24. Una sofferta redenzione

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Passai una giornata intera a perdonare chiunque incontrassi. La principessa Enyo che era passata dalla mia stanza per portarmi un vestito nuovo, le guardie regali, le sentinelle, i servi. Il re mi sorprese mentre mi inchinavo a uno spiritello malvagio che si era insediato in un vecchio quadro, al suo cameriere di fiducia, quello che gli portava sempre il liquore, alle ancelle, alle fate che rassettavano le stanze, agli gnomi delle pulizie.

Convinsi la scorta a portarmi nei sotterranei per trovare il vecchio oracolo incartapecorito. Rise della mia cerimoniosità, mi chiese se stessi bene, mi strinse perfino la mano con un affetto sproporzionato. Non sembrava proprio un infanticida millenario. Aveva un volto saggio e buono, come quello di un trisavolo umano.

Infine, andai in cucina, e anche lì iniziai a benedire i passanti come una pia accolita del tempio. Me ne fregavo degli sguardi allibiti, delle guardie sbuffanti, delle espressioni perplesse.

«Ully kai vir no sint.» L'avevo ripetuto così tante volte che avevo la gola secca, le parole apparivano ancor più vuote di quanto già non fossero, completamente snaturate del loro reale significato. Ogni tanto mi impappinavo e ripetevo per tre volte la stessa frase, nella vana speranza che tre fosse un numero divino.

Si era insediata una sorta di compulsione in me, scaturita dall'ossessione che due demoni fossero morti per mano mia, che due demoni da me maledetti non avessero potuto godere della ricompensa per il mio rapimento. Forse erano morti prima dell'alba. Forse non erano mai nemmeno tornati a casa. Li avrei dovuti odiare; avevano cercato di violarmi, erano mostri, non meritavano la mia pietà.

Rimembrai lo sguardo azzurrognolo del lord comandante, le danze protratte per ore.

"Questa è la mia canzone preferita."

Chissà che fine avevano fatto i musicanti, il reggimento, il nuovo lord e la sua viscida faccia da pesce spaventato.

Colpa mia, è stata tutta colpa mia. Colpa mia e della mia stupida ingenuità da mortale.

«Ully kai vir no sint.»

«Che diamine stai blaterando?» Antheia aveva un cappello bianco da cuoca e un mestolo di legno in mano, Khloris stava trasportando sulle spalle un secchio ricolmo di tuberi ancora ricoperti di terriccio.

«Aveva ragione Persea. Le mie maledizioni hanno effetto.» Mi alzai in punta di piedi per cercare la mia piccola amica. Era indaffarata in un angolo, intenta a sbucciare piselli.

«Persea, ully kai vir no sint» le gridai. Quella fece un semplice gesto di commiato con la mano.

Khlo mi afferrò il polso e mi costrinse a sedere su una sedia in un angolo.

Nel frattempo, Antheia, con un sorriso ammaliante che non le avevo mai visto esibire, si era avvicinata alle guardie in punta di piedi con un vassoio in mano su cui aveva adagiato due bicchieri di cristallo. Insisteva affinché assaggiassero un sorso di vino speziato da lei preparato con rugiada del nord e fiori di lampone.

«V., cosa ti è successo? Stai male? Dicono che tu abbia perso il senno!»

Le afferrai i gomiti con gli occhi sgranati. «Sono morti! Il vampiro e il licantropo sono morti!»

Raccontai in breve la storia, alzando la voce in modo da farmi udire oltre le chiacchiere facete che la cuoca stava propinando alla mia scorta impaziente. Mi chiesi se in realtà non fosse una sirena, con quella voce così melodiosa e civettuola, i capelli sembravano aver assunto una tonalità di giallo ancor più intenso, teneva il petto in fuori e sbatteva in continuazione le palpebre, come se le fosse entrato qualcosa nell'occhio.

«Le tue maledizioni hanno effetto solo nei confronti di chi ti ha fatto davvero del male» mi spiegò la saggia nana, dalla parte opposta della stanza. «Non c'era bisogno che benedissi l'intero palazzo, o almeno, non con questa solerzia. Vi state rendendo ridicola, più di quanto già non foste.»

La PromessaWhere stories live. Discover now