Capitolo 25

2.4K 108 11
                                    


EDEN

"L'orgoglio è solo un filo spinato intrecciato al cuore".
Le parole trascritte in uno dei post-it di mia madre, che avrò letto innumerevoli volte per trovare conforto, mi rimbombano dentro la testa mentre con la fronte appoggiata al vetro del finestrino dell'auto di Regina, vedo scorrere in modo distorto, a causa della pioggia battente, la strada davanti fino a raggiungere la villa; completamente avvolta nel buio.
Non mi perdo in chiacchiere perché non servirebbe a un bel niente farlo, non sono nemmeno dell'umore giusto per scherzare.
Nel corso della serata sono stata letteralmente bersagliata da domande su domande non solo sul rapporto con Dante, quanto sulla brusca reazione che ho avuto a seguito del suo comportamento al nostro risveglio.
È stato meschino lasciare a me il compito di inventare una bugia. Ha messo però in chiaro come sarà il nostro rapporto.
So già che le altre avrebbero continuato fino a stordirmi. In parte non è qualcosa che generalmente dovrebbe accadere a qualcuno che è stato rapito. Non dovrei familiarizzare con nessuno, dovrei essere tenuta dentro una cella e non portata alle feste cosicché tutti possano vedermi. Spesso lo dimentico, ma puntualmente torno a ricordarlo quando succede qualcosa che scombussola quel poco di tranquillità che si riesce a creare.
Sono lieta che la serata sia finita prima del previsto. Ringrazio persino quel qualcuno che con una soffiata ha inviato delle volanti al locale, costringendoci quasi a scappare.
Non che fossimo disposte a restare, ce ne stavamo andando da qualche altra parte a smaltire la sbronza quando è scoppiato il putiferio in sala e Faron ci ha ordinato di tornare alla villa.
Jo ha avuto qualcosa da ridire, mentre Regina, non ha dissentito. Felice di restare per la notte. Da quello che ha raccontato, si trova da queste parti per un viaggio d'affari. Ma ho il forte sospetto che in realtà sia qui per aggiornare Adeline su ogni passo fatto dal fratello e forse anche su di me.
Per non turbare il silenzio e ancora di più me stessa, lascio Regina e Jo in soggiorno, a discutere su dove trovarlo.
Salgo al piano di sopra e mi indirizzo nella mia stanza, dove spero di nascondermi per i prossimi giorni.
Se chiudo gli occhi rivedo ancora quella stronza guardarmi, sorridermi e poi baciarlo.
Non riesco a spiegare la reazione immediata che ho avuto. Prima di chiudere la porta del locale alla mie spalle, ho percepito quelle che non erano semplici emozioni, solo qualcosa di devastante.
Entro in camera, pronta a chiudere a chiave la porta e a fuggire da una situazione che mi sta facendo venire solo il mal di testa. Premo la fronte sulla superficie e con la mano vado a tentoni verso la maniglia per girare la chiave.
Solo allora mi accorgo che manca.
Le mie dita si aggrappano alla maniglia e irrigidisco le spalle quando la luce della lampada del salottino a pochi passi si accende con un clic e il suono della sua voce mi raggiunge come la lama affilata di un rasoio.
«Cercavi questa?»
Volto appena la testa e mi prende un colpo.
Se ne sta in penombra, seduto sulla poltrona. La chiave penzola dalle sue dita. Ci gioca continuando a fissarmi negli occhi, mortalmente serio.
«Che ci fai qui?», chiedo senza fiato.
Non si scompone di fronte al mio atteggiamento diffidente. Forse non gli sfugge neanche il modo in cui lascio che la porta si apra. Voglio che gli altri sentano cosa sta succedendo qui dentro. Sono stata umiliata abbastanza.
Dante si solleva dalla poltrona, adagia il libro che teneva in grembo posizionandolo di nuovo al suo posto nella libreria e mi si avvicina come un rapace. Il tutto dopo avere infilato la chiave nella tasca dei pantaloni.
Si è dato una ripulita e si è cambiato indossando una semplice tuta, anche se le sue nocche rimarranno violacee per giorni, mi fermo a pensare.
«Sono il padrone di questa casa, ci vivo».
«Ma non sei obbligato a rubare la chiave della mia stanza».
Un sorrisetto affiora sulle sue labbra. «E qui ti sbagli», mi si avvicina fermandosi a pochi centimetri, le mani adesso ficcate dentro le tasche dei pantaloni. Con la bocca contro il mio orecchio, mi solletica la pelle. «Posso prendere quello che voglio. Tutto qui è roba mia. Anche tu», sussurra.
