Devil may cry

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Beatrice era al sesto mese di gravidanza, quella notte stava peggio del solito. Si alzò dal letto e non fece in tempo ad arrivare in bagno che vomitò sul pavimento della sua camera da letto.
Cominciò a piangere non appena sentì il bambino agitarsi, scalciare dentro la sua pancia. Lanciò un urlo disperato, consapevole del fatto che nessuno l'avrebbe aiutata; era ancora china verso il pavimento con l'odore del vomito che impregnava l'aria e le faceva schifo. Uscì con fatica dalla stanza, tutte e due le mani sulla schiena mentre si trascinava verso la cucina.
Portava in grembo un maschio, l'aveva scoperto da poco. Durante l'ecografia aveva sentito il battito del bambino, l'aveva visto ed aveva osservato una sua manina spingere contro la sua pancia; per altre donne queste immagini sono commoventi, ma a lei non fece né caldo né freddo. Al suo fianco aveva Giorgio, con un sorriso di circostanza che le stringeva la mano, i suoi occhi verdi guardavano lo schermo assenti perché con la testa, lui, era altrove. Molto lontano da quella situazione e molto vicino ad Alice. Bea lo sapeva, lo sapeva da sempre e per questo odiava così tanto il bambino. Per questo voleva abortire.
Aveva entrambe le mani poggiate sulla base schiena per sorreggerla. Eppure nei film, nella realtà, si vedevano le mamme con una mano sulla schiena ed una sulla pancia: con quella sulla schiena cercavano di alleviare il proprio dolore e con quella sulla pancia cercavano di proteggere il bambino.
Si accasciò sul pavimento, pianse tutte le sue lacrime perché non si sentiva madre, non aveva il minimo istinto materno e non riusciva a capire cosa avesse di sbagliato. Stette per mezz'ora sul pavimento freddo, poi un conato di vomito arrivò e cercò di alzarsi il più velocemente possibile per raggiungere il bagno ma non ci riuscì. Si inginocchiò a due metri dalla porta di quest'ultimo e vomitò ancora; aveva un sapore disgustoso in bocca e l'odore quella volta era più forte, più acre, si sentiva quanto avesse bevuto la sera precedente.
"Giorgio!" Urlò il suo nome disperatamente, era l'unico che riusciva a farla calmare in quelle situazioni e che faceva andare via quei brutti pensieri che la sua mente malata le faceva avere. Non era più quella di una volta, la gravidanza sembrava che l'avesse fatta impazzire.
"Che schifo, che schifo, mi faccio schifo, faccio schifo." Sussurrava a se stessa. "Zitta!" Urlò all'improvviso. Mise le mani fra i suoi capelli, spingendoli all'indietro. Poggiò il sedere sui suoi talloni. "Shh... va tutto bene." Respirò lentamente, cercando di non avere l'ennesimo attacco di panico. Non appena fece un respiro più profondo percepì nuovamente il forte odore del vomito e le venne la nausea. Mise le mani sul pavimento, la schiena curva, la pancia che le toccava le cosce, i lunghi capelli biondi che le andarono davanti al viso e finirono sul vomito, le braccia le tremavano leggermente perché non erano in grado di sostenere il suo peso. Lanciò un altro urlo e col palmo delle mani sparse il vomito attorno a lei, gattonò verso la cucina perché i pensieri non la lasciavano in pace; sembrava che il suo cervello non andasse mai a dormire.
"Basta ti prego." Chissà chi implorava, quella ragazza, mentre cercava disperatamente di resistere ai suoi stessi istinti. Cominciò a dondolare, stringendo le ginocchia al suo petto - per quanto possibile fosse, vista la grandezza del suo ventre.
Nell'oscurità della casa scorse un luccichio, "Prendilo."  le disse una voce che sentiva solo lei. "Cosa?" Chiese.
"Prendi il coltello, Beatrice."
"No, ti prego."
"Prendilo. Starai meglio. Non vuoi?"
Cominciò a tremare dalla paura, come se le voci dentro la sua testa potessero ferirla davvero.
"Prendilo, Bea, non ti farai male."
"Bugiardo!" Urlò.
Nel buio vide un'ombra avvicinarsi a lei, correre da una parte all'altra della stanza, sentì il fiato di quella presenza sul suo collo e si immobilizzò. "Fallo."
Deglutì, la gola era diventata secca. Aprì la bocca per parlare, per rifiutare, ma era come bloccata. La lingua era cartavetrata ed il minimo movimento che le faceva fare le causava un dolore che sapeva non essere solo mentale. "No." Pronunciò a fatica, sentendo il sapore del sangue in bocca e lo sputò a terra. Vide il luccichio farsi sempre più vicino e sentì due enormi mani stringerle forte il collo, lasciandola senza fiato. "Aiuto!" Annaspò e, quello che doveva essere un urlo, era appena un sussurro. Il sangue continuava ad accumularsi nella sua bocca e le scivolava fuori dalle labbra lentamente insieme alla saliva.
Il luccichio si fece sempre più vicino e poi atterrò rumorosamente ai suoi piedi, e solo allora Beatrice realizzò cosa fosse: un coltello.
Ricominciò a respirare perché le mani l'avevano lasciata andare, nell'appartamento calò un silenzio che le mise i brividi; si sentì sola ed abbandonata. Fu allora che il bambino si mosse prepotentemente, per ricordarle che non era sola, per urlarle a modo suo: "Sono qui, mamma!".
Prese il coltello con la mano destra e passò l'indice sinistro sulla lama, tagliandosi.
"Fallo."
"Zitta. Non lo voglio fare." Si alzò e posò il coltello al suo posto, poi aprì uno sportello e tirò fuori una bottiglia di vodka piena per metà e il suo pacchetto di sigarette. Ne accese una col fornello e fece dei grandi tiri. Poi aprì velocemente la bottiglia e mandò giù due grandi sorsi del liquido trasparente: le guance cominciarono ad andarle a fuoco e fece una faccia disgustata per il bruciore alla gola.
"Se vuoi abortire non ti basta un po' di vodka e qualche sigaretta."
Fece finta di non sentire, bevve e fumò finché la testa non si fece pesante e le voci non andarono a dormire.
Erano più o meno le sei del mattino quando ebbe la forza di prendere il coltello; non riuscì però a far altro che portare la lama alla gola, stava per uccidersi quando la porta del suo appartamento si spalancò e dei passi familiari si diressero verso di lei.
"Beatrice che cazzo stai facendo?" Chiese Giorgio a bassa voce, cercando di non dare di matto.
"Stai fermo." Gli intimò. "Zitta, porca puttana, sto parlando io!" Sentì nuovamente delle mani stringerle il collo ma non si spaventò, del sangue le uscì dalla bocca sporcandole il pigiama bianco e Giorgio era immobile, spaventato, terrorizzato.
"Beatrice dammi il coltello, dai." Sentiva gli occhi bruciargli. "Non fare cazzate."
"Le cazzate le fai solo tu." Sorrise con i denti sporchi di sangue e le labbra più rosse del solito.
"Bea ma che dici?" Fece un pazzo verso di lei e lei spinse il coltello più vicino al suo collo. Sentiva il cuore martellarle nelle orecchie, ma non le interessava. Voleva smettere. Non ce la faceva più.
"Tu vuoi Alice, io lo so, lo sanno tutti." Disse lentamente. "Perciò io ammazzo me e tuo figlio così puoi andare da lei."
"Io voglio stare con te, permettimelo."
"Bugiardo!" Urlò e spostò la lama sulla sua pancia.
Giorgio sussultò. "Dammi il coltello."
"Tu non sai quello che passo in queste quattro mura, questa casa per me è una gabbia e non ho vie di uscita." Cominciò a piangere nuovamente, gli occhi le bruciavano dannatamente. "Poi ci sono queste voci che non mi lasciano stare ed io sono stanca. Vogliono che ammazzo il bambino." Fece una pausa. "Volete che ammazzo il bambino, vero?!" Urlò.
"Sì." Sentì in risposta.
Passò la lama del coltello appena sopra l'ombelico, spingendo il giusto e facendo uscire un bel po' di sangue.
Giorgio, che fino a quel momento era stato immobile ad osservare la sua pazzia, fece uno scatto ed afferrò il coltello per poi gettarlo lontano.
"Andiamo in ospedale." Le disse gentilmente e si avvicinò a lei, per aiutarla ad alzarsi, ma Beatrice si allontanò impaurita da lui mettendosi le mani sulle orecchie, pensando che anche Giorgio fosse una voce (ed un'ombra) dentro la sua testa.

Eravamo ReWhere stories live. Discover now