Andiamo a Tevi?

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"Clelia, vuoi condividere con noi la tua esperienza?"
Mi alzo, incrocio le braccia. "Ciao a tutti, mi chiamo Clelia e ho vent'anni. Soffro di depressione da quando ne avevo undici, ne sto venendo fuori piano piano e grazie al sostegno di mio fratello Paolo. Sono stata un'autolesionista, ho tentato il suicidio ben tredici volte ma sono sempre riusciti a "salvarmi" in tempo. Mia madre si chiamava Alice, quando nacqui io aveva vent'anni e tutta una vita davanti, ma da dove veniva lei non si viveva molto a lungo. Quel paese non sembrava neanche vero, sembrava uscito da un romanzo e nemmeno ne ricordo il nome. Si è riappacificata con mio padre quando io avevo otto anni, dopo la morte della madre di Paolo, e quando io avevo dieci anni scoprì di essere malata di AIDS. Ho sempre visto mia madre come una roccia, un'eroina. È riuscita a crescermi da sola per otto lunghi anni, facendo i lavori più disparati tra cui anche la prostituta." Prendo un respiro profondo, si alza un leggero brusio come avevo sospettato. "Sicuramente starete pensando che poteva fare un qualsiasi lavoro ed evitare di fare la fine che ha fatto, ma io so che la disperazione porta a fare questo ed altro. L'ho persa che era estate, me lo ricordo perfettamente. Faceva caldissimo ma lei era sotto le coperte, la pelle bianchissima e ricoperta di ematomi, le vene in vista. Gli occhi erano contornati da occhiaie profonde e scure, il respiro era affaticato per via della bronchite che aveva contratto mesi prima insieme ad altre malattie. Io stavo seduta sul letto, vicino a lei... le strinsi la mano come ogni giorno da quando si era ammalata e mi disse che le dispiaceva molto non potermi stare vicino durante la mia crescita." La voce mi si incrina e scoppio a piangere, come ogni volta che ricordo come la sua mano attorno alla mia diventava sempre più fredda e sempre più stretta attorno per il rigor mortis. Sono rimasta lì, con lei che stringeva la mia mano, per due ore più o meno. Quel giorno ho avuto il mio primo attacco di panico. Il primo di una lunga serie.
Quando Paolo e papà tornarono dal pomeriggio di spese, rimasero tutti e due a bocca spalancata. Ci volle un po' ad entrambi (soprattutto a Giorgio) per assimilare la cosa, Paolo venne vicino a me, mi strinse la mano libera e senza dire una parola cercò con pazienza e delicatezza di sciogliere le mie mani da quelle di mia madre. Papà si stese vicino a lei, le toccò i capelli (che avevano perso il colore, erano diventati più ispidi e crespi) e le accarezzò una guancia, per poi percorrere con le dita il percorso che creavano le lentiggini sul naso e sugli zigomi. Versò una lacrima sola, mi chiese se avesse detto qualcosa rivolto a lui prima di morire ed io gli dissi di no; ci rimase male ma non me lo ha detto mai.
Mi siedo. "Grazie, Clelia." Mi applaudono qualche secondo e vorrei davvero rimanere a sentire ciò che hanno da dire gli altri, ma già lo so. C'è una ragazza che si tagliava per attirare l'attenzione, un uomo d'affari depresso per non aver trovato mai una donna "alla sua altezza", un ragazzo gay che ha tentato il suicidio poiché i suoi genitori non lo accettano, un'anoressica, una bulimica, storie tutte uguali... le trovo quasi insignificanti, non so perché. Sento come se nessuno riuscisse a capire a pieno il mio dolore.
Questo gruppo di sostegno lo frequento ormai da tre mesi, ma non mi ha aiutato per niente. Riportare a galla tutti i brutti ricordi che ho non mi fa sentire meglio.
Perciò mi alzo sotto lo sguardo inquisitorio di tutti ed esco dall'edificio, accendendomi una sigaretta.
Paolo si posiziona al mio fianco, come al solito, e mi prende la sigaretta che ho tra le dita buttandola per terra e schiacciandola col piede. "Non lascerò che tu ti uccida con quella merda, sorellina."
"Voglio andare a casa."
"Quello che mi fa incazzare è che non ci provi nemmeno. Sei tale e quale a tua madre."
Mi allontano di qualche passo con le mani che mi tremano, poi torno indietro e gli do uno spintone. "Quante volte devo dirti che mamma non me la devi toccare?! Sei il solito coglione!"
"Vorresti dire che non sei come lei?! Ti lamenti di tutto e non fai niente per risolvere la situazione! Invece che affrontare i problemi ti rifugi da me! Il passato lo vuoi mettere in una cassaforte e far finta che non faccia parte di te. Però, Clelia, tu sei questa grazie a ciò che ti è successo in questi vent'anni di vita. Rinnegando il passato rinneghi anche ciò che sei, sputi nel piatto in cui hai mangiato." All'inizio anche lui si incazza, ma parola dopo parola riacquista il senno e finisce con il farmi la solita morale.
