6. Una rivelazione

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"Non ti spaventa la morte?"

"Perché dovrebbe? Noi mortali siamo tutti destinati a morire."

"Noi immortali ne abbiamo timore, sebbene nessuno di noi sia destinato a morire."

"Perché siete tracotanti. Potreste vivere per sempre in pace e in armonia, ma non fate che combattere e uccidervi a vicenda! Per noi mortali è diverso, abbiamo più cura della nostra vita, perché sappiamo quanto breve e fugace essa sia."

"Quindi la morte non ti spaventa?"

"No, per adesso no."

"A me tantissimo, principessa. La tua morte mi spaventa tantissimo."


A metà di un lungo corridoio, incontrai i miei rapitori.

La regina indossava un lungo abito di velluto nero ricamato con fili dorati. Cinghie sottili ne sostenevano la scollatura profonda, mentre al collo brillava un rubino più grande di una noce matura intessuto con perle iridescenti che riflettevano a loro volta le flebili luci dei candelabri appesi ai muri. Sulla sua testa, tra le corna da ariete, era posizionato un diadema regale.

L'elfo era identico a com'era prima, sembrava solo essersi cambiato di divisa.

Il ranocchio invece portava una tunica porpora che gli arrivava fino ai piedi, probabilmente un abito religioso intuii dal taglio austero.

«Perché è ancora conciata in questo modo?» strillò la demone, fissando i turpi segni sul mio volto.

Una delle guardie fece per aprire bocca, ma l'anticipai con un'inaspettata scarica di coraggio. O forse meglio, di avventatezza. «In kalesh min ully skray, somma regina.»

Non fece una piega.

«E così sia, stupida mortale. Ma non sono la somma regina, sono solo la regina madre. Farai ben presto conoscenza col mio re. Lui sì che ti toglierà quel sorrisino da smorfiosa.»

«Non vedo l'ora.»

Un'unica possibilità.

Lei fu sul punto di fustigarmi con la sua terribile magia, ma l'elfo riuscì a trattenerla all'ultimo. Comunicarono con un gioco di sguardi concluso il quale, dopo un lieve cenno alle guardie, ordinò di procedere verso il luogo in cui si sarebbe tenuta la cena.

Non ero mai stata in un palazzo, l'abitazione più grande in cui mi ero trovata era il tempio, ma anche quello non era nulla a confronto.

I muri erano così alti che faticavo a scorgerne i soffitti, i corridoi labirintici si intrecciavano l'un l'altro, le finestre lasciavano intravedere un mondo ancora avvolto dalle tenebre.

Le gambe iniziarono a tremare al cospetto della sala regale. Doveva essere quello il suo nome, perché non avrei potuto definirla altrimenti. Da lontano il castello mi era parso enorme, ma adesso che mi trovavo lì dentro cominciavo ad avvertire un lieve senso di claustrofobia al contrario. Lo spazio era esageratamente immenso. La cupola distava almeno una cinquantina di metri dal pavimento, il quale a sua volta era composto da ampie piastrelle di resina; imprigionate all'interno era possibile intravedere ossa, teschi e altre reliquie incasellate al suo interno, prigioniere per l'eternità. Una tavola imperiale percorreva la navata principale fino al luogo in cui era stato eretto, su un piano sopraelevato di marmo bianco, il trono. Lo stesso trono che avevo visto raffigurato nel dipinto.

Grazie agli Dèi, era ancora vuoto.

Diversi cortigiani sedevano ai loro posti, alcuni stavano sopraggiungendo chiacchierando, altri si erano già accomodati. Avevano quasi tutti uno sguardo lieto, abiti eleganti e vistosi gioielli attorno al corpo. C'era chi possedeva ali da farfalla, chi un becco da rapace, intravidi una donna dai capelli blu che pareva una sirena, un vampiro dai canini così oblunghi che gli sfioravano il mento, un'antilope con gli occhiali che consultava un giornale a gambe incrociate, un giovane con le orecchie da lupo che sonnecchiava stravaccato sulla sedia, due elfi che amoreggiavano impudenti davanti a tutti presenti.

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