33.1 Una fuggitiva disperata

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"Tornerò presto, principessa, tornerò presto. Sd urj ahhklo."


La sua voce rimbombava più forte, durante la fuga. Mi scordai di come potesse essermi parsa romantica, in origine, quella promessa.

Adesso non era nient'altro che una vile minaccia.

La libertà per me aveva il sapore salato del mare sulle labbra, odorava di erba fresca bagnata di rugiada e aveva la consistenza leggera dei batuffoli bianchi dei semi dei pioppi.

La mia non era libertà. Sulle labbra mi era rimasto il sapore agrodolce e ferruginoso dei baci rubati e dei cuori spezzati, le mie narici erano nauseate dall'odore dello sterco dei topi che ancora mi portavo appresso, le membra erano doloranti e i capelli sudati mi oscuravano la vista.

Mi fermai al primo ruscello in cui incappai, tra le colline alberate. Con un coltello da pane mi tagliai i capelli appena sotto le orecchie e poi li tinsi con una pozione blu che mi avevano regalato le mie tre amiche. Non riuscii a specchiarmi nella corrente tumultuosa. Mi liberai della boccetta immergendola nella corrente e ripulii la mia unica posata nell'acqua ghiacciata.

Anche la punta delle dita si era tinta di blu. Le mie mani non erano più umane.

Una mezza-demone, ecco come dovevo apparire. Ma non dovevo mai liberarmi del mantello. Mai.

Il mio corpo emanava un profumo alieno per i demoni, un odore inconfondibile, quello di un essere destinato a perire, quello di una comune mortale.

Sebbene avessi della valuta nelle bisacce appese alla sella, non mi fermai in nessuna locanda segnata sulla cartina geografica, cavalcai ininterrottamente per quattro giorni.

Sostavo solo per far abbeverare il cavallo, nutrirlo con qualche frutto e tocco di pane che in realtà sarebbe stato destinato alla sottoscritta. Riposavo giusto due orette e riprendevo il cammino.

Le foreste del regno di Airene non erano fitte e impervie come a Nöa. Le chiome delle querce lasciavano filtrare l'azzurro del cielo e qualche tiepido raggio dei soli. L'inverno però incombeva e l'umidità la sera formava una nebbiolina palpabile, di un grigio argentato. Sospesa a mezz'aria, sembrava materia viva, fluiva snodata e si spostava col soffiare del vento, si condensava attorno alle radici degli alberi e lasciava liberi solo quei rivoli d'acqua che scendevano dalle lontane montagne innevate.

A Is Nöa ero abituata alla fame, a non mangiare per giorni. Ero abituata al fatto che spesso i miei amici, senza dirmi nulla, mi invitassero a fare colazione da loro. La mamma di Rosaspina, in particolare, preparava sempre una razione doppia per il pranzo della figlia. La mia migliore amica mi chiedeva con finta disinvoltura se la volessi aiutare a finire gli avanzi.

Io non la ringraziavo mai, provavo troppa vergogna.

Mi sembrava di vagare con la mente in un passato remoto, una vita che non mi apparteneva più.

Memorie così lontane, una dimensione crollata su se stessa, credenze che erano state disfatte da cima a fondo. Un tempo la natura controllava il suo potere e gli uomini mortali regnavano sulle terre emerse. Le favole e le leggende degli accoliti del tempio non erano fandonie, non erano parabole metaforiche, espedienti narrativi, vi era una verità crudele celata dietro quelle parole.

Una verità che rappresentava solo metà di una versione molto più complessa.

Perché avevano invaso la nostra dimensione?

Come avevano fatto a mutarla così radicalmente?

"Ti sei mai chiesta se siamo davvero noi demoni i cattivi in questa triste storia?"

La PromessaWhere stories live. Discover now