Capitolo primo - L'imbrogliona

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Sarnus, dodici ore prima

«Uomo nero!» Il giocatore scoprì le sue carte gettandole sul tavolo con il senso scenico di un attore consumato. Il gesto gli scompose i vestiti troppo grandi per la sua taglia e gli spostò i baffi posticci sul volto, quei baffi che indossava sempre per sembrare un uomo ed essere ammesso nei circoli di giocatori di carte.

«Oh, che fortuna sfacciata!» Peppe il Fornaio calò il re di bastoni mostrandolo alla combriccola. «Non so quando finirà la tua buona stella, ma prima o poi dovrà accadere!» sbuffò, stanco di perdere soldi a quel gioco.

L'adolescente pelle ed ossa prese il suo bicchierino di anice e lo ingoiò tutto d'un sorso mentre teneva i baffi in equilibrio tra moccio e bava. Se fossero finiti nel liquore sarebbe stata una bella umiliazione e la fine del divertimento.

«Un altro giro?» chiese con la spavalderia tipica della gioventù. Ormai conosceva così bene i suoi avversari che poteva prevedere ogni loro mossa, perfino quando cercavano di barare e questo significava solo una cosa: soldi facili. Pregustava già la vittoria quando si sentì tirare per la giacca.

«Devi venire a casa. Subito!» Un moccioso se ne stava in piedi sotto il tavolo e guardava la scena con aria di rimprovero. «La mamma ti cerca» concluse, anticipando ogni tentativo di ribellione.

«Scusate, ora devo andare» disse, mentre rastrellava le sue vincite dal tavolo da gioco tra le proteste generali di chi voleva la rivincita. Per quel giorno non avrebbero riavuto indietro i loro soldi. Accennò un sorriso per scusarsi e seguì il bambino fuori dal locale.

«Se la mamma sapesse che cosa fai invece di studiare, le verrebbe un colpo!»

«Ma tu fratellino manterrai il segreto, quindi non c'è possibilità che lo scopra!» rispose allungandogli una moneta d'argento. Edo sapeva essere una tomba quando aveva la giusta motivazione. «Il fatto che la mamma viva a lungo e felice dipende da te». Gli diede un buffetto complice sulla guancia coperta di lentiggini. Suo fratello aveva dieci anni ed era ancora rotondo come la maggior parte dei bambini della sua età. Questo, insieme ai capelli rossi lo rendeva adorabile.

I due uscirono dal vicolo in cui se ne stava appollaiata la taverna e si ritrovarono sulla strada maestra per Sarnus, proprio davanti alla porta del paese. Il castrum si ergeva dietro tre cinte di possenti mura che, si raccontava, fossero state costruite dalle fate in una sola notte.

«Passiamo di qua!» strattonò il bambino impedendogli di attraversare l'arco e svoltò a sinistra per la Via degli Orti. Li ci sarebbero stati meno occhi curiosi ad osservarli.

Il sole calante tingeva di rosso i tetti e gli orti che si sfidavano l'uno con l'altro mettendo in mostra le piante rigogliose e i frutti più colorati dietro ad alti muretti. L'adolescente si nascose proprio dietro ad uno di quei muri di pietra e si tolse i finti baffi e la vecchia giacca consumata che aveva rubato al nonno; quindi, si sfilò il cappello liberando una folta chioma di ricci rossi come il tramonto.

«Puzzi di anice e tabacco! La mamma capirà tutto Sibilla!»

La ragazza, perché di questo si trattava, si passò le dita tra i lunghi capelli rossi e li districò cercando di domare i ricci ribelli.

«Allora dovremo darle qualcosa di più importante di cui preoccuparsi» rispose ammiccando. Tolta la giacca, sfilò i pantaloni lasciando che la sottoveste di lino bianco le ricadesse sulle ginocchia.

«Oh mio Dio!» Edo si coprì gli occhi con una mano e si voltò dall'altra parte.

Sibilla si piegò a terra, infilò una mano dietro l'edera che ricopriva il muretto e ne sfilò un fagotto. In men che non si dica era rivestita di tutto punto: veste di lana e cappotto di feltro grigio come tutte le novizie della Schola. Solo i suoi capelli non ne volevano sapere di stare al loro posto.

