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Sogna che tutto sia troppo complicato e distante. Che sfugga dalle dita, nell'ultimo istante, e poi di crollare, di cadere, di attraversare altezze che sono montagne e mondi interi, universi, e correre, correre in una notte che non si lascia sorpassare.

Sogna di perdere ogni forza e sentire le ginocchia sbattere sulle pietre. Sanguina, nel sogno, ma non ha importanza, perché non ha più corpo e non ha più nulla, se non occhi, se non paura.

E dagli occhi cola qualcosa che non è acqua, non sono lacrime umane, ma è nero, è un veleno che può solo coprire ogni cosa intorno, ogni persona, ogni tentativo, ogni fuga che, sciocco, idiota, aveva tentato di rubare a chi lo meritava.

Lui, invece, non merita. Non può. Non ha. Non è.

Non sa.

E sanguina, e piange, e urla. Poi, si sveglia.

Il passaggio è improvviso, ma lui non ha reazioni. Sta seduto sul letto, e neppure sta respirando. Lo fa solo davanti agli altri, e a volte, se corre, se è stanco, ma spesso smette e resta del tutto immobile, come fosse un rettile, senza sbattere più le palpebre, perché cosa diamine ci fa lì, lui, su un letto, in una cabina di una nave, in viaggio, con gli altri, cosa ci fa lui in quel posto, con quella gente, a sognare di perderli, come se importasse, come se non fosse già un incubo svegliarsi e poi tornare a dormire, e per quale ragione ha dormito, poi, se in fondo succede sempre di star così, dopo.

Lui non può che provare a prendere aria un momento, riempire i polmoni che, sì, possiede, perché ci sono, stanno lì nel petto, li sente, lo sa, ne è certo. Anche Zhongli lo ha detto: ci sono. C'è tutto. Il suo corpo è identico a quello di una persona, non manca niente. La differenza è che tutto è... finto, è diverso, è decorativo, o meglio, è un problema, è solo un limite. Potrebbe non averli, i polmoni. Funzionerebbe comunque. Potrebbe aprirsi la carne, adesso, con le unghie, e strapparsi quella roba che non serve a niente, e lanciarla via sul ponte, e ridere, e volare su quegli umani inutili e mostrar loro che lui non è un umano, è un dio, è diverso, è più forte, e allora perché è su quel letto a piangere da solo, ora, per un incubo, come fosse un bambino, uno stupido bambino umano che perde liquido dagli occhi, patetico, debole, triste... perché non fugge? Perché si è lasciato addomesticare? Perché è rimasto?

Piano. Un momento.

Respira.

L'ossigeno lo calma, in realtà. Non sa come mai. Il cibo, per esempio, è lo stesso: lo zucchero gli dona una felicità così sintetica, così bella e veloce. Così facile. Chissà se vale anche per gli umani, quel sentirsi carichi e vivi. Forse non come per lui, che già potrebbe correre per anni senza un morso di nulla, e invece se ingoia zucchero si carica, e forse quindi non dovrebbe.

Piano. Ancora un po'.

Era solo un sogno. Soltanto un sogno.

Quel tempo è finito. Ora la vita è un'altra. Ora c'è Nahida. Si posa una mano sul petto, cerca il cuore; c'è anche quello, sì. E quello batte, testardo, e chissà se può restar fermo, e per quanto. Per adesso, è velocissimo.

Ma ci sta provando. Sta provando a non ritrovarsi più in questo stato. Sta tentando di non essere solo. Sta facendo del suo meglio, perché qualcuno rimanga e gli tenga la mano.

Ma non c'è nessuno. E sarà sempre più difficile fingersi come loro. Più accetterà quelle corde, e più sarà probabile che scoprano quanto gli fa male... tutto. E allora come potrà esser preso sul serio? Come potrebbero voler rimanere? Come farà, a essere amato dagli umani, se lo vedranno così, già distrutto appena sveglio?

No. Ancora. Respira, respira.

Chiude gli occhi e torna al cuore. Lo ascolta. E respira.

Sta stringendo il pugno troppo forte. Sanguina. Se ne accorge e smette, fissa la sua mano che sta bagnando di rosso il letto. Ops. Ma quello lo sveglia abbastanza, e finalmente si alza.

Ha fatto tardi; fuori c'è già il sole alto, e almeno non dovrà attendere prima di poter fare una doccia. Fa schifo; si sente sudato, gli occhi sono pesanti, la stoffa dei pantaloni si è appiccicata alle gambe, i capelli alla fronte. La mano è appiccicosa, brucia. Le labbra sono secche.

