Capitolo 32

2.6K 130 16
                                    


DANTE

«Vuoi davvero parlarne adesso?», sondo il campo, passando un braccio attorno alla sua schiena. Il tocco leggero delle mie dita sulla sua pelle è come una scossa costante per lei.
«Dobbiamo affrontare l'argomento, Di. Per quanto io tema di conoscere elementi della storia che potrebbero farmi vedere le persone che amo sotto un'altra prospettiva, ho bisogno della verità».
Ho paura che lei possa stare male. Non si è ancora del tutto ripresa. Insomma, solo poche ore prima dormiva profondamente. La sua vita era in bilico. Mentre adesso, mi chiedo solo se sia forte abbastanza da reggere il peso abnorme di ogni singola parola che potrei pronunciare.
La verità è che ho paura che alla fine lei possa arrivare a odiarmi. Perché non è solo il passato a preoccuparmi. Il pensiero di averle mentito e di dovere continuare ancora a farlo per proteggerla, mi soffoca.
Mi sento un vero coglione. Per averla conosciuta, per essermi avvicinato così tanto a lei, per avere fatto in modo che si fidasse di me, per averle mentito.
«Di?»
A quanto pare non riesco a smettere di pensare ai "e se". Ho sbagliato. Non c'è un altro modo per dirlo. Inutile girarci intorno. Ho sbagliato e adesso dovrò pagarne le conseguenze. Ma se c'è una cosa che le devo, è la verità.
Mi prendo la sua bocca. La mia lingua spinge contro il suo labbro carnoso e quando lei ricambia, ci baciamo a lungo, in modo eloquente, mettendo in pausa ogni parola, dando solo spazio al bisogno.
Le mie dita risalgono lente fino alla nuca. Afferrandola e tenendo immobile il suo viso tra i miei palmi, esploro la sua bocca facendole emettere deboli gemiti che hanno il potere di una detonazione dentro di me. La mia mano si sposta tra i suoi capelli morbidi. Esercitando una certa forza, la costringo a inclinare la testa, a esporre la gola, che bacio ed esploro con la lingua.
Lei adagia le mani sul mio petto facendo pressione per ostacolarmi. «Ho paura che se non mi parli, tu possa esplodere e fare qualcosa di estremamente pericoloso, Di», ansima, bocca contro bocca. Non sembra avere alcuna intenzione di smettere di ricevere i miei baci, le mie attenzioni. «Ho bisogno di conoscere i tuoi piani, sapere che non farai niente di avventato. Che non mi lascerai», mugola trattenendomi per il viso.
«Credi che li risparmierò dopo quello che ti hanno fatto?», domando aspro. «Sono fortunati che non abbia ancora messo in moto tutte le idee di tortura che mi sono venute mentre non eri cosciente».
Si aggrappa a me. «Non fare niente di azzardato o folle di cui potresti pentirti, Di. Ti conosco da sapere che tieni dentro qualsiasi torto subito. Non solo. Porti il rancore come si porta un mantello. Tu vuoi ottenere giustizia, ma non puoi di certo...»
Le tappo la bocca. Stringo le dita sulla sua cute e la sento sussultare, ansimare e muovere di riflesso i fianchi, protendendo il corpo in avanti.
Ho una terribile erezione sin da quando mi ha urlato e minacciato standosene lì in piedi, con quella vestaglia che indossa e che non lascia niente all'immaginazione. Ero anche lì lì per dare un cazzotto in faccia a Terrence per il modo in cui stava sbavando. Sono riuscito a trattenermi solo grazie alla furia balenata nei suoi occhi.
Questa ragazza riesce a farmi uscire fuori di testa. Il suo corpo, è una dannata distrazione.
La fame che sento, mi strizza il cuore, ma sono costretto a tenere a freno ogni istinto di avvicinarmi ulteriormente, di annusarla ancora come un tossico, di percepire il suo fiato caldo sulla pelle, di tenere lo sguardo fisso nel suo e di assaporare il suo sapore. Reprimo qualsiasi impulso perché è ancora debole, perché stiamo discutendo, perché non posso saltarle addosso e spaventarla. Quello che voglio, è vivere un momento tranquillo per accumulare ricordi di noi, di ciò che siamo davvero, senza le maschere, senza alcuna armatura. Pieni di segni, di cicatrici nascoste, di paure sedate sotto strati di coraggio.
