aveva proprio il tempo di preoccuparsi di qualche altro paziente ribelle o casinista.

«Dottore, ehm...abbiamo avuto un problema, riguarda la camera numero 36, al secondo piano...» Gli bastò quella risposta per cancellare qualsiasi altra supposizione dalla sua mente, perché sbiancò all'improvviso, e senza aggiungere altro si fiondò immediatamente lungo le scale che conducevano alla sala centrale, l'unica parte dell'ospedale che ormai conosceva come le sue tasche.

Capì immediatamente tutto quanto quando finalmente arrivò davanti alla porta di quella stanza. Le due guardie incaricate di sorvegliarla si rivolsero uno sguardo preoccupato non appena lo videro arrivare come una furia, cosa che purtroppo non fece altro che confermare i sospetti dell'uomo.

«Li avete fatti scappare, vero?! Siete degli incompetenti! Aprite subito questa porta se non volete essere licenziati in tronco e portare una brutta notizia alle vostre patetiche famiglie!» Urlò infatti quest'ultimo, nero di rabbia.

Uno dei due idioti deglutì spaventato e obbedì all'ordine del dottore, sbloccando la serratura della porta. Così il vecchio lo scostò bruscamente, ed entrò nella stanza senza troppi complimenti, ma quando lo fece, la realtà lo colpì all'improvviso come un'ascia alla testa, e l'impatto fu così forte che per un attimo gli sembrò di impazzire.

L'uomo la vide ancora lì, inerme, seduta su quel letto logoro con addosso semplicemente una vestaglia bianca e rovinata. Con le braccia si stringeva il ventre, e fissava la finestra blindata senza muoversi di un millimetro.

L'aveva sentito entrare, sapeva che era lui e che aveva capito ogni cosa, ma per qualche strano motivo rimase immobile in quella posizione, non lo degnò neanche di uno sguardo, e la cosa lo fece ribollire di rabbia, perché la raggiunse infuriato a sole due falcate, fino ad afferrarle il volto e costringerla a guardarlo negli occhi.

Una scintilla di paura solcò improvvisamente quelle meravigliose iridi verdi, ma lei non cambiò espressione, né tantomeno si fece intimorire dalla sua presenza.

«Lui dov'è?» Sussurrò l'uomo con finta calma. Il suo respiro era irregolare, i suoi occhi spalancati e ardenti di odio e risentimento, se qualcuno non l'avesse fermato sicuramente sarebbe stato sul punto di compiere un omicidio.

«Lontano da te.» La risposta pacata della donna gli arrivò in faccia come uno schiaffo, e d'istinto strinse la presa, avvicinandosi di qualche passo.
Lei lo guardò impassibile, e lui, si avventò sul suo corpo.

𝐋'𝐔𝐎𝐌𝐎 𝐃𝐀𝐆𝐋𝐈 𝐎𝐂𝐂𝐇𝐈 𝐃𝐈 𝐍𝐄𝐁𝐁𝐈𝐀 | ✓Where stories live. Discover now