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Cerco di muovermi, ma il collo mi provoca una fitta di dolore come una leggera scarica elettrica. Me lo tasto piano con le dita e urto il gomito contro una parete di vetro. Ma dove sono? Questo non è un letto! Gambe rannicchiate al petto, braccia imprigionate sotto il peso del corpo, testa ripiegata in uno strano modo sopra il davanzale della finestra. Sollevo lo sguardo stropicciando gli occhi con le mani per mettere a fuoco e vedo solo le chiazze di una città appannata. No, non è la mia vista a tradirmi, ma il vetro della finestra, completamente bagnato. Non ci credo, è successo un’altra volta! Scosto leggermente la coperta patchwork che ho posata sulle spalle e mi alzo con uno scatto. Dò un’occhiata alla sveglia. Sono appena le otto e mezza, ma il letto di Alessandra è vuoto e già rifatto, con coperte e cuscini sistemati ordinatamente. Quattro notti. Sono esattamente quattro notti che rimango ad ascoltare la voce di Michael durante le prove del concerto e mi addormento sul davanzale. Come sempre sul comodino, accanto a quello che una volta doveva essere il mio letto, c’è una tazza di buon the caldo. Tiro un lungo respiro e bevo un sorso, assaporandone a fondo l’aroma. In una mattinata fredda come questa non c’è modo migliore di iniziare la giornata.
Sento qualcuno sgattaiolare da una stanza all’altra. Mi metto a ridere, ripongo in fretta la tazza sul comodino e mi lascio andare sul davanzale proprio nello stesso modo scomodo in cui mi sono svegliata qualche istante prima. Il linoleum scricchiola, poi silenzio, poi un altro scricchiolio. Ancora qualche secondo… Ci siamo.
“BOO!” grido girandomi di scatto.
La prima cosa che vedo è la faccia terrorizzata di Alessandra, poi mi arriva alle orecchie un urlo che squassa l’aria peggio di un fulmine a ciel sereno e infine una cuscinata. Nonostante abbia praticamente dichiarato guerra, non riesco a difendermi per le risate.
–Sei pazza?!?! Mi vuoi morta??– continua a gridare, in preda al panico, come se avesse appena visto un topo. –Non-lo-fare-mai-più! Capito?
-Okay, okay, buongiorno Ale.
Quando finalmente mi lascia avvicinare, le stampo un bacio di scuse sulla guancia.
-Buongiorno niente!– si lascia cadere sul letto. –E’ così che funziona? Io cerco di non fare rumore per farti dormire e tu mi spaventi a morte? Eh?
-Non lo faccio più, promesso, ma oggi è un giorno importantissimo, sono elettrizzata! 16 Luglio! Capisci? E’ oggi! Vedrò Michael in concerto proprio oggi!!!
Mi alzo in piedi sul letto e sfioro il basso soffitto con un dito, come se stesse a simboleggiare il livello del cielo.
-Hey hey hey, non dormi nel tuo letto ma spiegazzi tutte le coperte ugualmente. Quando deciderai di ritornare a dormirci come tutti i comuni mortali?– chiede ridendo.
-Oggi, subito dopo il concerto!
Cado sulle ginocchia con un tonfo, accompagnata da un rumore di molle.
–Ale, lascia perdere il letto. Stiamo per andare a vedere la persona che mi ha cambiato la vita.
Si copre gli occhi con il palmo di una mano.
–Oggi la vedo proprio dura… per me.
All’improvviso squilla il telefono. Alessandra si rigira lentamente su un fianco e risponde, mentre io continuo a sorseggiare il mio the. Chi può essere che telefona così presto?
-Pronto?– risponde con voce pacata. –Sì, certo. E’ per te– e mi passa la cornetta.
Sono proprio contenta di sentire mamma e papà. Nonostante sia a Londra, con il concerto che inizierà tra qualche ora e la testa piena di pensieri felici, non vedevo l’ora di chiacchierare un po’ con loro; mi manca la voce di mia madre che mi tira giù dal letto, il rumore dei pacchi di biscotti con cui armeggia ogni mattina, un suo bacio, un abbraccio di papà, la sua musica sempre accesa… la loro semplice presenza. Come sospettavo, non hanno chiamato solo per sapere come sto, cosa abbiamo fatto in questi giorni, come è il tempo e tutto il resto, ma soprattutto per sfilare con una nuova serie di raccomandazioni per stasera. Assurdo ma vero, quando sei via di casa ti manca anche questo: la loro preoccupazione. In fondo li posso capire perché è il mio primo concerto. Dopo circa dieci minuti di telefonata prometto loro che scriverò al più presto una lettera e li saluto con un po’ di rammarico. La telefonata, come sempre, si conclude con un “Ciao tesoro, ti vogliamo bene!”.
Quanto mi sento in colpa per avergli detto una stupida bugia.
–Rimorsi? Nostalgia? O tutti e due?– chiede in maniera innocente Alessandra, chiudendo la conversazione.
Mi giro su un fianco, posando la testa sul cuscino bianco immacolato. Ancora mi stupisco di come faccia a capire esattamente come mi sento da un mio solo sguardo perso nel vuoto. Non rispondo e sono convinta che a lei vada bene così, perché immagino che sappia già la risposta.
–Su dai, andiamo a fare colazione.
Spalanca le braccia ed io mi lascio avvolgere, allacciando le gambe intorno alla sua vita come un koala. Lei si alza a fatica. Questo semplice gesto mi ricorda quante volte mi ha trasportato in questo modo da un angolo all’altro della libreria per strapparmi un sorriso quando ero triste. E’ passato molto tempo da allora, ma l’età non ha cambiato il nostro spirito di bambine, come se sentissimo entrambe il bisogno di rievocare quei momenti.
–Guarda che non sei più una piuma come quando eri piccola!– esclama sarcastica.
Scoppio a ridere e in un attimo i pensieri tristi volano via.

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