Mi soffermo un attimo ad osservarlo: ha l'aria beata e sembra proprio un bambino, niente a che vedere con l'immagine del sedicenne freddo e rude che vuole dare a vedere. Gli sistemo bene la coperta, così che non finisca per prendere freddo e sgattaiolo al piano inferiore, sperando di trovare qualcosa da mettere sotto i denti, dato che il mio stomaco è solito brontolare per la fame quando mi sveglio e nemmeno oggi fa eccezione.

In fin dei conti la colazione è il pasto più importante della giornata, no?

«Buongiorno principessa», esclama mio padre, solare come non avevo avuto modo di vederlo da tempo, non appena varco la soglia del soggiorno. Mi stropiccio gli occhi lasciandomi andare ad uno sbadiglio, più simile a un ruggito degno del Re Leone che a un verso emesso da una ragazza, ancora mezza addormentata e dolorante a causa del ragazzo di un metro e ottantacinque che mi ha usato come cuscino per tutta la notte.
«Buongiorno...» sobbalzo, per poi bloccarmi sul posto quando, ridestata dal sonno, vedo che non siamo i soli nella stanza: un ragazzo dai capelli scuri e dai penetranti occhi di ghiaccio, -piuttosto attraente, oserei dire- è seduto davanti al bancone e mi sta fissando.
«Cassie, ti ricordi di Aaron? Eravate inseparabili da piccoli», spiega il più anziano facendo le presentazioni del caso, intuendo l'imbarazzo e la confusione che mi attraversano nel ritrovarmi uno sconosciuto in casa di prima mattina.
«Facevamo il bagno insieme», aggiunge il ragazzo sorridendo e mostrando, così, la sua dentatura perfetta. Improvvisamente qualcosa scatta in me e una serie di ricordi si fa spazio nella mia testa insieme all'immagine di un bambino un po' goffo e dalle guance paffute.
Tossisco più volte a disagio. «Ehm, sì...», mormoro mentre la mia mente fa un tuffo nel passato. «Ricordo vagamente», dico tagliando corto e cercando di cacciare via quei pensieri decisamente troppo imbarazzanti. Una cosa è certa: questo ragazzo non assomiglia affatto a quel ragazzino leggermente in sovrappeso con il quale passavo le mie giornate a giocare a nascondino.
«D'accordo, vado a prendere quegli attrezzi per tuo padre, torno subito», dice l'uomo lasciandoci soli, proprio nel momento meno opportuno, ma non senza prima lanciarmi un'occhiata che non riesco a decifrare.

Il silenzio piomba nella stanza, non appena papà si allontana, ed io inizio a giocare con alcune ciocche dei miei capelli per l'imbarazzo, ma poi, d'un tratto, Aaron prende per primo la parola. «Carino il tuo... pigiama?», commenta, inclinando la testa di lato con fare curioso e divertito: solo adesso mi rendo conto di avere indosso un pantaloncino bianco con fantasie floreali e una t-shirt viola abbinata con una stampa al centro che richiama il motivo dei pantaloni. Fantastico.

Promemoria: ricorda sempre di vestirti prima di fare colazione.

Normalmente non sono una ragazza che arrossisce facilmente, ma in questo caso non posso farne a meno. Mi mordo il labbro per la vergogna. «Ehm... Non credevo che ci fossero ospiti, scusa».
Lui sorride, «Cassie, è casa tua, non devi scusarti con me», mi rassicura.

Giusto, è casa mia -nonostante io mi senta solo un'ospite di passaggio-, perciò ho il diritto di mettermi addosso quello che voglio, no? No.

«Allora...», mi schiarisco la voce, dondolandomi sui talloni con le braccia dietro la schiena, «Sei cambiato tanto», affermo sincera. Eccome se lo è: non posso credere che quel bambino di dieci anni con cui ero solita passare i pomeriggi sia diventato l'affascinante giovane uomo che mi trovo ora davanti.

La pubertà ha dato i suoi frutti.

«Anche tu, adesso non porti più gli occhiali», commenta lui riferendosi all'occhio pigro che avevo da piccola.
«No, in effetti la mia vista è migliorata», gli sorrido. Per fortuna, perché odiavo quelle lenti: erano più grandi anche della mia faccia.

Un altro silenzio imbarazzante cade tra di noi. Ho già perso il conto di quanti ce ne siano stati. «Mi dispiace per tua madre», esordisce, poi, probabilmente non sapendo che altro dire.
Ed eccola qui, la frase che mi ripetono sempre. Adesso avrei di gran lunga preferito il silenzio imbarazzante.
Nella mia breve vita ho imparato che spesso le persone lo dicono solo per dovere, più difficilmente perché lo pensano davvero; in ambedue i casi detesto essere compatita come un cucciolo smarrito a causa di quella donna. Anche se Aaron mi sembra sincero, io comunque sto bene e non ho bisogno del suo dispiacere, né di quello di nessun altro.
Abbasso lo sguardo sui miei piedi, «Sì, anche a me...».
«Ma vedrai, adesso che sei qui le cose prenderanno una piega diversa, in meglio, ovviamente», dice, tentando di confortarmi; altra cosa di cui non ho bisogno.
Mi viene automatico roteare gli occhi a quella sua affermazione. «Già, è quello che dicono tutti», commento, senza rendermi subito conto dell'acidità del mio tono di voce, che mette visibilmente a disagio Aaron. Mi pento subito non di cosa ho detto ma del modo in cui l'ho fatto; non devo trattarlo in questa maniera, in fin dei conti non ha alcuna colpa e non ha senso prendersela con lui; cerca solo di essere educato, mentre io mi sto mostrando fin troppo ineducata e scontrosa.

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