"Quando capirai che io non volevo essere così sarà troppo tardi." Alzo gli occhi al cielo e mi dirigo verso la macchina, lui non mi segue. "Allora? Vuoi restare lì tutta la sera?"
"Ma zitta, che le chiavi ce le ho io." Apre la macchina e si siede al posto di guida, mentre io mi posiziono sul sedile del passeggero.
Non appena mette in moto, mi dice: "Tu per me sei perfetta così. Dovresti smetterla di pensare a come saresti se le cose fossero andate in un'altra maniera, perché le cose sono andate in questo modo e tu sei così (per il momento)." Mi lancia un'occhiata veloce mentre fa manovra, poi ricomincia: "Dovresti volerti un po' bene. Se vuoi ti insegno io, siccome 'sti gruppi non servono a un cazzo."
Gli sorrido e lui continua a guidare, questa volta in silenzio.
"Vuoi tornare a casa?" Mi chiede gentilmente.
"Per vedere Giorgio fare il fantasma? No grazie."
"Allora dimmi dove vuoi andare." Accosta e mette le quattro frecce, poi mi fissa aspettando che prenda una decisione.
"Portami dove porti le tue ragazze."
"Le mie ragazze non le porto da nessuna parte, faccio conoscere loro solo la mia camera da letto. Certo, se vuoi... sarebbe incesto, eh..."
"Coglione." Incrocio le braccia ed alzo gli occhi al cielo.
"Sai, Clelia? Stai migliorando. Ti alzi dal letto, non sei più magra come un chiodo, non stai più male come prima." Un piccolo sorriso aleggia sul suo volto. "La terapia funziona."
"Andiamo al cimitero, lasciamo un fiore ad Alice ed uno a Beatrice."
"Va bene, e poi?"
"Compriamo la pizza e la portiamo a casa."
Guida fino al cimitero, fuori da esso c'è un carretto che vende i fiori. "Avvoltoi." Commenta Paolo, quasi ringhiando.
"Calmati." Gli dico afferrandolo per il bicipite. Esagera spesso.
"Due rose, per favore." Il venditore ci guarda e neanche accenna a salutarci.
È un uomo sui cinquant'anni, rozzo e sciatto. Ma chi sono io per giudicare? "Salve, due rose per favore." Ribadisco, siccome non accenna a servirci.
"Da dove venite, ragazzini?" Chiede scontroso. "Me sa tanto che 'sta zona nfa pe' voi."
"Dacce 'ste rose e ba'." Interviene mio fratello, e il signore sorride divertito.
"Non vorrai mica che succeda qualcosa alla tua graziosa ragazza?" Chiede con un ghigno sul viso.
"Non la devi manco da guarda'! Pervertito der cazzo. 'Namo." Mi afferra per il polso e a passo svelto mi trascina verso la macchina.
"Questo non sa popo ncazzo de noi. Avemo er sangue de Tevi che ce score pe' le vene. 'O potrei ammazza' a mani nude e nessuno 'o troverebbe. Cazzone!" Comincia ad urlare non appena saliamo in macchina.
"Ma che cazzo dici, Pa'! Era solo un disgraziato. Te voleva istiga' e te j'hai dato la soddisfazione."
Paolo ha la miccia corta, si arrabbia facilmente ed allora comincia a sbraitare, rompere cose, oppure nel caso in cui litiga con qualcuno che non sia io, arriva alle mani. E non riesce a capire quando fermarsi, neanche quando comincia a vedere il sangue. Non so come faccia, non so da chi abbia preso... so solo che certe volte mi spaventa per le cose che dice e che fa. Mi ricordo che qualche anno fa, avevamo all'incirca quindici anni, si picchiò con un ragazzo - Federico - che era anche uno dei suoi amici più stretti.
Non so con precisione cosa scatenò il litigio, tirare fuori l'argomento è fuori discussione siccome non ho mai visto Giorgio arrabbiato come quel giorno. Federico spinse mio fratello con un sorriso strafottente sul viso, poi si girò verso di me e Giorgio divenne rosso dalla rabbia, caricò un pugno così forte che quell'idiota stava quasi per cadere. Gliene diede un altro e Federico cadde a terra, sputando sangue; si mise sopra di lui e continuò a tempestarlo di pugni. Il sopracciglio sanguinava, aveva entrambi gli occhi viola, gli zigomi gonfi ed il naso rotto.
Il suo volto era ricoperto di sangue, tumefatto, eppure Federico non aveva fatto niente per difendersi, non si era neanche dimenato mentre lo colpiva. Sembrava che pensasse di meritarlo.
"A che pensi, piccola?"
"I nomignoli non mi faranno dimenticare le cattiverie che hai detto."
"I nomignoli non li uso mica per questo." Alza gli occhi al cielo.
"Allora per cosa li usi?"