Notandomi scossa, prosegue come un abile giocatore che ha fiutato aria di vittoria. «Ti è piaciuta la serata?»
«Dovresti andare a dormire», indico la porta. «O magari raggiungere la donna che ti stava addosso nel parcheggio. Ha lasciato il suo futuro marito o le piace ancora avere due piedi in una staffa?»
Lui la richiude appoggiandosi contro.
«Percepisco della gelosia», rotea il dito con un sorrisetto beffardo stampato su quel suo viso dannato e proibito.
«Gelosia? Ho sentito bene?», tengo a freno la risatina isterica che vorrebbe tanto irrompere dalla mia bocca.
«Hai sentito benissimo. Solo che continui a negare l'evidenza e a sorvolare sulla questione».
«Io non sorvolo su niente. Sai, sei convinto di avere un posto importante nella mia vita. Ma ti sbagli. Non occupi neanche un angolo minuscolo. Sei troppo ingombrante».
Si appoggia allo stipite, incrocia le braccia e sospira, come se avesse di fronte un rompicapo. «Adoro la tua testardaggine e posso anche accettare uno spigolo», mi fa l'occhiolino.
Alzo gli occhi al cielo. «Vattene dalla mia stanza».
«Non dimentichi qualcosa?»
Pur cercando di comprendere, non afferro al volo il nesso logico della sua domanda. Lui ne approfitta per ribadire il concetto: «Tutto qui dentro, è roba mia. Compresa tu».
Con delle semplici parole, accompagnate da quello sguardo di cui non riesco a saziarmi, stravolge tutto in pochi attimi. Nessuno è mai stato in grado di ferirmi ed essere allo stesso tempo la cura al mio dolore. Nessuno tranne lui. Ma non posso permettergli di farmi ancora male. Non so se sono così forte da resistere. Pertanto, se non se ne va lui, allora lo farò io, mi dico provando a superarlo.
La sua mano si artiglia intorno al mio braccio, mi attira a sé e in un attimo la sua bocca si precipita sulla mia. Ma rimane lì, immobile. Così vicina da sfiorarmi, da farmi sentire le farfalle nello stomaco che tentano di creare un buco profondo in cui farmi precipitare; eppure così lontana da ingigantire quel senso di desiderio che ho dentro.
«Non ne ho voglia», mormora. Allontanandosi, prende a grattarsi il mento. «E neanche tu», abbassa gli occhi sulla scollatura e il suo gesto basta a fare sollevare i miei capezzoli che si intravedono sotto la stoffa.
In mancanza di una giacca, mi copro con le braccia. «Smettila!»
Sorride sardonico. «Potrei sapere come risolvere il problema».
Con le guance in fiamme lo guardo storto. «Non c'è nessun problema. Adesso vattene. Sono un po' stanca e ho bisogno di dormire».
Prendo a muovermi nervosamente intorno, in cerca di qualcosa che possa distrarmi dalle sue mani, dal suo corpo, dal suo profumo. Da lui. Lui che è una di quelle cose talmente uniche, forti e distruttive che non le puoi spiegare; perché neanche te ne accorgi di come o quando ti ha sfiorato appena appena il cuore. Non te ne accorgi che dapprima è solo un minuscolo graffio, poi uno squarcio dal quale è impossibile guarire.
Metto in ordine il libro che aveva in grembo, augurandomi che non abbia letto il mio diario.
Vicina alla scrivania, mi impegno a non guardarlo. Neanche quando facendo un passo avanti si posiziona alle mie spalle, invadendo con il suo odore i miei sensi.
Toglie tutto dalle mie mani adagiandolo sulla superficie in legno. «Guardarmi», ordina.
«No!»
«No? Abbiamo un discorso in sospeso io e te».
«Eravamo ubriachi. Forse lo siamo persino adesso».
«Forse tu, non io. Ricordo perfettamente ogni istante e ogni parola».
Mordo forte il labbro inferiore, trattenendo a stento l'agitazione. «Pensavo avessimo sorvolato sull'argomento. In soggiorno sei stato chiaro».
Evidentemente mi sbagliavo di grosso perché, afferrandomi per i fianchi, mi solleva come se fossi una piuma, mi adagia sul ripiano della scrivania e mi bracca posizionandosi tra le mie gambe.
