❧Parli ora o taccia per sempre.

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Avete presente la storia dell'angelo custode? Quella storiella del cazzo secondo la quale ognuno di noi ne ha uno che ci protegge e via discorrendo. Il mio è morto. Tempo fa, immagino.

"Mh? Allora esci da qui o vuoi restarci a vita?" chiese lui bloccando le porte che stavano per richiudersi. Senza dire niente scossi il capo e uscii da lì. Mi guidò verso una delle porte, la prima a destra, e la aprì. La stanza era tutta bianca, ma era a dir poco enorme. Era arredata in un modo molto semplice, ma aveva tutto ciò di cui c'era bisogno. Entrai senza aggiungere nulla e mi osservai intorno: il letto stava sulla destra, attaccato al muro e sulla parete laterale c'era una finestra che dava su un balcone. Affianco al letto c'era un comodino e a un paio di metri c'era la scrivania. Di fronte, sulla parete opposta, c'erano un enorme armadio, un mobile medio-alto su cui c'era poggiato un televisore e un'altra porta che dava probabilmente sul bagno della stanza.

"E così dovremmo convivere" disse, interrompendo i miei pensieri. Mi voltai verso di lui automaticamente e lo guardai appena. Abbassai subito lo sguardo, perché non riuscivo a reggere il suo.

"Penso che sarà davvero divertente... Almeno per me, sia chiaro" disse, indicandosi "ma chi lo sa, magari potremmo conoscerci meglio, mh?" e si avvicinò a me sempre di più.

"Ascolta, Seokjin" disse poi "adesso sei qui e non puoi tornare indietro, e sappi che qui comando io, ci siamo intesi?"

Annuii un paio di volte, ma non parlai, ancora una volta. Non riuscivo proprio a farlo. Ogni volta che provavo a dire qualcosa, le parole morivano in gola e alla fine mi limitavo ad annuire o a fare gesti.

"No, non hai capito" scosse il capo. Si avvicinò ulteriormente e mise una mano intorno alla mia mascella, facendo pressione e alzandomi il volto "non potrai continuare a non parlare a vita, questo è certo. Sono due anni che aspetto di sentire la tua voce, sai?" disse ridendo leggermente "due anni" ripeté "certo, all'inizio non mi interessava se tu parlassi o meno, ma adesso sono davvero molto curioso, quindi vedi di fare quello che ti dico, altrimenti, te lo ripeto, sarò costretto a farti parlare con la forza" lasciò la presa e mi spintonò. Ci mise talmente tanta forza da farmi cadere a terra.

Portai automaticamente una mano dove prima c'era la sua. Ogni volta che mi toccava, anche se non mi faceva del male, sentivo un dolore all'altezza dello stomaco, come se qualcuno mi stesse prendendo a pugni. Non ho mai capito il motivo per il quale fosse così violento nei miei confronti, penso che neanche lui lo sapesse: probabilmente ci provava gusto e basta. Bello schifo, insomma.

"Sta sera daremo una cena, quindi preparati" disse poi tornando serio.

Deglutii, forse troppo rumorosamente, perché si avvicinò nuovamente a me, calandosi alla mia altezza e avvicinandosi al mio orecchio.

"Sta sera parlerai, eccome se lo farai, altrimenti... Credimi, è meglio che non ti dica cosa potrebbe accaderti" quasi sussurrò, tanto che credevo che me lo fossi immaginato. Lo sentii ridere leggermente, quella risata mi diede i brividi, mi si accapponò la pelle.

"capito, Seokjin?" chiese poi. Odiavo quando pronunciava il mio nome, odiavo come marcava la S, come lo pronunciava con tanto astio, sputando quella parola quasi fosse veleno. Ancora una volta, mi limitai ad annuire. Quando mi resi conto che si era allontanato, tirai un sospiro di sollievo.

"Oh, quasi dimenticavo" disse, sulla soglia della porta "benvenuto, Seokjin" ridacchiò e poi sparì dietro l'angolo.

Un po' a fatica mi rialzai da terra e respirai profondamente. Aprii la finestra ed uscii a prendere una boccata d'aria. Quella situazione mi avrebbe ucciso, ne ero certo. Avrei dovuto parlare, altrimenti ne avrei subito le conseguenze. Perché voleva tanto sentire la mia voce, questo restava un mistero per me. Forse semplicemente perché, dopo quasi due anni di continue torture varie, non avevo mai neanche detto una parola né a lui né ai suoi amici e per lui era quasi un'offesa, immagino. Sì, voglio dire, ogni predatore vuole sentire la sua preda lanciare urla di dolore, altrimenti non si sente soddisfatto. E penso che quello che lui volesse fosse proprio questo: sentirsi soddisfatto... Ma io non volevo parlare. In quanti saremmo stati quella sera? Avrei dovuto parlare avanti a tutte quelle persone? Già odiavo parlare con mia madre o mia sorella, figurarsi con altra gente... Ma non avevo scelta: se non l'avessi fatto, cosa mi sarebbe aspettato? Non volevo davvero saperlo. Tutto ciò che riguardava quel ragazzo, per me, era profondamente inquietante. E ribadisco: a vederlo, in realtà, non metteva davvero tutta questa grande paura, ma era con me che era diverso: un attimo prima, lo vedevi con gli amici o con gli altri ragazzi della scuola che sorrideva e che sembrava un normale ragazzo, e quello dopo lo vedevi con me, con quello sguardo assassino, con gli occhi tanto scuri da sembrare neri e quella voce tanto calma, ma allo stesso tempo roca, che poteva graffiarti tanto da farti sanguinare. Non sapevo davvero come fare, era una situazione senza vie d'uscita, quella. La soluzione era una ed era, ahimé, obbligatoria: quella sera avrei dovuto fare del mio meglio per parlare.

Yuanfen [NamJin.]  Where stories live. Discover now