Capitolo 44

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Percorro in avanti ed indietro tutto il salone soffermandomi ad osservare ogni dettaglio dell'arredamento, pur di non pensare a quanto sia nervosa ed evitare che la mia mente si faccia viaggi mentali piuttosto spiacevoli, ma ogni mio tentativo sembra andare in fumo e non riesco a fare a meno di chiedermi perché, poco fa, nel cortile, Justin avesse l'aria tanto smarrita o come abbia passato il pomeriggio e i giorni precedenti.

Dio, chi voglio prendere in giro? Non solo mi mangerei le unghie, ma l'intero braccio per l'ansia che mi sta divorando subdolamente.

«Aspettavi da molto?» chiede Justin tornando nella grande sala in cui mi ha lasciata per cinque minuti, cinque interminabili minuti in compagnia del mio cervello che non ha fatto altro che pensare e ancora pensare.
«No, sono appena arrivata», mento ritenendo che questa versione sia molto meglio di quella in cui ammetto di aver passato le ultime tre ore seduta su un marciapiede nei pressi della sua abitazione come una barbona aspettando che tornasse; preferisco conservare quel briciolo di dignità che mi è rimasta.
Lui si limita ad annuire e di nuovo vedo il suo bel volto attraversato da quel senso di smarrimento. «Hai sete o fame? Vuoi che ti porti qualcosa?» indaga.

Come mai queste formalità adesso?

Scuoto leggermente la testa, «No, sto bene così. Grazie», altra bugia: metterei volentieri qualcosa sotto i denti, tuttavia non mi sembra il caso di dirglielo; sono venuta qui con lo scopo di parlargli e con un panino in bocca risulterei molto meno credibile come interlocutore.

Imbarazzo e tensione si susseguono nei momenti successivi, scanditi da un silenzio fin troppo assordante per le mie orecchie.

«Io...» ci ritroviamo a parlare all'unisono, creando, così, ulteriore imbarazzo.

«Prima tu», mi esorta Justin.
Mi ritrovo a mordere con forza una guancia e «Okay», sospiro.

Alzo lo sguardo verso di lui, in piedi di fronte a me, e finisco col perdermi nel colore caldo dei suoi occhi. Non so come, né perché, la mia mente si ritrova a fare un tuffo nel passato; è proprio qui che ci siamo dati il nostro primo bacio, mesi fa, quando ci siamo aperti l'uno all'altra per la prima volta: mi aveva parlato di suo padre, di quanto le persone temessero che diventasse come lui perché "il male genera male" e di come lui glielo lasciasse credere, perché almeno non avrebbe deluso le aspettative di nessuno ed io gli avevo raccontato di mia madre e dei suoi problemi con l'alcol ed era stato liberatorio, perché non lo avevo detto mai a nessuno fino ad allora.

Cerco di riporre quel ricordo e le sensazioni che mi suscita in un cassetto da riaprire in un secondo momento e caccio un respiro profondo per infondermi il coraggio necessario per dire quello che sto per dire:

«So di avere esagerato l'altra sera e ti capisco quando dici che io ho una fortuna che tu non hai, ma non è questo il punto... Il punto è che non puoi sparire per tre giorni per una discussione simile, anzi non puoi sparire per tre giorni per nessun motivo».

«Hai ragione».

«Non è così che...» mi convinco a interrompere il mio monologo proprio sul più bello e «Aspetta, che hai detto?» domando, non sicura di aver capito.
«Ho detto che mi dispiace, Cassie».

Oh.

Credevo che sarebbe stato più difficile e che avremmo finito col litigare lanciandoci addosso insulti e magari anche oggetti. Ero preparata a tutto, ma non ad una simile ammissione da parte sua, perciò resto in silenzio aspettando che sia lui a proseguire questa volta.

Justin si volta, dandomi, così, le spalle e massaggiandosi la nuca, poi lo vedo stringere i pugni lungo i fianchi. «Sono abituato a stare da solo, a contare solo su me stesso ed è difficile levarsi questa abitudine», asserisce, la voce incrinata. Riesco a scorgere quelle che è la sua parte vulnerabile, un lato di sé che tiene ben nascosto dietro la facciata da duro, ma che non lo rende affatto meno virile, non ai miei occhi.

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