«Andiamo» disse quando fu pronta, incamminandosi per la ripida salita che fiancheggiava gli orti. Non avrebbero impiegato più di cinque minuti ad arrivare a casa da lì. Sarnus non era una città, come Dogana o Orbinum nel nord, ma un paesotto in cui non c'era poi molto da vedere.

***

Quasi tutti i giardini delle case nobili di Sarnus erano protetti da alte mura, così anche quello dei Biancofiore nascondeva i suoi tesori ai passanti e ai curiosi. Solo i rami spogli di un albero di cachi facevano capolino dal giardino e mostravano i loro frutti succosi a chi passava per la via.

«Di qua!» Edo le fece un cenno e senza aspettare la sua risposta girò su una stradina sterrata che correva intorno al muro e si infilò sotto ad una rosa rampicante. Un cancello arrugginito dava accesso al lato più nascosto del giardino, quello in cui non andava mai nessuno, ma proprio nessuno! Lì crescevano le rose canine con i loro cespugli selvaggi. I due si fecero strada nella selva umida, attenti a non strapparsi i vestiti e in pochi minuti uscirono alla luce dell'ultimo sole i cui raggi erano quasi scomparsi al di là del muro di cinta. Sibilla trasalì alla vista delle persone che, ignare della sua presenza, formavano dei capannelli sul prato davanti a casa sua. Alcuni di loro credeva di riconoscerli, lontani parenti o amici dei suoi genitori, altri erano vicini. Sembravano tutti impegnati in una discussione accesa su qualcosa di molto segreto perché parlavano a voce bassa, coprendosi la bocca con una mano come chi vuole nascondere qualcosa.

«Oh, oh!» sentì Edo esclamare. «Non penso sia una festa!»

«No, non credo fratellino» rispose lei, incerta se muovere un altro passo e andare incontro a quella piccola folla o tornare indietro da dove era arrivata. Proprio in quel momento sua sorella Mia uscì dalla porta e li vide, nascosti dalle ombre. Il suo braccio si alzò lentamente e il suo dito grassottello puntò verso di loro con fare accusatorio.

«Mamma, mamma, Sibilla è tornata, è tornata!» La vocina squillante della bambina ebbe lo stesso effetto di un sasso gettato in un cespuglio di rovi al tramonto, quando ormai gli uccelli che hanno nidificato tra i suoi rami sono profondamente addormentati: tutti si girarono all'unisono nella direzione indicata dalla bambina. Mia era la sorella gemella di Edo, una bambina tutti capelli rossi e lentiggini, ma a parte questo la somiglianza finiva lì, per il resto era il ritratto di sua madre: petulante, importuna e sempre pronta a fare la spia se questo le faceva guadagnare punti.

«Più tardi io e te faremo i conti!» Sibilla mimò un gesto brusco con la mano, fendendo l'aria all'altezza del proprio collo con una promessa silenziosa: "Sei morta stronzetta".

Mia tirò su con il naso, gli occhi già pieni di lacrime pronte a sgorgare al suo comando come un fiume in piena, si tirò su le gonne, girò sui tacchi e corse dentro casa frignando «Mamma! Mamma!»

Sibilla alzò gli occhi al cielo e si avviò verso la porta a passo deciso, pronta ad affrontare la sfuriata che le sarebbe toccata da lì a pochi istanti.

Anche nel soggiorno vicini e parenti avevano occupato ogni spazio libero e bisbigliavano a bassa voce come ad una veglia funebre. La ragazzina stava per chiedersi chi fosse morto quando un uomo anziano si alzò dal divano e si voltò verso di lei. 

«Tu devi essere Sibilla!» disse aprendo le braccia come per abbracciarla. «Non ci siamo mai incontrati, è un peccato doverlo fare in queste circostanze» proseguì, andandole incontro. 

Per qualche motivo che non sapeva spiegare la sua gentilezza le sembrò falsa. Dietro di lui sua madre la guardava a braccia conserte, rigida come il manico di una scopa. 

"Questa cosa non promette niente di buono", pensò, sforzandosi di sorridere.

Sibilla e le leggende della MarcaWhere stories live. Discover now