«Parlarmi».
«Sicura di volere rischiare? Mio padre non perdona i traditori». Sto temporeggiando come un codardo. So bene che niente le impedirà di andare fino in fondo.
«Neanche suo figlio?», domanda come se avesse già unito i puntini.
Conosco abbastanza bene mio padre. So quello che fa. Lui rovina tutto. È in grado di devastare ogni cosa bella solo per il gusto di vederti soffrire. Per puro sadismo. Perché se lui non è felice, non puoi esserlo neanche tu.
«Specialmente suo figlio, uccellino. Ho intenzione di mandarlo in pensione prima del previsto e questo non gli piacerà. Ma sono pronto a ogni sua mossa». Proprio come non gli piacerà quello che ho in serbo per lui e per tutti gli altri figli di puttana. Ma questo non lo aggiungo alla mia risposta. Non posso ancora espormi.
«"Famiglia. Onore. Dovere." Che ne è stato?»
Nel sentirla nominare il motto di famiglia, le parole che mi hanno accompagnato per anni e spinto oltre i miei limiti, mi irrigidisco. «Vuoi la verità?»
«Preferisco quella a una bugia al sapore di acqua e zucchero per alleviare la coscienza».
«Tu», sussurro.
Non coglie al volo il significato della mia risposta. «È successo che sei arrivata tu», definisco meglio il concetto.
Batte le palpebre un paio di volte. «Di... ti prego, raccontami tutto», replica perentoria.
Muovo la testa da una parte all'altra strofinando la punta del naso sul suo.
Ci guardiamo ancora negli occhi. Nel mio cuore sento l'amore che provo per lei farsi intenso; talmente bruciante da lasciarmi un marchio a fuoco. Mi sta facendo capire che non dovrei mai nascondere quello che sento, perché tutto si rivela in un modo o nell'altro.
Al momento non ho il coraggio di ripercorrere quei passi in quel passato che mi ha spezzato talmente tanto le ossa da essere stato costretto a saldarmele con del piombo pur di restare in piedi. Ho sigillato quei ricordi per non impazzire.
Ma ingabbiarli, non ha fatto altro che incattivirli. Sono diventati duri come sterpaglie, impossibili da strappare via. Aggressivi, famelici, hanno risucchiato ogni cosa bella mi sia mai successa.
«Il rapporto tra le nostre famiglie si è sfaldato velocemente. Il giorno prima tutto andava bene, c'erano dei piani, dei contratti da stipulare, delle promesse da mantenere. Quello dopo... è stato un incubo».
Si siede sulle mie ginocchia, come una bambina pronta ad ascoltare una storia. Le avvolgo la schiena con un braccio premendo il palmo sul fianco mentre con la mano libera afferro, stringo e intreccio le nostre dita portandole alle labbra per lasciarle sul dorso dei baci. Ordino al mio corpo di non fare altro. Anche se è sempre più difficile non toccarla, non viverla. Perché sono felice che lei sia sopravvissuta. Perché quello che sento è un fuoco che continua ad alimentare senza nemmeno accorgersi che sto ardendo per lei.
«Di... cos'è successo a tuo fratello?», chiede con un filo di voce. È come se avesse lanciato un secchio di acqua fredda sulla mia pelle.
Ha capito il mio gioco. Sta cercando di sfondare lo stesso quella porta sprangata.
Fisso un punto sulla parete di fronte per ancorarmi a qualcosa. Perché se la guardassi, cadrei da qualche parte senza più riemergere. Ho bisogno di mantenere il controllo. Non posso commettere ulteriori passi falsi.
«Doveva essere una giornata come tante di lavoro. Niente di così difficile. Le cose stavano andando bene dopo la rottura tra le nostre famiglie. Finché ognuno restava nei confini, potevamo stare tranquilli, per quanto fosse possibile esserlo», chiudo per un momento gli occhi, raccolgo ricordi e forza necessaria per rievocarli. «Quel giorno mio fratello era di buon umore. Non sorrideva spesso, ma in quell'occasione sembrava contento. Dovevamo solo far visita a un amico di nostro padre e convincerlo a cederci una parte del suo giro d'affari o quantomeno a lasciarci partecipare. Nient'altro. Poi saremmo andati a divertirci».
Lei prende ad accarezzarmi il petto.