Vien fuori dalla cabina come un serpente, trascinando i piedi sul legno, e sperando di non incontrarli, di non mostrar loro un aspetto così tristemente umano, così poco regale. Ha sete, fa caldo, tutto è disgustoso e si sente stanchissimo.

Mentre cammina, si scherma gli occhi con la mano ancora sporca di rosso, e il sangue finisce sulla fronte. Ma li vede comunque: Layla è con uno dei marinai, non ne ricorda il nome, ma è quello che sta in cima e osserva l'orizzonte. Adesso è sotto, con lei, e stanno insieme a guardare il mare, sul ponte. Li vede di spalle. Lui le indica qualcosa, lei annuisce e ride.

Forse, passa qualche secondo. Forse un minuto, forse un'ora o un anno. Kuni non saprebbe dirlo. Abbassa la mano, e il sole va negli occhi e fa male, più di prima, però ora non importa.

Ovviamente ci sarà una spiegazione molto semplice a questa scena. Ovviamente non dovrà in alcun modo lanciarglisi contro e gettarlo in acqua, o mozzargli di netto la testa. Non sarebbe adeguato al suo nuovo ruolo, no. Non è il caso. E Nahida non sarebbe felice di saperlo, poi. Sarebbe meglio fare la doccia come programmato e scordarsene. Di tutto. Di quel viaggio del cazzo, di quegli umani, e di tutto. Di... tutto, sì.

Ci sarà sicuramente un motivo sensato e molto comprensibile.

E poi che cosa dovrebbe importargliene, comunque?

Del resto, lui non c'entra niente con lei.

Non aveva deciso così?

Cosa aveva deciso?

Aveva deciso qualcosa?

No, probabilmente non aveva deciso nulla.

Be', magari sarebbe il momento di farlo, ecco, prima di nutrirsi del cuore di quel verme. Giusto per avere una spiegazione pronta, quando lo processeranno.

No. No, la doccia. La doccia.

Fa un passo indietro, incerto, poi accetta di voltarsi e di andar via. Si rigira prima di entrare in bagno, per un secondo, e quelli sono ancora lì, come pochi secondi fa, e allora lui entra in bagno e va a sbattere contro un lato della porta, per sbaglio, e purtroppo nonostante tutto il dolore lo avverte, ma non dice niente e insomma, quella giornata non è iniziata nel migliore dei modi, bisognerà ammetterlo.

Ma è come lo zucchero, in un certo senso. Però al contrario.

Rimane sotto il getto ghiacciato per un sacco. Rischia di diventare blu. Annaspa sotto l'acqua che si punta in faccia, la beve, vi annega.

Tanto, di respirare non c'è bisogno, giusto? Allora muori, imbecille. Riempiti d'acqua e muori, adesso, e piantala di farmi del male. Non voglio. Basta.

Sarebbe possibile uccidersi in quel modo? Nella doccia?

Pare di no, perché poi sputa e non annega.

Comunque, il cuore sta correndo ed è... strano? Bello? Orribile? Ma è... vivo. Una sensazione incredibile. Un sentimento. Qualcosa. Boh?

Ride, da solo, ancora sotto l'acqua al massimo. Oh, potrebbe piacergli. Come si chiama? Gelosia? Wow.

Magari lo sta facendo apposta. Forse è un piano contro di lui. Perché adesso non potrebbe evitare di volerla. Adesso è sua. Ora che...

No, no, no, no, aspetta. Piano. Non si può esagerare, o manderai tutto in aria.

Ma non sa come. Cioè. Senza versare del sangue. Senza poter agire come preferisce. Senza eliminare del tutto l'altro. Come può vincere? E deve?

No, così è un delirio. Insomma, deve venir fuori dalla doccia. E in qualche modo deve... provare a... dirlo? Nah...

Oh, non ne ha idea. Potrebbe chiedere a Kazuha.

Ancora lì, stringe i pugni, sanguina di nuovo dalla stessa mano, e tra espressioni determinate e disperate, nudo, ormai quasi blu, prova a capire, un pensiero alla volta, con calma.

Quando si decide ad asciugarsi, è passata un'ora. Sul ponte non c'è più nessuno.

Torna in cabina a vestirsi, ancora con le guance in fiamme, commosso da quel che sente, da ciò che sta provando, perché è nuovo e così forte. Nessuno potrebbe capire, e non tenterebbe di spiegarlo a nessuno, ma non fa niente. 

House of MemoriesWhere stories live. Discover now