Per non perdere l'equilibrio sono obbligata a reggermi con le mani sulle sue spalle ampie. A essere ostaggio dei suoi occhi che nascondono furia e desiderio.
Percorro con lo sguardo il suo volto teso e vedo la ferita profonda, mai rimarginata, tenuta ben nascosta dentro. Si trova proprio su quel cuore, apparentemente di pietra. Un segno tangibile del dolore che ha sofferto chiuso nel suo silenzio, nella freddezza di una solitudine a lungo vissuta, mai condivisa.
«Che cosa stai fissando?»
«Te», lascio uscire la parola così piano dalla mia bocca, da costringerlo ad avvicinarsi per sentire la mia voce.
«Me?», sussurra a sua volta.
È talmente vicino che mi si stringe lo stomaco, e al contempo il battito del mio cuore accelera al suono della sua di voce, che si riverbera sulla mia pelle in una lieve carezza.
Non è abbastanza.
Voglio di più.
Non posso averlo.
«Che cosa ti ha fatto?», chiede, ammorbidendo il tono.
«Adesso ti importa?»
«Non dovrebbe».
Distolgo lo sguardo. Un senso di sconforto e sconfitta mi si abbatte addosso. Il sapore acre delle parole che ci siamo urlati, mi risale per la gola. «Allora perché l'hai chiesto?»
«Perché ci ho provato. Ho provato a far andare le cose secondo i piani».
Esito. «Che cosa è cambiato?»
Il suo sguardo percorre senza fretta il mio corpo. Un su e giù che sento addosso come se mi toccasse, lasciandosi dietro un formicolio e quel senso di familiare calore, da disarmarmi.
«Sei come un fiammifero, Eden», sospira. «Sei così facile da accendere. Ma sei anche maledettamente difficile da spegnere perché diventi come uno di quegli incendi indomabili e imprevedibili, proprio qui», afferra la mia mano e se la preme al petto.
Facendo un passo indietro, nervoso, gratta il dorso del naso. Prende subito fiato, l'espressione di chi si è lasciato sfuggire troppo. «Posso farti una domanda?»
Adesso, che cosa ha in mente di fare?
Sollevo gli occhi al cielo. «Poi mi lascerai in pace?»
Il pensiero che se ne vada da una parte mi angoscia, ma so che non possiamo funzionare, proprio come ha detto e ribadito anche stasera. Inoltre, prima l'ho beccato con quella donna.
Il ricordo ancora una volta brucia e mi fa tremare dentro. Non avevo mai provato così tanta gelosia verso una persona che neanche mi appartiene, né mi rispetta.
«Secondo te sono stronzo?»
Non fa ridere la sua domanda posta in modo serio. «Evidentemente ti viene naturale, non crucciarti», scivolo dalla scrivania sulla quale sono rimasta, e ancora una volta apro la porta.
Lui mi raggiunge e la richiude tenendo il palmo contro la superficie. «Parliamo. Sono calmo», mi promette silenziosamente di non urlarmi di nuovo addosso e di non mandarmi via.
Non gli credo. «Adesso vuoi parlare? Appena avrai finito cosa farai? Te ne andrai fuori da questa stanza, raggiungerai la tua amica per raccontarle di avere sgridato la tua prigioniera e ti farai con lei altre risate sulla povera vergine che ha ceduto al tuo fascino?», lo provoco volutamente.
«Voglio solo parlare».
Prendo un breve respiro. «Bene. Allora spiegami perché continui a mandarmi via».
«Perché questo», indica me e lui, «è sbagliato», conclude con aria severa. «Ti avevo detto sin dal principio di non farti strane idee. Che cosa ti aspettavi? Io non sono uno di quei "damerini" del cazzo di cui sei costantemente circondata», indica fuori. «Li attiri come mosche!», dopo avere chiuso il pugno premendolo sulle sue labbra, lo apre e schiocca le dita per rafforzare il concetto.
Quando avanzo, pronta a mandarlo via dalla stanza, noto dell'esitazione iniziale che pian piano diventa tangibile quando morde il labbro così forte da squarciarlo. I miei occhi catturano quel rosso scarlatto rilucere sulle sue labbra. Lo lecca via, proprio come ha appena spazzato ogni speranza dal mio cuore con l'ennesimo rifiuto.
Lacrime affiorano e le palpebre bruciano. Con un immane sforzo di volontà le ricaccio giù, nel profondo, e lo guardo con indifferenza. La stessa che ho dovuto adottare da bambina quando nessuno mi ascoltava o si accorgeva di me. Ero invisibile, lo sono sempre stata e la cosa, fa fottutamente male; soprattutto adesso che pensavo di avere lui.
