49. Una regina mortale

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Cadde tra le mie esili braccia mortali. Non riuscii a sostenerlo, crollai in ginocchio, in lacrime. Strinsi le mani intrecciate dietro la sua schiena. Tra gemiti e ansiti, lo trascinai verso il trono.

Volevo farlo sedere, conferirgli una posa decorosa, da sovrano.

Non meritava di essere trovato in quello stato impietoso, prono su un pavimento di carbone.

Purtroppo ogni mio sforzo fu vano. Era troppo pesante.

Alla fine fui io a sedermi, lo tenni stretto tra le ginocchia, ripulii i lineamenti eleganti con la sottoveste di cotone.

Era sangue quello che colava? Elijah non avrebbe dovuto possedere sangue.

Di che stregoneria si trattava?

Rimossi la spilla dal petto. Sgorgò uno zampillo, bagnò il pavimento, creò un rigolo che gocciolò lungo le scale. Rosso scuro, stavolta, quasi nero.

Sedò ogni dubbio.

L'avevo ucciso.

L'avevo ucciso con le mie stesse mani.

Lanciai lontano l'artefatto maledetto.

«Mi dispiace» sussurrai.

Non era ancora morto. Potevo sentire il potere lottare nelle vene sottili.

Aborriva la fine, non l'aveva mai conosciuta, non se ne faceva una ragione.

Nessun demone originario era mai morto in un modo così triviale, peggio ancora di come potesse morire un comune mortale, a causa di un ornamento di poco valore.

«Ti amo... ti amo davvero...»

Gli dissi che ero stata costretta, gli confessai ogni mio peccato. Promisi che l'avrei raggiunto presto, lo feci anche nella lingua demoniaca: yut nur.

Lui si aggrappò alla mia caviglia. Io rabbrividii, colta dal sospetto che si stesse risvegliando.

Invece il problema era che non voleva lasciarsi andare.

Credo che anche i suicidi, un istante prima di chiudere gli occhi, si pentano del destino che hanno scelto.

Era ovvio che un dio opponesse resistenza. Intrappolato in una corporeità umana, annaspava, fremeva, si divincolava, era aggrappato alla vita come un naufrago a una scogliera.

Iniziai allora a narrare la mia verità, la mia storia, il mio punto di vista.

Una fiaba terribile senza lieto fine.

Iniziai dall'assolato pomeriggio di un'estate umida e afosa.

«Gli incubi peggiori non hanno bisogno del buio per incutere timore.»



Non so quanto tempo sia passato, adesso.

Mi sembra di essere invecchiata di svariati anni. Le rughe si tendono attorno agli angoli della bocca, ai lati degli occhi, sulla fronte tesa. Ho la gola secca, il ventre vuoto.

A metà del racconto si è addormentato come un neonato cullato da una ninna nanna.

Non si è più svegliato.

Io ho pianto ancora un po', poi ho ripreso a narrare. Ho dialogato da sola per ore. Nutro la sciocca speranza che in qualunque dimensione lui ora riposi, mi stia ascoltando, mi riesca a vedere.

Non ho omesso nulla, sono stata schietta e sincera.

Spero che apprezzi l'onestà, il mio dono di matrimonio.

La PromessaWhere stories live. Discover now