Vedendola sempre più stanca, non dimenticando quanto le è accaduto, la sollevo tra le braccia e la trascino sul letto. Una volta sistemate le lenzuola su entrambi, tenendola stretta, come se potesse volare via, proseguo: «Quel giorno c'era anche Cole con noi. Da tempo aveva preso l'abitudine di seguirci. Sospetto per fare la spia. Non è sempre stato un coglione borioso. Lo era in maniera accettabile, ma dopo quel giorno... è cambiato in peggio. Ha capito che la vita è breve e che puoi avere tutto quello che vuoi semplicemente prendendolo con la forza, senza preoccuparti delle conseguenze. Credimi, non lo sto giustificando, ma quando conosci la verità, molte delle cose che prima non capivi, iniziano ad avere un senso».
Sto straparlando per rimandare quel momento che mi si è impresso dentro. Eden nasconde la testa nell'incavo del mio collo. Lascia un piccolo bacio sulla parte bassa dell'orecchio, di seguito un altro sotto il mento. Piccole scosse si depositano sulla parte bassa del mio corpo. «Ho sentito dire che c'è stata un'esplosione».
Non è come l'hanno raccontata. Ci sono dettagli preziosi che rendono la storia ancor più complicata e dolorosa. «No. Non è stata solo una semplice esplosione, uccellino. Hanno piazzato un fottuto campo minato intorno a noi. Hanno iniziato attaccando mio padre, mio zio, le nostre abitazioni, i nostri ritrovi. Infine hanno fatto in modo che perdessimo un punto fermo per il nostro clan: mio fratello», massaggio il dorso del naso. «Lui era... diverso da tutti. Credeva nel rispetto delle regole. Nel bene che genera bene. Era ritenuto un elemento scomodo, ma veniva rispettato perché riusciva a farsi ascoltare. Non aveva neanche bisogno di alzare la voce per farsi sentire o incutere timore. Sarebbe stato un buon capofamiglia, un modello da imitare, un giorno», mi incupisco, avvertendo il peso della sua assenza.
Eden, percependolo, appoggia il palmo sulla mia guancia attirandomi al suo sguardo. Ha la delicatezza di non chiedere. Non occorre.
«Sapevano dove trovarci e ci hanno teso un'imboscata», proseguo. «Non è stato un caso. Sospetto che qualcuno già allora stesse facendo il doppio gioco».
I suoi occhi come le nuvole temporalesche, si spalancano. Il guizzo delle sue pupille non mi sfugge. Annuisco. «Da quel giorno, ho così tante domande che non immagini. Ho visto esplodere il posto, morire persone. Ho trascinato via dalle macerie Cole insieme a mio fratello, ma non sono riuscito a salvarlo quando è arrivato il momento».
Mi dà il tempo necessario per elaborare, per raccogliere le parole giuste e buttare fuori quel ricordo scomodo che nessuno ha mai voluto ascoltare.
«Un attimo prima eravamo insieme, quello dopo ci siamo ritrovati al centro di una sparatoria. Ricordo di essere stato colpito per primo», porto le sue mani dapprima sotto la costola, poi sulla spalla, per indicare i punti in cui sono stato ferito. «Ero talmente debole da non essere riuscito a urlargli di mettersi in salvo quando mi sono reso conto di quello che sarebbe accaduto di lì a pochi istanti», bacio la sua tempia, inalando l'odore dei suoi capelli per calmarmi. «Ho sparato a quegli uomini, ne ho ucciso qualcuno. Ma quando sei ferito, hai i minuti contati prima che la morte ti raggiunga. Quel giorno però, il destino aveva per me in serbo qualcos'altro e sono solo svenuto a causa della perdita di sangue e del dolore lancinante. Ore dopo, mi hanno trovato tra le macerie, ancora vivo. Di mio fratello, neanche l'ombra, solo una striscia di sangue e un chiaro messaggio».
Eden solleva appena la testa, tiene il palmo sotto il mio stretto al petto. «Pensi che sia stato rapito?»
Mi stringo nelle spalle. «Non hanno mai inviato niente di suo per ricattarci e lasciarci intendere che lo fosse. Da allora c'è stata una lotta continua a corpi di astuzia. Ci siamo indeboliti a vicenda, ma di mio fratello non c'è traccia».
Eden riflette un momento. «Tu però hai continuato a cercarlo. Non ti sei arreso».
Sono tesissimo. Ho paura di dire la cosa sbagliata e che lei possa comprendere quello che nascondo. «Subito dopo essermi svegliato dal coma ho preso delle decisioni. Non ho mai smesso. Su questo mio padre era d'accordo. Dovevamo trovarlo. E nell'eventualità che fosse morto, lasciarlo riposare in pace».
Sfiora con il polpastrello il bordo delle mie labbra. Un formicolio non invadente e alquanto arrapante, tenta di distrarmi. «Hai elaborato il piano di rapirmi per ottenere informazioni e per scambiarmi con il corpo di tuo fratello», deduce. Non c'è traccia di risentimento sul suo bel volto, solo un accenno di comprensione. «Perché pensavate fosse stato mio padre, a distanza di anni dalla morte di mia madre», continua adesso con voce tesa.
Chiunque altro non noterebbe il lieve tremore del suo corpo, quel moto di rabbia  misto a tristezza, che conosco anch'io bene. Cerca di nascondere tutto, come se non volesse ferirmi in alcun modo, eppure non mi sfugge. Perché ho imparato a conoscere ogni sua zona d'ombra.
«Già. Non avevo messo in conto che rivedendoti avrei perso il controllo». Non me ne vergogno. Provo solo un senso di avvilimento.
La mie parole le fanno accendere un lampo di curiosità negli occhi. Appare provata e improvvisamente distante. Stringe le dita tra la mia nuca e l'orecchio. «Di, io e te ci conoscevamo, vero?», domanda quasi come se fosse spaventata al pensiero di aver perso una parte importante della propria storia, della propria vita. Allo stesso tempo, appare sinceramente curiosa.
«Non te lo ricordi?»
Scuote subito la testa e si solleva a metà busto abbracciandosi le ginocchia. «Io...», il suo petto si alza e si abbassa in fretta, gli occhi le si velano di tristezza poi si volta e il suo dolore mi pugnala, diventa il mio. Se potessi, glielo strapperei via dal cuore per liberarla. «Non ricordo molto. La morte di mia madre mi ha causato un forte shock. Ho assistito al suo omicidio e... non sono mai riuscita a elaborare il lutto. La sua mancanza mi ha devastata. Io... io credo di avere rimosso quei momenti che me la ricordavano», massaggia la fronte. «Mentre ero in coma però, ho sognato delle cose e... Dio, sono così confusa adesso», porta il pugno contro la tempia. «Non capisco se siano reali o solo il frutto del mio dolore».
Mi sollevo e le sfioro la schiena. Una carezza che accetta senza scostarsi o scattare sulla difensiva in modo brusco. «Puoi parlarne con me, ti aiuterò come posso».
Lei abbassa le palpebre. «Di, io ho paura, di ricordare».
«Perché?»
«Perché non voglio collocarti tra quei momenti che fanno male. Voglio viverti».
Il cuore mi sussulta insieme al mio corpo. Abbasso di poco le spalle e accennando un sorriso, le bacio la guancia. «Puoi fare entrambe le cose, uccellino. Quando sarai pronta, affronteremo insieme questo discorso».
Lei inspira ed espira in modo pesante. «Il fatto è che non sarò mai pronta. Ma so per certa che se non strappo via quel cerotto, non riuscirò ad andare avanti. Quindi, per favore, raccontami tutto».
Non c'è un modo giusto, mi dico nel tentativo di incitare me stesso a dirle la verità. Ma voglio essere delicato, non è ancora in forze e potrebbe avere una ricaduta.
La tiro giù, tra le mie braccia. «Io e te ci siamo conosciuti anni fa», le racconto. Sotto le mie dita, i suoi muscoli si contraggono e il suo cuore, palpita prepotente. «Tu non eri neanche una ragazzina, eppure sapevi già come comportarti, avevi le idee chiare su quello che volevi, mentre io...»
Scivola con cautela su di me. «Tu eri scaltro, simpatico, dolce e gentile», ogni parola assume l'aspetto di una domanda. Vuole partecipare per alimentare quei ricordi?
«In realtà ero perennemente imbronciato, disubbidiente, capriccioso, incapace di ambientarmi al mondo dei ricchi», rido. «Ma quando ti ho incontrata qualcosa dentro di me si è come placato. Tu eri lì, stavi leggendo, seduta su un enorme pouf azzurro, in mezzo a una marea di peluche e quando hai sollevato lo sguardo, inarcando quel sopracciglio, sono rimasto spiazzato dal mondo in cui hai attirato la mia attenzione senza neanche provarci», scuoto la testa continuando a sorridere come uno stupido. «La prima cosa che mi hai detto è stata: "I miei fratelli sono nella stanza qui accanto. Cerca di non ucciderli, non lasciarli vincere per compiacerli e saranno tuoi amici e fratelli per la vita"».
Anche lei sta sorridendo, con le guance di un bel colorito roseo, gli occhi lucidi. «E tu?»
«Io non ero lì per i tuoi fratelli. Ero lì per te, per conoscerti. Mi sono avvicinato, mi sono accovacciato e ho sbirciato il libro che stavi leggendo. Di seguito, non so nemmeno io perché te lo promisi, sentivo solo di doverlo fare, di volerti dare il mondo intero e tranquillizzarti perché non avrei mai permesso a nessuno di farti del male».
«Mi avevi promesso un unicorno e un libro», sussurra.
Glielo confermo. «Hai sognato quel momento?»
«Ne parlavo con mia madre il giorno in cui...», non riesce a concludere. La tristezza affiora nei suoi occhi.
«Sapevi cosa avremmo dovuto fare? Il perché delle mie visite?»
Lei scrolla la testa. Senza sforzo però raggiunge in fretta la soluzione. «Io e te un giorno...»
La tolgo subito dall'impaccio. «Sarei stato il tuo fidanzato, poi tuo marito. Mio fratello si era rifiutato nonostante fosse lui il primogenito. Troppa differenza d'età diceva scherzandoci su, ma segretamente mi aveva confessato che gli piaceva il tuo carattere. Che saresti stata una donna forte e un giorno, una moglie unica. Faron era troppo preso dal lavoro e dalle ragazze per interessarsene però anche lui ti aveva già vista e appoggiava le parole di nostro fratello. Mentre io, io ero il nuovo arrivato, dovevo dare il mio contributo e dimostrare a mio padre di essere degno del nome dei Blackwell. Non che mi fossi lamentato quando ti ho conosciuta», gratto la tempia, imbarazzato dal discorso.
Assimila la mia risposta. «Ma non è successo».
«No. Qualcuno ha impedito che accadesse».
Corruga la fronte. Vedo gli ingranaggi girare dentro la sua testa. «So che sembro matta, ma qualcosa non mi torna. Non sei d'accordo con me? Insomma, avete sempre negato di avere ucciso mia madre. Mio padre non ha mai reagito se non quando le cose si sono complicate e io sono stata rapita».
«Dove vuoi arrivare?»
«Eravamo in qualche modo promessi, magari qualcuno non accettava questa alleanza tra le nostre famiglie, le quali una volta essersi unite grazie al nostro matrimonio, sarebbero diventate un unico clan, una potenza imbattibile. E se l'obiettivo non fosse stato tuo fratello o mia madre?»
«Pensi che qualcuno volesse...», di colpo mi irrigidisco. Non avevo mai pensato a questo. Forse perché inconsciamente speravo non fosse possibile.
«Cosa? Che c'è?»
La fisso negli occhi. «Avrei dovuto essere in quella chiesa quel giorno, ma c'è stata una riunione e ho seguito mio padre. Voleva che tutti e tre assistessimo per imparare, soprattutto io. Sono stato avvisato lo stesso giorno, del cambio di programma», soffoco un verso. Anche Eden ne emette uno attutendolo portando la mano alla bocca. «Quindi... qualcuno stava cercando te e noi eravamo solo delle pedine?»
Storco le labbra. «Non credo cercassero solo me. Che altro hai sognato?», mi agito.
La vedo turbata. «Non volevo andare a messa quel giorno. Saremmo state da sole. Ho pregato mia madre di non andare, ma lei è stata irremovibile. Poi in auto, ho chiesto di te e lei in qualche modo ha glissato l'argomento. Durante quel trambusto, io, ho visto qualcosa», si solleva ancora a metà busto. L'espressione di chi non riesce a respirare se non a fatica. «Mia madre aveva chiamato qualcuno, forse mio padre per avvertirlo dell'attacco. Quegli uomini continuavano a scambiarsi ordini dicendo che il loro compito era quello di svolgere un lavoro pulito, cosicché nessuno sospettasse niente».