Che sciocca!
«Non mi sentirò in colpa», mi anticipa, dando una spiegazione alla sua reazione.
Cammina verso di me, pronto a confondermi. Lo fermo. Decido di colpirlo, ignorando l'attrazione che sento. «Neanche io dopo che avrai varcato la soglia e te ne sarai andato. Magari chiamerò qualcuno per un po' di compagnia. In fondo, è stato facile. Mi hai risparmiato la fatica di scegliere», mi sforzo di non gridare, di non mostrargli quanto sia ferita.
Se c'è una cosa che non posso controllare però, sono le sue reazioni.
I suoi occhi mi si puntano addosso come catrame. Una frustata improvvisa mi attraversa dopo avere riempito la stanza di elettricità, privandola dell'aria.
Fuori, un tuono spezza il silenzio e un lampo rischiara tutto, mentre la pioggia picchia forte contro le vetrate.
Mentre sono sul punto di allontanarmi, qualcosa me lo impedisce. Sento le sue mani serrarsi sui miei fianchi. Vengo trascinata indietro e l'unico suono che sento, oltre al battito scostante del mio cuore, è la porta che si richiude.
I nostri respiri affannati, i nostri occhi incastrati, sono tutto quello che abbiamo in comune.
Con una mano continua a tenermi stretta, con l'altra mi afferra il viso avvicinandomi alla sua bocca. Il pollice prende ad accarezzarmi il labbro inferiore. «Sarà divertente pensare a un altro che ti tocca o ti fotte mentre starai con uno incapace di farti godere allo stesso modo», strofina la punta del naso sul mio, sfoderando ancora quel sorriso da clown, in parte carico di gelosia.
Lurido bastardo!
Vorrei colpirlo, ma sono paralizzata dal desiderio che sento innalzarsi a ogni soffio del suo fiato caldo sulla mia pelle. Ha maledettamente ragione. Penserei al suo tocco. Alle reazioni del suo corpo. Alla sua voce. Al suo calore. A lui che non fa parte di niente, ma inizia a essere tutto per me.
«Non ti sentirai in colpa neanche un po' ad aprire le gambe a qualcuno che non sa dove toccare, come venerarti, vero? Ad avere intorno qualcuno che non vuoi», le sue dita sollevano la seta sopra le cosce, lo spacco gli permette di insinuarsi fino agli slip.
Provo a oppormi, ma è inutile. C'è una linea di confine tra istinto di conservazione e desiderio. Le nostre, si sono incrociate facendoci scontrare mortalmente.
In un momento di lucidità, lo respingo. «Basta!», urlo. «Tu non capisci. Non sai cosa voglio e continui a giocare con me!»
Afferra i miei polsi e mi divincolo.
«Non voglio essere una semplice sfumatura nella tua vita. Non voglio mischiarmi ad altri colori. Voglio essere il tratto deciso di quel particolare che completa un'opera d'arte. Voglio essere tutte quelle cose che non sono mai stata: importante, essenziale, unica, non scontata. Voglio essere amata, non per i colori, anche per il bianco e nero che porto dentro», trattengo un singhiozzo.
«Uccellino...»
«Dante, tu hai solo bisogno di una persona qualsiasi per passarti il tempo. Io invece ho bisogno di te. C'è differenza, non so se comprendi. E lo so, l'ho capito. Non puoi darmi niente di tutto questo. Quindi vattene!», fatico sempre più a parlare. «Vattene e lasciami in pace», la voce mi si spezza. «Vattene e fammi dimenticare come meglio credo il modo in cui mi fai sentire».
Immobile, incapace di rispondere, riesco a buttarlo fuori dalla stanza a suon di spinte. Non voglio nessuna bugia. Non voglio nessuna pietà. Non voglio niente che possa distruggere ulteriormente il mio cuore. Mi leccherò le ferite in silenzio fino a quando il dolore non sarà che un formicolio gestibile.
Sbatto la porta e urlo carica di frustrazione prima di voltarmi affannata e preda di un attacco di panico, avventarmi su quello che trovo adagiato alle superfici.
Butto ogni cosa a terra e non trovando nient'altro, sfinita, scivolo giù, lasciando scorrere via ogni traccia di dolore con il sonno.

Cruel - Come incisione sul cuore Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora