Capitolo 30

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DANTE

Una volta mi hanno detto che il cuore è un posto fragile. Che se lo urti con le delusioni, con le illusioni, rischi di farlo a pezzi.
Ma nessuno mi aveva mai detto niente sul senso di vuoto, sul dolore dovuto a un cuore che si è fermato dopo avere perso la sua anima.
Un giorno ci speri in fondo, che sia come una favola della buona notte. Che abbia un lieto fine. Ma la felicità, a volte ti chiede un prezzo alto da pagare. E i sogni, presto si trasformano in polvere da sparo pronta a scoppiare e a distruggere tutto. Ad annientare la tua anima.
Le emozioni che sento, sono così violente da avere il voltastomaco. Ci provo a reprimerle. Dio solo sa quanto mi sto impegnando a mantenere il controllo, a non piegarmi mai più al dolore. Eppure sembra tutto maledettamente difficile.
Mi sento svuotato. Come se avessi preso una botta talmente forte alla testa da rimanere senza fiato; incapace di rialzarmi, di sentirmi vivo.
Quel suono, lo stesso di sempre, mi fa irrigidire e accapponare la pelle. È un dannato loop che non riesco a fermare. So cosa succede. Conosco il suo significato. Ogni dettaglio mi si è inciso sulla carne.
Sono ancora qui, tra polvere, asfalto umido e sangue. Così tanto sangue da riempire tutto. Da macchiare per sempre la mia pelle.
Non sono più solo. Terrence è arrivato e i paramedici al suo seguito, stanno ancora rianimando Eden.
È da venti minuti che provano a salvarle la vita.
Sono i venti minuti più lunghi della mia esistenza.
I venti minuti in cui il terreno sotto i piedi trema, non respiro, mi sento morto.
Terrence si avvicina accompagnato da un altro paramedico. Un ragazzo con gli occhiali spessi, il naso lievemente storto e l'aria di chi è pronto a mettersi al servizio del prossimo per vocazione.
Con il suo accento marcato, apre bocca chiedendomi qualcosa, ma le mie orecchie sembrano non recepire niente. È come se parlasse un'altra lingua. C'è solo quel fischio fastidioso e continuo, unito alla sensazione di essere avvolto dall'acqua.
Mi tocca appena il braccio e un dolore acuto mi trafigge, fino a farmi vedere le stelle dietro le palpebre quando le strizzo. Mi ritraggo da lui come un animale ferito e sul punto di difendersi.
Solleva entrambe le mani e questo mi fa riemergere dall'annebbiamento. Sto impugnando la pistola. Sono teso e pronto a fare fuori chiunque.
«Vuole solo controllarti la ferita, Di», mi avverte in apprensione, Terrence. Abbassa il mio braccio e con cautela mi toglie la pistola dalle mani, svuotando il caricatore per sicurezza.
Non rispondo. Non mi giustifico, tantomeno chiedo perdono. Non riesco a fare altro che fissare l'orribile incubo che ho davanti.
Mi alzo malamente. Scrollo via le mani del paramedico e seguo come uno zombie, Eden. È così piccola su quella barella sulla quale l'hanno appena adagiata, continuando a urlarsi dei comandi per fare in fretta.
Completamente circondata da uomini impegnati a non spezzare quel filo che la tiene ancorata alla vita, viene allontanata da me.
Che cosa ho fatto?
«Dante, non puoi...»
Il petto comincia a dolermi. Porto la mano sulla zona e annaspo, mentre la testa gira pericolosamente e vado a terra.
Mi sveglio sudato, in preda al panico e mi brucia la gola per avere urlato nel sonno.
Scosto il lenzuolo come se fosse qualcosa di sporco e mi metto a sedere sul bordo del letto king-size sul quale ho a malapena dormito.
Dalla finestra filtra la luce accecante del giorno.
Che ore sono?
L'orologio sul comodino, indica le 17:30. Non c'è da stupirsi che io mi senta come sotto l'effetto del jet lag o di una forte sbronza. Peccato non abbia bevuto, né viaggiato.
Passo frustrato una mano tra i capelli e alzandomi del tutto, arranco fino al bagno dove sotto il soffione della doccia, cerco invano di scaldarmi.
A ogni respiro, a ogni battito, percepisco lo spostamento di ogni singolo pezzo del mio cuore.
Mi rendo conto che più di ogni altra cosa al mondo, desidero ciò che non posso avere. Ma la parte disperata e stremata di me, continua a sperarci.
Picchio il pugno contro le piastrelle fredde e urlo, urlo abbastanza forte da non avere fiato. Urlo e colpisco, fino a lasciare i segni rossi sulla superficie. Questi, scivolano via, cancellati dal getto.
Se solo fosse così facile farlo anche con quello che provo.
Mi accascio senza fiato sul piatto doccia e sotto il getto insistente, scoppio di nuovo in lacrime.
Dopo quelli che a me sembrano soltanto dei secondi, due colpi alla porta mi fanno riprendere dal momento di panico e dolore che mi attanaglia ormai da giorni.
Fisso incredulo le mani. Mi stanno tremando, sono macchiate di rosso e le dita sono rinsecchite come prugne. Mi rialzo, avvolgo l'asciugamano intorno alla vita ed esco dal bagno come se niente fosse. Come se non mi fossi sgretolato nel dolore solo pochi istanti prima.
Terrence vestito in abiti casual, mi aspetta seduto sulla poltrona del salotto. Ha portato due caffè e su un piattino c'è un sandwich avvolto nella stagnola.
«Hai un aspetto splendido», mi punzecchia, con una smorfia.
Lo guardo storto, mi avvicino all'armadio e infilo una tuta. Tampono i capelli e lo raggiungo. Per levarmelo di torno, vado dritto al dunque. «Aggiornamenti?», ignoro la sua battuta sul mio aspetto, soffermandomi su un terreno solido come il lavoro.
Abbassa gli occhi, prende il bicchiere con il caffè e ne sorseggia un po'. «Tutto tace», passa la lingua sulle labbra, prende un respiro e continua a osservarmi. «Eccetto il tuo cuore», conclude.
Sporgo la mano, prendo il caffè e lui inarca un sopracciglio folto quando si accorge del posacenere stra-colmo di cicche di sigaretta. «Da quanto non mangi?»
«Mi stai per fare la predica?», mi appoggio allo schienale in pelle del divano. Ignoro la fitta di dolore al braccio fasciato e il fastidio che sento quando il telefono lasciato sul comodino prende a ronzare come un insetto intrappolato in un barattolo.
Sarà l'ennesima chiamata da parte di mia madre.
Avevo chiesto, anzi ordinato a tutti, di non avvisarla. Terrence ha ritenuto che fosse opportuno farlo, date le circostanze e lo stato in cui mi trovo. Da allora mia madre non ha smesso di chiedere aggiornamenti su di me e su di lei.
L'ho dissuasa a venire a trovarmi. È stato necessario usare tutta la mia buona volontà per non reagire male e spaventarla. Ora come ora non posso proteggere nessuno, neanche me stesso. Lei sarebbe solo di intralcio.
«Mi sembra la cosa giusta da fare. Sei un relitto, Di. Ti comporti come un bambino viziato. Hai bisogno...»
«Non ho bisogno di niente se non di silenzio e di essere lasciato solo!», prorompo, alzando il tono della voce. «Concetto estraneo alle tue orecchie, a quanto pare. Non ho bisogno nemmeno di essere controllato a vista o di parlare al telefono con mia madre, ripetendo la stessa cosa neanche fossi un disco rotto».
Terrence non si lascia scoraggiare. Ha assistito a tantissime crisi nel corso dei giorni precedenti. Contrae la mascella e stringe un pugno in vita prima di riappoggiare il bicchiere sul tavolo basso. Strofina i palmi sulle ginocchia. «Tu sei arrabbiato con il mondo, lo capisco».
«No. Non puoi capire, cazzo!», ringhio interrompendolo nell'immediato, cedendo alla furia. «Non puoi sentire quello che sto provando. Non puoi ascoltare i pensieri che si affollano nella mia testa», picchio il dito contro la tempia. «Non puoi capire...», mi mordo la lingua distogliendo lo sguardo, sconfortato dalla mia reazione.
«Quando è morta mia sorella, non sono uscito dalla mia stanza per due intere settimane. Te lo ricordi?», racconta, con occhi distanti. «Mi ha tirato fuori un amico che non credevo di avere. Una persona che non pensavo potesse sentire quello che avevo di così distruttivo dentro», gli occhi gli si annebbiano, le narici guizzano e si arrossano. So quanto gli è costato andare avanti, fare i conti con la dura realtà, il senso di colpa, la furia cieca per la sua orribile perdita. «Dante, sto facendo quello che hai fatto tu quel giorno. Non allontanarmi solo perché pensi di essere la causa di quello che è successo. Non è così. Hai fatto del tuo meglio. In cuor tuo lo sai che ho ragione. Proprio come sai che tua madre non smetterà di essere preoccupata per te se le rispondi che stai bene o le dici chiaramente di stare al suo posto. Vuole solo assicurarsi che tu sia ancora qui, perché sei suo figlio e perché ti ama».
Non riesco a guardarlo in faccia. Passo la mano sulla nuca. Le mie dita affondano tra i capelli. «Odio tutto questo», le palpebre pizzicano. Ancora una volta vengo colpito a raffica dalle immagini che porterò per il resto dei miei giorni dentro.
Forse questa è e sarà la mia punizione all'inferno, il mio più grande peccato, il mio tormento. «Per favore, lasciami solo. Non sono in grado di ragionare al momento. Non voglio pensare al lavoro. In realtà non voglio pensare proprio a niente. Non voglio neanche ferirti. So che hai buone intenzioni, ma... oltre a non credere di meritare le tue attenzioni, non ce la faccio».
Poggia la mano sul mio avambraccio. «Devi rialzarti, Di».
Scrollo la testa. «È quello che dite tutti. Ma che importa? Davvero non posso restare a terra per una volta? Davvero non posso sentirmi distrutto? Perché?», balzo in piedi. «Non ho più nessuna ragione. È finito tutto. Io, io sono finito. Sono morto in quella piazzola di sosta!»
Terrence mi raggiunge e con impeto mi abbraccia. «Lo so», sussurra.
Singhiozzo come un moccioso. Non me ne rendo neanche conto di essermi aggrappato a lui come se non avessi equilibrio e non riuscissi a stare in piedi, se non quando mi stringe a sé.
Lo allontano. «No. Non lo sai, perché non c'eri. Non hai visto quello che ho visto io», tiro su con il naso. «Non doveva succedere. Lei non doveva farmi scudo con il suo corpo. Non doveva aiutarmi a sistemare le cose. Non doveva farsi male. Io, mi, odio. Dio solo sa quanto mi odio per non essere riuscito a chiudere questa storia prima che qualcun altro si facesse male. Soprattutto mi odio per non averle detto la verità prima che fosse tardi».
Terrence mi riavvicina, mollando piccole pacche sulla mia schiena. Scostandosi mi guarda intensamente, tenendo il mio viso tra i suoi grandi palmi caldi. «Per quanto abbia voglia anch'io di chiudere con questa storia una volta per tutte, prima di ogni altra cosa voglio che tu sia felice, Di».
«Non dire stronzate. Non è il momento per il melodramma o il romanticismo. Sappiamo entrambi che non è possibile. Quello che è successo ne è la prova», mi scosto. «Ci è sfuggito tutto di mano e adesso contiamo le perdite e ci lecchiamo le ferite, restando in attesa del colpo mortale».
Imbarazzato per avere avuto un altro crollo emotivo di fronte a lui, cerco qualcosa con cui distrarmi. Il pacchetto di sigarette che afferro dal tavolo è vuoto. Lo scambio subito con lo Zippo e comincio a giocare con il coperchio.
Terrence è sempre stato cocciuto e non ha finito. «Forse la mia parte protettiva non lo avrebbe mai detto né ammesso, perché più volte nell'ultimo periodo mi hai deluso. Non lo merito neanche, dato che sono sempre stato al tuo fianco e mi stai trattando come se fossi io il nemico. Ma al di là della vendetta, della missione, dell'impegno che abbiamo preso, stai perdendo un'opportunità che non ti si presenterà mai più. Lo stai facendo per scelta».
Prendo un sorso di caffè, trattenendo il liquido in bocca per qualche secondo, prima di mandarlo giù a fatica. «Ho dei doveri. Ma non sono in grado».
«Andiamo, amico. Sei solo spaventato a morte!»
Gli scocco un'occhiataccia. «Tu non lo saresti al posto mio?»
Si lascia cadere sulla poltrona. Gratta la tempia. «Me la sto facendo sotto. Ci saranno ripercussioni, ma credimi, vale ogni punizione».
«È per questo che le volavi intorno? Per il brivido della punizione? La tua vita non vale meno della mia».
«Se mi sono avvicinato così tanto a lei, oltre al fatto che è impossibile non affezionarsi a quel piccolo uccellino, non era per farti uno sfregio, era per darti uno scossone. Purtroppo, più ci ho provato, più ti sei chiuso e hai dato la priorità al lavoro. Temo però che entrambi sappiamo la verità. Fingi, ma ti importa. Ti importa così tanto da non dormire bene la notte a causa del senso di colpa per ogni tua azione. E non solo, da correre dei rischi inutili nel tentativo di mettere a tacere la gelosia, quando basta una sola parola per descrivere quello che nascondi. Ti importa e hai a pochi passi il tuo presente e la promessa di un futuro. Devi solo credere che andrà bene. Proprio come hai fatto per tanto tempo. Sai che ti sosterrò».
Mi volto a guardarlo e non trovo le parole giuste. Forse neanche esistono. Mi lascio cadere sul divano, porto i palmi sul viso. Lui sporgendosi mi strizza una spalla, scuotendomi. «Vai a trovarla. Parlale e riportala da noi. Solo tu puoi riuscire a trovare dove si è persa. Solo tu puoi raggiungerla. Dopo penseremo a come risolvere tutto».
«Io, sono un coglione. Un bastardo della peggior specie. Per tutto questo tempo ce l'ho avuta di fronte e non me ne sono accorto. Non sono riuscito a vedere l'altra metà della mia anima. La mia cura per la solitudine. Il mio cerotto per le ferite più profonde. Adesso...», scuoto la testa, picchiando il pugno contro il pavimento.
«Risolveremo tutto. Devi soltanto aiutarla».
«Sei andato a trovarla? Hai visto com'è ridotta?»
«È come la bella addormentata. Aspetta il bacio del principe per svegliarsi. E si dà il caso che non sia io», sulle sue labbra affiora un lieve sorriso dolce. «Altrimenti ci avrei già provato».
Sbuffo spingendolo. «Torna serio e al tuo posto. Altri aggiornamenti?»
«Tuo padre vuole parlarti. Sta diventando parecchio insistente. Non abbiamo più altre scuse da offrirgli per tenerti lontano. Dubito un "non vuole vedere la tua faccia del cazzo neanche in cartolina" lo fermerebbe».
Mordo il labbro, irrigidendomi. «Non posso vederlo. È anche colpa sua se è successo».
Terrence sfrega il mento, assorto. «Prima o poi ti toccherà farlo. Dovremmo prepararci».
Colgo al volo la nota di tensione nella sua voce. «Per allora mi auguro di essermi ripreso abbastanza da affrontarlo a testa alta», non aggiungo che spero di avere al mio fianco l'unica persona di cui mi importa davvero e un piano che lo metta in ginocchio.
«Parlano di riunire i clan per una trattativa, visti gli ultimi eventi. Non sappiamo ancora se Rose sia stato avvertito».
Sto già scuotendo la testa. «Non permetterò a qualcun altro di cadere nella trappola. Elaborerò un nuovo piano quando sarò in grado di pensare lucidamente e lo comunicherò alla squadra quando sarò sicuro che non ci sia margine d'errore».
Terrence soppesa il mio sguardo. Apre e richiude le bocca, poi si avvia alla porta. «Torna in te, amico», mi intima, uscendo dalla stanza senza aggiungere nient'altro.
Rimasto solo, osservo il sandwich ancora intero e il caffè, in attesa di essere consumati.
Prendo il secondo e conservo il primo per dopo, quando avrò davvero fame. Al momento il mio stomaco è un groviglio doloroso. Talmente chiuso da sentirmi nauseato.
Mi siedo alla scrivania, sollevo lo schermo del portatile e osservo a lungo le cartelle e i file che Terrence ha scovato nascosti sul portatile di Eden e in una microSD nascosta tra le pagine di un libricino di favole finto.
So di avere invaso la sua privacy, ma non potevo starmene con le mani in mano e permettere che qualcos'altro sfuggisse al mio controllo. L'ho fatto per precauzione, per trovare un punto debole del nemico. Sapevo che nascondeva qualcosa. Non mi aspettavo quello che ho davanti. Ma non lo userò. Sarà lei a parlarmene quando sarà il momento. E se vorrà, agiremo insieme.
Finito il caffè e spiluccato il sandwich, mi sdraio a letto, le braccia dietro la nuca.
Sto qui, fermo, immobile, con il cuore in gola. Cerco una soluzione.
In questo letto, tra le lenzuola sgualcite e la parte vuota accanto, il senso di solitudine mi si allarga dentro. Un respiro poi due, e capisco cosa voglio, cosa mi serve per tornare a respirare, a sentirmi a casa e non più un estraneo nella mia stessa vita.
Mi rendo conto di volerla. Non per ripicca. Non per capriccio. Neanche per vendetta. Io di lei ho bisogno. Sono stato stupido a non rendermene conto. A non capire che la sensazione dolorosa dentro non è altro che la mancanza di un suo gesto, di una sua parola, di un suo sguardo.
Sta diventando come una fame intollerabile, inappagabile quella che sento divorarmi il petto. Sono morsi costanti e feroci quelli a raggiungere il mio cuore in subbuglio per lei.
«Deve tornare da me», mormoro.

Cruel - Come incisione sul cuore Where stories live. Discover now