"Non lo so, mi vengono spontaneamente. Non ci penso neanche."

Apro la porta dell'appartamento, tutte le luci sono spente. "Papà si è alzato?" Domando a Paolo.
"No, mi ha chiesto se le spegnevo e l'ho fatto." Non rispondo, annuisco distrattamente ed entro nella sua stanza.
Accendo la luce e lo vedo rannicchiarsi di più sotto le coperte. "Papà? Abbiamo comprato la pizza, vieni a mangiare?" Quando parlo con lui tendo a tenere la voce bassa, perché pare che si spaventi per i suoni troppo forti, così come si spaventa per ogni cosa.
Non è stata una cosa graduale, la sua; il giorno prima lavorava, guidava, mangiava, parlava tranquillamente... il giorno dopo si era rintanato nella sua stanza e non era più uscito.
Raramente, una o due volte l'anno esce dal suo rifugio per qualche istante, e scambia qualche parola con noi, mangia, per poi ritornare al suo mutismo e alle sue fobie.
Io e Paolo accettiamo tutto questo tacitamente, ed ormai siamo autosufficienti. Lui ha imparato a lavorare e studiare contemporaneamente, mentre io ho lasciato il liceo appena raggiunti i sedici anni siccome non era un ambiente per me. Mi riprometto che quando avrò la possibilità prenderò quel pezzo di carta che a quanto pare è fondamentale per andare avanti nel mondo del lavoro.
Faccio anche io qualcosa per non lasciare che tutto gravi su mio fratello, però i miei impieghi non durano più di tre mesi.
Non abbiamo una vita normale, riusciamo a stento a pagare le bollette e mangiare. È capitato che una o due volte ci staccassero la luce, o il gas, addirittura l'acqua.
Mi viene un'idea malsana. "Paolo?" Richiamo la sua attenzione mentre sta apparecchiando.
"Eh." Non mi guarda, continuando a fare quello che sta facendo.
"Se traslocassimo?"
Sbuffa una risata. "Lo paghi tu l'affitto? Siccome comprare una casa è fuori discussione..." alza lo sguardo un attimo, prende una fetta di pizza e se la posa nel piatto. "Vieni a mangiare?"
Mi siedo, prendo anche io una fetta con un sorriso sghembo sul viso. "Cos'è questo sorrisetto furbo?"
"Se traslocassimo?" Ripeto, con maggiore enfasi.
Sbatte entrambe le mani sul tavolo, facendomi sobbalzare. "Dove cazzo vuoi andare? Non abbiamo una lira! Ti sembra tutto facile a te, n'è così? Ma non lo è Clelia! Cresci ed abbandona il mondo delle fiabe, che sarebbe pure l'ora!"
Stizzita, prendo un morso della mia pizza. Mastico e non proferisco parola per un bel po'. Quando, però, finiamo di mangiare e comincio a sparecchiare e lavare, ci riprovo.
"Pa'."
"Che voi!?"
"A Tevi. Forse, possiamo andare a Tevi." Paolo mi guarda ed un lampo gli attraversa lo sguardo, poi cammina velocemente fuori dalla cucina ed io lo seguo. "Lì sia Alice che Bea che Giorgio hanno una casa, bisogna solamente scegliere dove vogliamo andare... costa tutto meno, non sono neanche sicura si paghino le bollette e-"
Improvvisamente smette di camminare, si gira e mi guarda furente. "E cosa faresti per vivere? La puttana, come tua madre?"
Le sue parole sono taglienti come rasoi, e mi colpiscono dritte al cuore. Rimango immobile, di fronte alla figura imponente di mio fratello, boccheggio alla ricerca d'aria perché mi sento soffocare; comincio a vedere sfocato, a chiazze nere, strizzo gli occhi ma la situazione non sembra migliorare. Paolo mi parla, si avvicina a me, ma per ogni passo che fa nella mia direzione io ne faccio uno nella direzione opposta, allontanandomi da lui.
La testa mi pulsa, e sento la pelle formicolare, la sento staccarsi dallo scheletro e colarmi addosso come lava. Sento caldo, ma tremo.
Ed è questo il momento in cui, di solito, comincio ad urlare.
Questa volta però non viene fuori nessun suono, nonostante mi sforzi.
Mi sdraio a terra e mi chiudo a riccio, abbracciandomi le gambe.
E cosa faresti per vivere? La puttana, come tua madre?
E cosa faresti per vivere? La puttana, come tua madre?
E cosa faresti per vivere? La puttana, come tua madre?
E cosa faresti per vivere? La puttana, come tua madre?
E cosa faresti per vivere? La puttana, come tua madre?
La frase si ripete nella mia mente decine e decine di volte. A pronunciarla è stato mio fratello e non mi capacito di questo, è stata la cosa che mi ha fatto più male, è stata la cosa che mi sta facendo avere un attacco di panico.
Chiudo gli occhi e mi spengo.

Eravamo ReWhere stories live. Discover now