Questa conversazione, sta continuando a prendere pieghe inaspettate. «Ecco perché tuo padre non ha mai rivendicato la morte di tua madre».
Lei esita un momento. «Perché non è stato tuo padre», sussurra.
«No, ma qualcun altro», mi alzo dal letto. Ho bisogno di schiarirmi un attimo i pensieri. Cammino avanti e indietro come una tigre in gabbia. Eden, trova il mio Zippo sul comodino e me lo lancia. Comincio ad aprire e chiudere il coperchio. Il clic si diffonde nel silenzio, mi aiuta a calmarmi, a riflettere.
Eden rimane con la coperta aggrovigliata intorno alla vita, la mano adagiata sulla ferita coperta dalla garza, gli occhi attenti e puntati su di me. Attende paziente.
«Hai visto altro? Non so, ricordi qualcosa, un dettaglio...»
Lei morde il labbro. La punta rosea della lingua lo sfiora subito dopo. Di colpo alza la testa. «Mentre tutti gli uomini erano armati e portavano abiti scuri e guanti, uno di loro impugnava la sua arma senza e portava un anello».
Mi irrigidisco. Il cuore prende a battermi pericoloso nel petto. Indietreggio di un passo. «Ne sei sicura?»
Le ciglia le sfarfallano quando apre e richiude le palpebre. «Sì, era un anello spesso, d'oro, con qualcosa inciso al centro. Non ricordo cosa fosse. Lo portava sul mignolo», i suoi capelli oscillano al movimento della testa.
Mi si è chiuso lo stomaco. Cazzo!
«Di?»
Prima di aprire il vaso di Pandora e agire, ho bisogno di essere certo. Per farlo, devo restare calmo, indagare e fare attenzione a ogni dettaglio. Anche se non c'è più tempo. «Ho un sospettato, ma finché non avrò almeno una conferma, lo terrò per me. Tu non lo hai visto in faccia?»
Nega, corrucciata. «Ero nascosta sotto il corpo di mia madre. Mi dispiace non poter essere utile».
«Hai fatto più tu di tanti altri assoldati in passato», la rassicuro.
Sguscia fuori dal letto, con una smorfia muove qualche passo verso di me. Dimezzo la distanza tra noi, preoccupato sul suo stato di salute. Le scosto una ciocca di capelli sfuggita dalla crocchia scomposta dal viso. Lei, sollevandosi sulle punte, cerca la mia bocca.
In un attimo mi sento leggero, privo di peso. «Ho bisogno di te», mi sussurra.
«Uccellino», mormoro per ammonirla.
Ovviamente non si lascia condizionare dal mio tono autoritario, dall'occhiata gelida, tantomeno dal distacco per non cedere alla folle voglia di perdermi nei suoi baci, nel candore della sua pelle.
Lei sa come tenermi in pugno, sa che mi piace questo suo lato caparbio, questa sua silenziosa insistenza, il suo premere nei punti giusti, fino ad ammorbidirmi.
Perché è questo che è in grado di fare. Riesce a farmi comportare da essere umano. A farmi capire la netta differenza tra il modo in cui ho sempre vissuto e quello che non ho mai avuto la possibilità di conoscere.
«Tu non hai la minima idea, vero?»
Sbatte le palpebre. Dura una frazione di secondo la sua perplessità. Non avendo ancora finito, non attendo che faccia la domanda successiva per proseguire. «Non ti sei ancora resa conto di essere riuscita a raggiungermi. Me ne stavo in un angolo, credevo di essermi costruito intorno mura di protezioni resistenti a qualsiasi urto, a qualsiasi sentimento. Credevo di essere cresciuto come l'uomo che gli altri si aspettavano che fossi. In realtà... ero perso. Come un aereo senza pilota, in avaria e destinato allo schianto. Io, stavo andando letteralmente contro il pericolo». Sono un fascio di nervi, un groviglio di tensione. «Non provavo niente, perché niente mi provocava interesse, niente mi scalfiva. Niente riusciva a raggiungermi».
Ritrova la voce. «Cos'è cambiato?», chiede.
«Mi sono accorto di non essere fatto di legno. Il mio cuore ha iniziato a battere in modo diverso quando tu sei piombata nella mia vita. Hai demolito tutto, e mi hai fatto provare quello che non pensavo di volere o meritare».
Non lo trattiene il suo sorriso. «Di...», sussurra emozionata.
«Posso pretendere una cosa? Non smettere mai di credere in noi. Neanche quando sbaglio o non capisco di averti ferita e non merito perdono», affermo abbassandomi. «Tu sei il mio pilota, mi aiuti a ritrovare il controllo quando sto per perderlo e precipitare. Sei la mia quiete dopo giorni di caos».
Mi avvicino. Senza fretta, sfioro le sue labbra. Sfuggo e assaporo la pelle del suo collo lasciandole piccoli baci. La stretta delle sue dita sulle mie spalle, si rafforza. Mi chiede di più. Mi graffia l'anima e mi ci soffia sopra con le sue carezze, con il suo amore. Il bacio, diventa man mano più feroce.
Vorrei che il tempo si fermasse in questo istante in cui assimilo ogni suo breve verso. Mi ubriaco dell'odore emanato dalla sua pelle. Quei gemiti... Dio, quei gemiti mi annientano, mi strappano via ogni traccia di razionalità. Il desiderio di fondermi al suo corpo, farla mia in ogni modo possibile diventando un tutt'uno, si fa insistente.
«Anch'io ho bisogno di te, uccellino. Ma sei in convalescenza e io non voglio farti male».
Per tutta risposta, indietreggia verso il letto, si distende e mi trascina su di sé.
«Non ho paura del dolore se ho te».
Combattuto, rimango con lo sguardo fisso nel suo, con ogni muscolo del corpo teso.
«Uccellino... stai giocando con il fuoco».
Le sue labbra morbide e invitanti, si piegano in un sorrisetto sfrontato e sensuale da morire. Mi sfila la maglietta e io glielo lascio fare. «Voglio smettere di sentire questo freddo e scaldarmi insieme a te».
Abbasso la testa e sfioro con la punta del naso la sua gola, facendola inarcare. «È davvero quello che vuoi?», le mie dita si spostano verso l'interno coscia, gioco con il bordo dei suoi slip di seta. Pigramente, le sfioro la pelle.
Ansima e sorride contro la mia bocca.
«Dovresti farlo più spesso», le pizzico una guancia in modo talmente lieve, da risultare più un buffetto affettuoso.
«Cosa?»
«Guardarmi come se esistessi soltanto io e sorridermi come se fossi l'unica cosa bella che ti è capitata nella vita».
Le sue gote prendono varie colorazioni. Dapprima è solo un semplice rossore il suo. Poi, Dio, diventa incredibilmente attraente. Talmente bella da essere impossibile distogliere lo sguardo.
Lei mi mozza il fiato, lo fa tutte le volte. Non se ne accorge di essersi incisa ovunque.
«Mi è impossibile fare diversamente».
Piego l'angolo del labbro e lei sbircia la mia espressione. «Adesso non gongolare».
«Dammi solo un altro minuto. È raro sentirti ammettere di essere vittima della mia incredibile bellezza».
Mi spinge priva di forza. «Non ho mai negato che tu sia tanto bello quanto stronzo».
Ricomponendomi, mi abbasso sul suo petto dove le lascio piccoli baci. Annuso la sua pelle provocandole un brivido e strappandole un gemito. «Dimentichi crudele», scosto il tessuto e le lecco un capezzolo, ci soffio sopra poi lo mordo prima di prendere a succhiarlo.
«Sei tante cose, Dante Blackwell. Ma più di ogni altra cosa, sei mio».
Il sorriso che mi ha provocato, potrebbe azionare una centrale elettrica. «E voglio meritarlo».
Torna seria. «Di, a proposito... tu per me sei abbastanza. Non voglio che cambi. Ti voglio esattamente così».
«Vuoi un uomo che cambia spesso umore? Sei disposta a sopportare davvero il mio carattere?»
Gioca con la collana che porto al collo. Attorcigliandola tra le dita, facendo pressione, mi avvicina a sé. Incastra le cosce ai miei fianchi, piegando le ginocchia. «Voglio te».
Il cuore rischia di sfaldarsi a ogni nuovo prorompente battito. È incredibile la capacità che hanno le sue parole di farmi sentire nel posto giusto.

♥️

Cruel - Come incisione sul cuore Where stories live. Discover now